Il “Battesimo di Gesù” nell’interpretazione gotico-cortese dei fratelli Salimbeni ad Urbino (1416) e in quella umanistico-rinascimentale di Piero della Francesca (1445).
Solo trenta anni dividono la composizione di queste due opere eppure tra loro c’è un abisso nella concezione della vita e dell’arte. Entrambe affrontano lo stesso tema, il “Battesimo di Gesù”. Il primo dipinto, un affresco, si trova ad Urbino, nell’Oratorio di S. Giovanni Battista, ed è una tra le “Storie del Battista”; fu fatto nel 1416 ed è opera dei fratelli Jacopo e Lorenzo Salimbeni, marchigiani di San Severino, in provincia di Macerata; essi composero nella loro città natale un altro ciclo, dedicato alle “Storie di S. Giovanni Evangelista”, che ora si trova nel museo locale, con caratteristiche, intonazioni e stile assai simili. L’altra opera, “Il battesimo di Gesù” di Piero della Francesca, di eccelso valore simbolico e figurativo, presumibilmente fu dipinta tra il 1440 e il 1450 e si trova ora nella National Gallery di Londra. La comparazione tra queste due pitture ci permette di sviluppare una riflessione sulle caratteristiche e i significati di una rivoluzione intellettuale e stilistica che in Italia –nella prima metà del ‘400- vide il passaggio dall’arte fiorita del gotico internazionale alla concentrazione assoluta ed essenziale dell’umanesimo prospettico toscano e centro-italiano.
I committenti. Proviamo a descrivere e ad interpretare la prima opera, quella dei fratelli Salimbeni, inserita in un più ampio ciclo con le “Storie di S. Giovanni Battista” affrescate in questo Oratorio, che risale alla fine del Trecento e che è ritenuto il monumento più interessante di Urbino dopo il Palazzo Ducale dei Montefeltro. Con tutta probabilità a commissionare il ciclo furono i membri della Confraternita dell’Oratorio, una delle più antiche e importanti della città, come si desume anche dalle figure di gentiluomini sparse in abbondanza nel racconto figurato.
Lo stile. C’è un gusto spiccato per la narrazione vivace e gli accenti popolareschi, un acuto spirito di osservazione –minuzioso fin nei dettagli- che si spinge fino alla divagazione indifferente al dramma che si sta compiendo. Si noti nella grande scena della “Crocifissione di Cristo” un espressionismo tragico nei corpi contorti dei due ladroni, negli angeli piangenti, nell’urlo straziato della Maddalena e di Giovanni, nel patetico gruppo delle Marie che sorreggono la Vergine svenuta e –insieme- il tono divagante e quasi sfaccendato di molti episodi minori: gruppi di cavalieri eleganti sullo sfondo, soldati che giocano a dadi, cagnolini che si grattano, la madre che afferra il bambino che sta per essere travolto dalle zampe di un cavallo imbizzarrito, ragazzini che litigano proprio ai piedi del Calvario. Nelle storie affrescate il racconto è sciolto e disteso, affabile e cortese, la vita di ogni giorno è colta nei suoi vari aspetti con piglio cronachistico, una descrizione precisa e immersa in un’atmosfera lucida ma insieme vagamente fiabesca: agli episodi più significativi della vita del Battista assistono sempre gruppi di gentiluomini vestiti all’ultima moda, i volti tanto ben caratterizzati da essere veri e propri ritratti, eleganti signori che –appena scesi da cavallo- si dirigono verso un oste che mesce il vino, popolani che bevono allegramente. La qualità pittorica, sempre molto alta, tocca vertici di alto virtuosismo nel particolare degli angeli variopinti, con le ali intarsiate di madreperla, che –proprio nella scena del “Battesimo” svaniscono a poco a poco nel pulviscolo d’oro delle nuvole attorno a Dio Padre. Desta molto interesse un particolare: al centro di questo riquadro è evidente l’asse verticale che unisce l’Eterno, la colomba bianchissima dello Spirito Santo, la ciotola impugnata da S. Giovanni e la testa nimbata di Gesù, un elemento compositivo che ritroveremo nell’opera di Piero. Qui si respira l’aria rarefatta e delicata del gusto cortese del gotico internazionale ma l’importanza di questo ciclo di affreschi è data dalla compresenza dei due fondamentali volti del gotico: quello più aristocraticamente lineare di casa a Parigi, a Milano, a Verona, a Colonia e l’altro –dalle forme più pesanti, dall’intensa e a volte scomposta espressività, con colori acerbi e squillanti- che troviamo in Boemia o a Bologna. Quello che va spiegato è l’itinerario attraverso il quale questi spunti così diversificati si riuniscono proprio nelle Marche.
Il contesto culturale e artistico. E’ evidente che i fratelli Salimbeni dovevano aver recepito la lezione di Gentile da Fabriano, forse visto all’opera proprio nella loro città natale, San Severino Marche, dove il grande pittore aveva eseguito degli affreschi nel Duomo vecchio, oppure a Perugia. Nelle Marche le influenze internazionali anche dei gusti artistici erano favorite dagli stretti rapporti che legavano le piccole signorie locali al Veneto, alla Lombardia (basti pensare che Pandolfo II Malatesta, signore di Fano, lo fu anche di Bergamo e Brescia), all’Emilia. L’ampio circuito degli scambi si apriva anche a sollecitazioni internazionali, con quello stile sofisticato e prezioso che accomuna le corti europee grandi e piccole tra ‘300 e ‘400. La regione, nel pulviscolare microcosmo delle sue signorie piccole e grandi, sparse in un territorio nello stesso tempo appartato e aperto alle comunicazioni, con montagne aspre e scontrose ma anche con l’ondulata dolcezza delle colline e l’accogliente ospitalità d’una costa bagnata da un mare facilmente navigabile e trafficatissimo, era l’ambiente ideale per scambi i cui più importanti veicoli di rapida diffusione erano le miniature, l’oreficeria, gli avori, gli arazzi, i tessuti pregiati, insomma i prodotti di lusso. Le città, pur se piccole, erano ricche di mercanti attivissimi e di abili artigiani della carta, delle pelli, dei panni di lana e di seta; i suoi artisti si spostavano facilmente a Bologna, a Padova, a Milano, a Perugia, a Firenze, apportando al gusto locale tutte le novità figurative più moderne.
Un anello di congiunzione. A Roma, tra il 1426 e il 1428, dieci anni dopo questi affreschi di Urbino, sono presenti contemporaneamente quattro grandissimi pittori italiani, i più celebri del momento: Masolino, Masaccio, Gentile da Fabriano e Pisanello. I primi due sono impegnati ad affrescare una cappella nella basilica di S. Clemente, e lo saranno fino alla traumatica e improvvisa morte di Masaccio nel 1428; committente della decorazione era il cardinale Branda Castiglione, prelato coltissimo e attivissimo diplomatico, coinvolto nella preparazione del Concilio convocato a Firenze nel 1439 per favorire il riavvicinamento tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, e che tanto impressionerà Piero (come ho già fatto notare nel commento al ciclo delle “Storie della Croce” di Arezzo). Negli stessi anni Pisanello e Gentile da Fabriano stanno lavorando al loro celebre e perduto ciclo di affreschi in San Giovanni in Laterano, anch’esso dedicato al Battista e rimasto incompiuto alla morte di Gentile nel 1427. Il cardinale Branda nel 1435 commissionerà a Masolino la decorazione del Battistero nel suo borgo natale di Castiglione Olona (Varese), sempre con un ciclo di affreschi centrati sulle “Storie del Battista”. E sarebbe problema di indubbio interesse poter approfondire le somiglianze e le differenze tra questo e i cicli precedenti suindicati, anche alla luce delle propensioni per fantasiosi incontri ravvicinati tra favole goticheggianti e razionalità rinascimentale in alcuni importanti centri italiani (si veda la bella mostra che si è aperta a Siena nei giorni scorsi su “Le arti a Siena nel primo Quattrocento”, nel complesso di S. Maria della Scala).
“Il Battesimo di Gesù” di Piero della Francesca, 1440-1450, Londra, NationalGallery.
I committenti. La tavola fu commissionata con tutta probabilità dalla Badia camaldolese di Borgo Sansepolcro: può perciò essere considerata una celebrazione dell’avvenuta (per quanto effimera) riconciliazione tra le Chiese d’oriente e d’occidente –sancita dal Concilio di Firenze del 1439- in cui aveva giocato un ruolo di grande spicco il Padre Generale dei Camaldolesi, Ambrogio Traversari, plenipotenziario della Chiesa romana nelle trattative con i greco-ortodossi, rappresentati da Bessarione, arcivescovo di Nicea. Il dipinto si trovava in origine proprio a Sansepolcro, nella chiesa della Badia, dove era stato sepolto il Traversari. Ora è nella National Gallery di Londra.
Una descrizione. La tavola è costituita da due quadrati sovrapposti sormontati da un semicerchio, il cui centro geometrico è occupato dalla colomba dello Spirito Santo. Lo spazio è un paesaggio aperto fino all’orizzonte, pieno di luce chiarissima e trasparente. Siamo nel paesaggio appenninico della val Tiberina: il fiume che scorre dolcemente riflette nell’acqua cristallina il cielo, le nuvole, le colline, le figure umane. Sembra una scena primaverile, la prima dopo i freddi dell’inverno; i campi sono lavorati e gli alberi hanno le foglie lucide. Nel descrivere la scena partiamo da sinistra. Il tronco di un albero, liscio e puro come il fusto di una colonna (sembra un faggio dei boschi di Laceno, a Bagnoli, in Irpinia!), divide il dipinto in due parti: a destra la scena del battesimo, a sinistra lo stupendo gruppo angelico che assiste al prodigioso avvenimento. I tre angeli , incoronati, assistono all’evento tenendosi la mano in segno di concordia (poi ne capiremo il significato), uno anzi appoggia familiarmente la mano sulla spalla dell’altro; hanno vesti di tre colori, rosso bianco e azzurro; sono disposti in modo da favorire la visione in profondità; sono statuari come colonne sulla tornitura delle grosse caviglie. Al centro c’è un asse compositivo verticale, paradigmatico, che coordina le figure connesse strettamente all’episodio evangelico e quindi all’epifania trinitaria come rivelazione assoluta della verità cristiana. Al di sotto dell’ombreggiatura verde dell’albero veleggia, immobile, la colomba dello Spirito Santo, in asse perfetto con la mano ferma del Battista, la ciotola con l’acqua del Giordano, il volto immobile e ieratico di Gesù, il suo perfetto corpo colonnare. Tra Cristo e l’angelo si indovina il profilo di Sansepolcro. Nel dipinto c’è un altro asse, orizzontale, orientato prospetticamente, e che indica la dimensione umana, quella dove scorre la storia, che pure s’interseca con quella divina rappresentata da Cristo. Su questo asse Piero pone gli angeli, il catecumeno che si sta spogliando per ricevere anch’egli il sacramento, i farisei –ricordati dal Vangelo di Matteo (3, 7-11)- vestiti con ricchi abiti orientali. Infine, ogni particolare naturalistico è ricordato con una ferma e insieme commossa trepidazione: le pianticelle prossime al greto del fiume, il cielo a specchio sull’acqua immobile, la corona di rose dell’angelo di mezzo, le macchie delle coltivazioni sulle colline costellate da tronchi d’alberi abbattuti, la densa vita del fogliame che l’aria penetra nell’ombra. Le figurette sullo sfondo dovrebbero rappresentare dei pastori.
La simbologia. I tre angeli ripeterebbero il simbolo della Trinità, come confermano i colori scelti per le loro vesti (l’azzurro, il rosso e il bianco). Essi rappresentano il Padre (col prezioso monile sulla fronte), lo Spirito (vestito di bianco) e il Figlio. Quest’angelo è il più vicino alla figura di Gesù e ha sulla spalla sinistra la sua veste. Essi si tengono per mano: è un gesto che simboleggia Concordia, allusione alla concordia tra le Chiese d’oriente e d’occidente sancita nel Concilio di Firenze del 1439, richiamato anche dai personaggi in vesti esotiche che compaiono sullo sfondo. Uno dei problemi teologici principali affrontati dal Concilio riguardava appunto il dogma trinitario, per il quale si trovò una formulazione in grado di soddisfare i rappresentanti di entrambe le Chiese. Due angeli, in effetti, si abbracciano e si stringono una mano, mentre il terzo in primo piano ha la mano destra sollevata a metà del corpo con la palma rivolta verso il basso e le dita distese, in un antico gesto classico che significa appunto “Concordia”. Sarebbe troppo lungo andare nel dettaglio iconologico indagato bene dal Bussagli in un articolo su Arte-Dossier: sembra certo comunque che il significato generale del quadro sia la raggiunta concordia tra le due Chiese.
Riaffiora inoltre il motivo della compresenza dei temi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Le tre figure angeliche, infatti, si riferirebbero anche all’episodio biblico dell’apparizione dei tre angeli ad Abramo sotto la quercia di Mamre (Genesi, 18, 1-3), quercia che qui diviene un bel leccio che si staglia sullo sfondo della valle. L’episodio abramitico è sempre stato letto come una prefigurazione del dogma trinitario di cui il Battesimo, insieme alla Trasfigurazione sul monte Tabor, costituisce la manifestazione evangelica. La disposizione delle tre figure ripete la medesima successione che si riscontra lungo l’asse verticale mediano dove lo Spirito volteggia sopra la testa del Cristo e quindi tra il Figlio e il Padre, che compariva nel perduto tondo della cornice. A destra c’è un neofita che si sta spogliando: la sua figura si staglia sullo sfondo incupito di vecchi sapienti che discutono senza riconoscere la verità: ”Venne la luce del mondo ma i suoi non l’hanno accolta”. Nei tronchi di alberi abbattuti sullo sfondo di destra non sarà difficile rintracciare la citazione del passo di Matteo (3, 10) riferito a Farisei e Sadducei, contro i quali il Battista scagliava infiammate invettive: “ogni albero che non fa buon frutto si taglia e si getta al fuoco”. Le figurette sullo sfondo dovrebbero rappresentare i pastori che additano nella Colomba la luce che li condurrà alla Verità; il che non esclude che Piero voglia giocare sull’ambiguità fra i Magi che vengono da oriente, come i cardinali bizantini presenti al Concilio, e il fatto che questi sono, per definizione, pastori d’anime.
Infine il fusto liscio e chiaro dell’albero, posto in grandissima evidenza, si confronta col corpo di Gesù: esso simboleggia l’albero di Abramo, che protegge il giusto con le sue fronde, ma anche il “lignum vitae”, la salvezza portata dal sacro legno della Croce. La colomba, forma visibile dello Spirito Santo, veleggia immobile ad ali aperte. Il pittore ha scelto di concentrare il misticismo della scena su questo emblema, senza raffigurare Dio Padre nel cielo. La perfetta immobilità della parte centrale del dipinto, fra il volto di Cristo e la colomba dello Spirito, sembra quasi coinvolgere anche l’acqua versata dalla ciotola del Battista.
Lo stile. Molte delle osservazioni che qui scrivo riprendono gli assunti del commento al ciclo delle “Storie della Croce” che Piero affrescherà tra qualche anno nella chiesa di Arezzo.
L’albero in primo piano, con la sua scorza chiara come la pelle umana, costituisce il modulo su cui sono costruiti i corpi: albero-colonna, come piccole colonne sono le caviglie degli angeli, le gambe di Cristo e del Battista. E’ evidente l’analogia tra il tronco dell’albero e i corpi nudi: tutti tendono alla forma ideale del cilindro, della colonna. E il corpo del battezzando che si spoglia, in secondo piano, è incurvato per seguire l’ansa del fiume e la curva blanda dell’orizzonte. Ci sono un calcolo accorto e una sottile intelligenza: il tronco dell’albero equilibra la figura di Giovanni Battista, i tre angeli di sinistra il battezzando che si spoglia e i farisei in abito orientale nello sfondo a destra; la testa di Gesù, stagliata davanti al cielo e isolata dal profilo delle colline, è il centro focale della tavola. Anche qui Piero usa gli strumenti della geometria per accentuare la sacralità e la ritualità della scena. L’ossatura geometrica che governa la composizione rimanda ancora una volta alla tematica trinitaria, riprendendo il pensiero che nelle figure geometriche semplici e negli aspetti matematici in generale riconosceva le metafore dell’Assoluto. Il grande filosofo e cardinale Niccolò Cusano aveva scritto: “Poiché alle cose divine si può accedere solo per simboli, ricorreremo ai segni matematici come a quelli più convenienti per la loro irrefragabile certezza”. Proprio alle dipendenze del card. Cusano Piero si troverà dal 22 gennaio 1459 a Roma, chiamato dal papa ad affrescare delle Stanze in Vaticano. Lo schema geometrico di questo dipinto sembra proprio ispirato alle idee geometrico-filosofiche espresse da Cusano nella sua opera “De docta ignorantia”, scritta nel 1440. Non si può seriamente dubitare della componente platonica e agostiniana del suo pensiero. In un universo pittorico così lungamente pensato e scientificamente costruito, dove l’impianto geometrico e quello prospettico non sono altro che elementi simbolici per rappresentare la dimensione dell’Assoluto di cui la realtà sensibile e naturale è specchio, anche i personaggi che lo occupano e lo popolano devono essere coerenti con esso. Essi infatti incarnano dei valori assoluti: sono figure mentali che occupano uno spazio mentale, per cui sono il contrario dell’accidentale e dell’occasionale.
La luminosa corporeità di Gesù sembra derivare dai mosaici ravennati e si affianca al candore dell’albero, di un angelo e del neofita. Quanto ai colori, le tinte si contrappongono e si riprendono bilanciandosi, moltiplicate in un’infinita gamma di toni; la luce annulla ombre e contorni, saldando in un’uguale nitidezza le figure colonnari e il paesaggio. Questa visione unitaria e pacata, governata da leggi matematiche, non lascia posto al movimento confuso e alla contingenza spicciola, libera le scenette di cronaca quotidiana dalla stucchevole leggerezza dell’aneddotica pittoresca.
Si conferma l’indifferenza totale di Piero per il racconto divagante e pieno di dettagli cronachistici, per la narrazione quotidiana, particolari di cui sono ricchi invece gli affreschi goticheggianti. Così in questa sua rievocazione compare un solo catecumeno, in antitesi precisa e voluta col testo evangelico secondo il quale folle di pellegrini accorrevano da Giovanni Battista “e da lui si facevano battezzare nel Giordano mentre confessavano i loro peccati” (Matteo, 3, 6). Ma quel neofita, proprio perché unico, è molto più efficace, per esempio, di quelli che appaiono nell’affresco di identico soggetto dipinto quasi negli stessi anni da Masolino nel Battistero di Castiglione Olona: quelli infatti si spogliano e si asciugano come fossero dei bagnanti qualsiasi, questo –curvo come l’ansa del fiume- rappresenta l’intera umanità che si libera, grazie al sacramento, del peso intollerabile del peccato. Non mi sembra irrilevante il constatare che al Louvre c’è un disegno del Pisanello, impegnato a lavorare nel suo ciclo sul Battista in S. Giovanni in Laterano a Roma, in cui è inserita ex novo la figura del neofita che si spoglia, tratta da un sarcofago romano con scene dionisiache.
Il contesto storico e culturale. Nel 1435 i turchi si trovavano quasi alle porte di Bisanzio. Il Paleologo, penultimo imperatore d’Oriente e capo spirituale dei greci ortodossi, aveva chiesto aiuto all’Occidente in nome di Cristo, lasciando capire che si sarebbe sottomesso al papa in cambio di eserciti soccorritori. Il pontefice Eugenio IV, intuendo che era arrivato il momento buono per la riconciliazione, aveva subito proclamato il Concilio. L’arrivo del Paleologo nel 1439, prima a Venezia poi a Ferrara e a Firenze, fu un avvenimento straordinario sotto molti aspetti. L’idea che Bisanzio venisse presa dai maomettani, come era avvenuto per Gerusalemme qualche secolo prima, turbava le coscienze dei cristiani più sensibili e colti. Quindi c’erano molte speranze per il Concilio, un senso di rinnovata cristianità che non poteva non diffondersi in tutti gli ambienti, compresi quelli artistici. Da un punto di vista strettamente visivo lo spettacolo dato dal seguito del Paleologo nelle vie delle città italiane era risultato travolgente. I fiorentini rimasero attoniti nel vedere sfilare lungo le loro strade strani personaggi vestiti con caffettani e manti preziosi, che portavano copricapi inverosimili, fiancheggiati da servi mori e mongoli e accompagnati da cammelli ricoperti con lussuose gualdrappe. L’immaginazione di Piero rimase così colpita da questi personaggi che continuerà a raffigurarli per anni nei suoi dipinti (v. anche il ciclo famoso di Arezzo). Qui s’intravedono in fondo, sulla destra, dietro il neofita che si toglie il vestito e rappresentano i farisei e i sadducei del racconto evangelico.
Conclusione.
Abbiamo fatto una piccola, e spero gradevole, passeggiata tra queste opere d’arte, nel corso della quale piccole pillole di attenzione e di meditazione possono apportare al lettore e allo spettatore piacere e cultura e, perché no, anche ricchezza (spirituale). Sono sempre più convinto che occorra sollecitare con pazienza il risveglio del gusto, del senso del bello, la rivincita della coscienza e dell’interiorità in una società sempre più vetrinizzata su un presente effimero e volgare, in un mondo ridotto a una camera di specchi.
Gennaro Cucciniello