La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Gli intellettuali”. “La favola der lupo” , 3 giugno 1835. “Diteci cose piacevoli, profetateci dolci illusioni”.
La Commedia romana di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.
Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.
Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“La favola der lupo”, 3 giugno 1835
C’era una vorta un lupo, che sse messe
una pilliccia e diventò ppastore,
tarmenteché le pecorelle istesse
s’ainaveno a ubbidillo e a ffàje onore. 4
Ma un canòne mastino, che pper èsse
de ppiù bon naso lo capì a l’odore,
cominciò a dì a l’orecchia a quelle fesse:
“l’amico è lupo, e vò maggnavve er core”. 8
Le pecore strillorno a ppiù nun posso,
ma er lupo pe carmà la ribbijone
mostrò li denti e tte je diede addosso. 11
Che ffeceno ste pecore frabbutte?
Disseno: “er cane, er cane è er zussurrone”:
e lì d’accordo a mozzicallo tutte. 14
C’era una volta un lupo che indossò una pelliccia e diventò pastore. E lo fece tanto bene che le stesse pecorelle si affrettavano premurosamente a ubbidirgli e a rendergli onore. Un grande cane mastino, avendo un buon fiuto, comprese all’odore l’inganno e cominciò a dire alle orecchie di quelle sciocche bestie: “attente, questo pastore amico è un lupo e vi vuole divorare”. Le pecore si impaurirono e cominciarono a strillare a più non posso, ma il lupo, per domare la ribellione, ricorse alla forza, mostrò loro i denti e le assalì. Che fecero allora queste pecore farabutte, sleali? Dissero al lupo: “il cane, il cane è lo spione, il maldicente”. E lì, tutte d’accordo, si misero a morsicarlo, a rifiutarlo, a perseguitarlo.
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).
Le quartine. La storia comincia in dimensione favolistica col familiare “C’era una volta” e l’ambientazione ha un tono di falsa arcadia; meglio lo si potrebbe definire vicino a una favola di Fedro. Il lupo s’impelliccia, è diventato il pastore; le pecorelle, ingannate dal trucco ben riuscito, vanno a rendergli onore. L’enjambement del terzo verso spiega bene il corteo premuroso del gregge. Il “Ma” con cui inizia il quinto verso mette in guardia il lettore del sonetto e l’ascoltatore della favola: c’è la sentinella dell’ovile, un gran cane mastino di buon fiuto (e anche qui aiuta l’uso dell’enjambement tra il quinto e sesto verso) che vuole mettere in guardia quelle bestie ingenue e credulone. Non grida il cane per non far insospettire l’assalitore; si avvicina alle pecore e sussurra loro quello che ha scoperto. Bellissimo è l’inciso ad ossimoro, “L’amico è lupo” del v. 8, ed efficace nella sua crudezza è la continuazione: vò maggnavve er core.
Le terzine. Il cane scompare, le pecore balzano in primo piano con la loro paura esagitata (strillorno a più non posso), l’assonanza in o-o amplifica il loro belato; il lupo, da tiranno sperimentato, raddoppia la ferocia, sa che per domare le ribelli deve infierire e spaventare. L’ultima strofa conclude con amara ironia, le pecore frabbutte di gran carriera confessano: “er cane è er zussurrone” e, finalmente d’accordo, trovano il coraggio –tutte insieme- di dargli qualche morso.
Tanti, che non lasceranno traccia di sé nel mondo, finiranno inconsapevoli nel mattatoio terrificante della Storia. Belli riesce a tenere tutto insieme: la fatica e la gioia dei sensi, la vertigine del pensiero, la riflessione morale, la bassezza cortigiana, l’enigma irrisolto del nostro passaggio sulla terra. Narra i comportamenti della comunità romana e la analizza al microscopio, spietata e insieme ironica, consapevole che gli esseri umani sono un concentrato di debolezza.
Io non so se il nostro poeta avesse letto un madrigale-sonetto scritto nel 1601da Tommaso Campanella, frate domenicano, teologo e filosofo, quando era rinchiuso nelle carceri spagnole di Napoli. “Stavamo tutti al buio (…) Io accesi un lume”.
Stavamo tutti al buio. Altri sopiti
d’ignoranza nel sonno; e i sonatori
pagati raddolciro il sonno infame.
Altri vegghianti rapivan gli onori,
la robba, il sangue, o si facean mariti
d’ogni sesso, e schernian le genti grame.
Io accesi un lume; ecco, qual d’api esciame
scoverti, la fautrice tolta notte,
sopra me a vendicar ladri e gelosi,
e que’ le piaghe, e i brutti sonnacchiosi
del bestial sonno le gioie interrotte:
le pecore co’ lupi fur d’accordo
contra i can valorosi;
poi restar preda di lor ventre ingordo.
Il poeta vuole spiegare che tutta l’umanità è abbrutita e giace in una specie di oscura caverna. La maggioranza dorme, assopita nell’ignoranza; ma ci sono persone, assoldate, servi cortigiani dei tiranni che insistono nel farla dormire, adulandola e rassicurandola con bugie e ipocrisie. Poi ci sono altri ancora, svegli e malvagi, birbanti e corrotti, sempre al servizio dei potenti, che rapinano gli onori e i beni dei dormienti e si abbandonano a piaceri lussuriosi. Il filosofo-poeta accende nelle tenebre un lume per svelare a tutti gli inganni; ma contro di lui si muovono gli uni e gli altri, le pecore e i lupi, i sonnacchiosi e i ladri, gli uni per vendicarsi del loro sonno interrotto, gli altri delle loro malvagità denunciate. Alla fine (strano a pensarsi) le pecore furono d’accordo coi lupi contro i cani; poi, sconfitti i cani, le pecorelle furono preda del ventre ingordo dei lupi che le sbranarono. I cani sono i Domini canes, i cani del Signore, come si chiamavano i frati domenicani (San Domenico era accompagnato da un cane con una torcia in bocca), cani a difesa del gregge cristiano contro i lupi eretici.
Come non cogliere l’attualità sconvolgente di questo testo? Chi sono i cani del Signore di oggi? Chi i cortigiani? Chi i birbanti e i corrotti? E al servizio di chi? Con quali strumenti i sonatori pagati raddolciro il sonno infame? E perché le pecore si fanno così docilmente sbranare dai lupi, che prima le rimbambiscono e poi, con tutta calma, le sfruttano e le derubano? Viene in mente un passo del profeta Isaia che dei figli bugiardi che si cullano nell’ozio diceva: “Sono pronti a dire ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti:”Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni”.
Gennaro Cucciniello