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E’ questo un promemoria inviato –alla fine del Settecento- al re delle due Sicilie da don Capassi, parroco di un paesino della Lucania, nel quale il sacerdote invoca un diretto intervento regio per soccorrere i contadini del luogo stremati dalle speculazioni usuraie dei benestanti. Il testo esprime una carica forte di rabbia e insieme una rassegnazione sconsolata, getta nuova luce sul rapporto tra i proprietari e i contadini e sul drammatico contrasto di classe di quegli anni di fine Settecento, rivela la fiducia della povera gente in un presunto ruolo “popolare” della monarchia, denota la funzione importante svolta nelle campagne dal basso clero. I parroci spesso condividevano le misere condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione e prendendone –come potevano- le difese sapevano assumere, nei momenti di crisi, anche la direzione politica dei contadini: elementi, questi, che vanno sempre tenuti presenti nel giudicare l’esperienza tragica della rivoluzione giacobina del 1799 e analoghe ripetizioni nel corso dell’Ottocento. Un altro dato da sottolineare è la connivenza degli amministratori comunali con i ricchi proprietari: segno di un consolidarsi, politico-amministrativo, di un fronte borghese. Il testo, custodito nell’Archivio di Stato di Napoli, Finanze, fascio 2869, è stato edito da A. Lepre, “Contadini, borghesi ed operai nel tramonto del feudalesimo napoletano”, Milano 1963, pp. 281-284 ed è consultabile anche nel saggio, da me curato, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano 1975, pp. 144-146.
8 giugno 1793: la protesta di un parroco di un paesino lucano contro le sopraffazioni dei ricchi.
Signore, mi vedo nel preciso obbligo di divotamente rappresentare a Vostra Maestà come questi poveri Vostri Vassalli si vedono quasi presso alla disperazione, se colla solita Paterna Clemenza non li sottrae dagli vuoti artigli di alcuni ricchi di qui, che intendono colla via della prepotenza esigere il grano credenzato (1) in quest’anno all’esorbitante prezzo di carlini trenta o trentadue per ogni tomolo, e di carlini venti e ventidue per il tomolo de granodinia (2), e riceversi poi li grani nuovi all’infimo prezzo di carlini dieci il tomolo, e di carlini sei il tomolo di granodinia, vale a dire che per ogni tomolo di grano credenzato se ne vorrebbero ricevere tomoli tre, e così per il granodinia (3).
Se la potente mano di V. M. non dà un pronto, e sollecito riparo, saranno guai irreparabili, e se nell’anno presente si fa la vigilia, nell’anno avvenire si farà senza dubbio la festa colla morte di tanto poveri vostri Vassalli, che periranno della fame, ed ancorché per ogni tomolo seminato se ne raccogliessero dodici o quindici (loché non può sperarsi per la sterilità del territorio) pure non basterebbero a covrire li tanti debiti contratti e li tanti pesi.
Si ricorda felicemente V. M. che nell’anno penurioso del 1764 per sollievo de’ poveri vassalli si benignò ordinare che li grani credenziali si fussero tassati alla ragione di carlini 24 il tomolo, nonostante che si comprava a ducati cinque per ogni tomolo; or se in quell’anno si diede a creditori il prezzo di carlini 24, in quest’anno si deve dare un prezzo più mite, e più equo per soccorso de disgraziati Vassalli, e così tassarsi ancora il granodinia, ed ecco la ragione. Li locupleti (4) han comprato il grano in agosto ’92 alla ragione di carlini 15 il tomolo, han comprati il granodinia al prezzo di carlini dieci il tomolo; basterebbero per essi carlini cinque per ogni tomolo in ragione di avvanzo (5), e perciò dovrebbe stabilirsi il prezzo de’ grani credenzati a carlini 20, e quello de granodinia a carlini 15, e così il ricco non riderebbe sulle spalle dei poveri, e il povero accetterebbe di buona voglia la legge, o pure stabilirsi per punto generale, che per ogni tomolo di grano credenzato si esigessero dai Credenzieri misure sei di grano dippiù, e misure sei ancora di granodinia, per ogni tomolo, altrimenti saranno del continuo maltrattati i vostri Vassalli.
Signore, li ricchi si riducono a 10 o 12; ma li poveri sono circa 2400, questi son quelli che mantengono in parte la Real Corona, e non già essi, perché chi per via di prepotenza, chi per altri iniqui sotterfugi o poco o niente pagano al catasto, e li poveri sono quelli che esattamente portano la croce sulle spalle.
Dirà V. M. perché ho avuto Io la premura di riferire genuinamente li fatti e non l’han fatto li rappresentanti di questa Università (6)? Mi son mosso, perché a me preme la salute de’ vostri Vassalli, e miei figli, e non preme a’ rappresentanti perché sono nell’istessa nave dei ricchi. Pregai li medesimi in forza dei Vostri Reali ordini comunicatimi dal vescovo di Muro, che avessero ad esempio di altri Benestanti e ricchi di grano esercitato la Cristiana carità coi poveri col vendere il loro grano a minor prezzo del corrente, e con lunga dilazione, a solo effetto di soccorrere i miserabili, lo predicai in Chiesa facendo loro vedere i doveri di buoni cittadini, ma non fui inteso, come non furono intese le belle esortazioni di V. M., anzi con dispiacere viddi con propri occhi vendere il grano a forastieri, e far perire dalla fame i poveri Vostri Vassalli, come periscono oggi senza speranza d’aiuto. Il pane si è avvanzato a grana sei il rotolo, e si va avvanzando da giorno, in giorno, ma non se ne trova. Si dolgono presso di me, ma non ho come aiutarli né con grano né con denaro, e Dio sa come posso mantenere la mia famiglia. Insomma si geme sotto al torchio della prepotenza, e se V. M. non provede si vedranno de popolate le Vostre terre. Che perciò colle lagrime agli occhi la supplico a dare un giusto compenso a ricchi per l’esazione già prossima, ed a rimediare per le ulteriori necessità per non veder perire avanti de miei occhi l’amati vostri Vassalli.
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(1) grano dato a credito.
(2) granturco, mais. Cfr. un passo del Soderini: “Il turcherio frumento altri lo chiamano grano d’India”; e ancora il Genovesi: “l’America ha il mais che noi chiamiamo grano d’India”.
(3) Il meccanismo speculativo è semplice e nel Mezzogiorno d’Italia lo si chiamava “contratto alla voce” (v. sotto).
(4) i ricchi.
(5) come profitto.
(6) è l’amministrazione comunale.
*Il contratto alla voce. “Il contratto consisteva nell’acquisto del prodotto (grano, olio, vino) prima che venisse a maturazione in base a un prezzo o voce, che veniva fissato al momento del raccolto, quando cioè l’aumento dell’offerta causava un ribasso del valore di tali prodotti. Per cui, benché le “voci” fossero fissate pubblicamente sulle varie piazze locali, esse, oltre a variare notevolmente da piazza a piazza, non erano mai remunerative per i coltivatori (piccoli proprietari, coloni, fittavoli), ma solo ampiamente lucrose per i negozianti, appunto, o anche per i grandi proprietari o per le persone comunque abbienti. Costoro, infatti, anticipavano il denaro ai primi al momento di dare inizio alla semina o alle altre attività agricole, quando cioè l’assoluto bisogno del denaro necessario a tale scopo, non offrendo altra scelta, obbligava quelli ad accettare le condizioni di questi. Questi contratti, pertanto, strozzavano alla base ogni effetto positivo che poteva accompagnarsi all’anticipazione di denaro per i lavori agricoli, dando a tale operazione il carattere dell’usura, accrescendo paurosamente il debito dei coltivatori e dei piccoli commercianti di prodotti agrari e limitando in misura decisiva i benefici che essi avrebbero potuto trarre da un’attività produttiva diretta a soddisfare un ampio mercato di consumo. Questi contratti, infine, conferivano una fisionomia arretrata e stagnante al processo di mercantilizzazione dei prodotti agrari, avutosi nella seconda metà del ‘700, inceppando lo sviluppo del meccanismo di accumulazione capitalistica e subordinando, di fatto, la vita economica delle campagne allo sfruttamento parassitario del grande e medio capitale mobiliare di origine agraria o urbano-mercantile” (G. Aliberti). Per un esempio concreto di “contratto alla voce” cfr. quello riprodotto da R. Villari, in “Mezzogiorno e contadini nell’età moderna”, Laterza, Bari, 1961, pp. 41-42.
Gennaro Cucciniello
Una quarantina di anni dopo, il 29 ottobre 1833, un sonetto del Belli così satireggiava la vita agiata del clero romano:
Er pover’omo
E’ una spece de quer che me successe
a me, lì da l’Impresa a la Missione.
Passava un prelatino; e un lanternine
de decanaccio je veniva appresso.
Io je stese la coppola; e quer fesso
sai che me disse? “Fatica, portrone”.
Ma eh? sò ppropio scene? Er bove adesso
dice cornuto all’asino. Ha raggione.
Dimme portrone a me, pe cristallina,
che quanno viè la sera che me corco
nun me sento ppiù l’ossa de la schina!
Mentre che loro, fiji de miggnotte,
fanno la vita der Beato Porco
tra annà in carrozza, maggnà, beve e ffotte.
Ti racconto quel che è successo proprio a me, lì dal Largo dell’Impresa del Lotto a via della Missione, presso Montecitorio. Passava un prelatino elegante, seguito da un servitoraccio alto e mal fatto. Io gli stesi il mio berretto chiedendo l’elemosina; e quello sgarbato sai che mi disse? “Lavora, poltrone ozioso”. Ma sono scene queste? Adesso il bue dice cornuto all’asino. Ha veramente ragione.
Dirmi “poltrone” a me, proprio a me, che quando arriva la sera e vado a dormire non sento più le ossa della schiena. Mentre loro, questi prelati, figli di bagasce, fanno la vita del Beato Porco tra l’andare in carrozza, mangiare, bere e fare sesso.