“ Er ferraro” di Giuseppe Gioacchino Belli. 26 dicembre 1834.
Pe mantené mi’ moje, du’ sorelle,
e quattro fiji io so c’a sta fucina
comincio co le stelle la matina
e ffinisco la sera co le stelle.
E quanno ho messo a risico la pelle
e nun m’arreggo ppiù ssopr’a la schina,
cos’ho abbuscato? Ar zommo una trentina
de bajocchi da empicce le budelle.
Eccolo er mi’ discorzo, sor Vincenzo:
quer chi ttanto e chi gnente è ‘na commedia
che m’addanno oggni vorta che ce penzo.
Come! io dico, tu ssudi er zangue tuo,
e ttratanto un Zovrano s’una ssedia
co du’ schizzi de penna è ttutto suo!
Il fabbro ferraio
Per mantenere mia moglie, due sorelle e quattro figli io so che in questa mia officina io comincio a lavorare all’alba con le stelle e finisco a notte, ancora con le stelle. E quando ho messo a rischio la mia pelle e non mi reggo più, cosa ho guadagnato? Al massimo, una trentina di monetine con le quali ci si riempie l’intestino. Questo è il mio discorso, signor Vincenzo: quel proverbio del chi tanto e chi niente è una commedia che mi danno ogni volta che ci penso. Ma come! dico io, tu sudi il tuo sangue e nel frattempo un re, seduto comodamente su una poltrona, fa due schizzi di penna ed è tutto suo.
Prima quartina. Il protagonista presenta in successione tutti gli elementi necessari al lettore per comprendere ed entrare nella sua vita di duro lavoro. Anzitutto, lo scopo delle sue fatiche: egli si trova a dover mantenere una famiglia numerosa, otto persone, lui compreso. E’ da notare come il numero dei componenti sia posto in modo geometricamente progressivo: una, due, quattro. Una simile costruzione a climax numerico è rinvenibile anche nel sonetto, “La bona famija”, in cui si parla di “un carboncello, du’ fronne d’inzalata, quattro nosce”. Abbiamo poi il luogo, la fucina, unico dato che consente di capire con esattezza il tipo di lavoro svolto dal nostro eroe. In chiusura due versi dedicati al tempo: entrambi iniziano con dei verbi; comincio e finisco indicano, naturalmente, il principio e la fine della giornata lavorativa; tuttavia essi sono uniti, oltre che dall’assonanza, dal particolare (ripetuto) delle stelle, presenti sia la mattina presto che la sera tardi, e che il poeta unisce a chiasmo (co le stelle la matina / la sera co le stelle), con una sottolineatura di durata, di continuità temporale insopportabile, di notte infinita, di un cielo stellato che dà sensazioni di pena e non consente svenevolezze romantiche. Questo del fabbro è un lavoro artigiano pesante, con scarsissimo profitto, quasi di sola sopravvivenza: dà comunque l’idea di una Roma popolare tutta impegnata a faticare giorno e notte, in contrasto col solito e stereotipato quadro d’indolenza e di pigrizia dei meridionali. E’ una constatazione molto vicina ai rilievi che Goethe, a fine ‘700, aveva fatto a proposito della brulicante attività dei lazzari a Napoli.
Seconda quartina. Campeggia un’amara constatazione: essa deriva dal contrasto tra l’enorme fatica compiuta e l’esiguo guadagno che se ne è ricavato. Il fabbro si pone una domanda retorica: “cos’ho abbuscato?” dopo aver messo a rischio la vita, compromesso la salute, sottoposto il fisico a una fatica immane? Al massimo, una trentina di baiocchi, appena sufficienti a placare la fame di tutti i suoi, giacché la prima preoccupazione, il fine principale a cui sono destinati i pochi soldi guadagnati è proprio questo. La strofa è particolarmente giocata sugli elementi corporei, siano essi metaforici (la pelle sta ad indicare la vita e la schiena rappresenta il corpo umano eretto nella sua totalità) o schiettamente fisici (le bbudelle). Il polisindeto all’inizio del quinto e sesto verso (e quanno, e nun) –uniti fonicamente dall’allitterazione in N- ha lo scopo di rendere spontanea e consequenziale la domanda del fabbro, pronta a sfociare in uno sfogo contro una realtà così ostile. La rima (pelle – budelle) una volta di più fa riflettere sulla corporalità, sulla fisicità della vita popolare. Ne nasce una notazione ideologica: è difficile che possa esistere iniziativa politica o di rivolta sociale in questa plebe (moti agognati e invocati dai carbonari e dai mazziniani dell’epoca), lavoratori isolati e costretti alla fisicità elementare e materiale del vivere.
Prima terzina. Ha inizio il “discorso” vero e proprio, sottolineato dall’uso di esclamazioni, introdotto in maniera molto esplicita con quell’”Eccolo”, subito seguito dal riferimento diretto al “sor Vincenzo”, l’interlocutore scelto a far da sponda. Il noto modo di dire, “chi ttanto e chi gnente”, troppo spesso usato per denunciare ma anche giustificare fatalisticamente le ingiustizie di questo mondo, di solito esprime come meglio non si potrebbe l’accettazione popolare della propria condizione di povertà e di sfruttamento. Certo, al solo pensiero di questa inspiegabile ed immutabile legge ci si danna, ma non è consentito altro che uno sfogo, qui presente nella strofa che segue. Con il passaggio alle terzine il poeta si distacca dalle vicende personali e approda a notazioni generali. Molto interessante è la definizione data dal Belli a quel patrimonio di detto popolare: “è una commedia”; non rappresentazione teatrale, naturalmente, ma evocazione delle vicende umane in tutti i suoi registri esistenziali, quasi una ripresa della “Comedìa” dantesca.
Seconda terzina. E’ rabbioso il “Come!” iniziale, ripreso nell’allitterazione del “co du’ schizzi” dell’ultimo verso. “Io dico” appare quasi un inciso perché il discorso riprende subito con “Tu ssudi er zangue tuo”, una costruzione personale di grandissima efficacia. Ora il fabbro non narra più in prima persona, sembra porsi quasi come un osservatore esterno ma non per questo imparziale. L’accusa durissima, infatti, è espressa negli ultimi due versi in cui tutto è caratterizzato dalla rapidità, in netta antitesi con la descrizione della sua vita che aveva preteso ben otto versi. Nella vita privilegiata del potente va notata la totale assenza di fatica e di rischio: il sovrano siede comodamente su una poltrona e il suo unico lavoro consiste nel fare du’ schizzi de penna. Eppure ciò è sufficiente perché tutto sia suo. Cosa indica quel tutto? La totalità delle cose esistenti o il sangue sudato degli sfruttati? Entrambe le cose: ma mi piace propendere soprattutto per la seconda interpretazione, giustificata dalla contrapposizione dei possessivi, aggettivo e pronome, alla fine dei versi (tu ssudi er zangue tuo / è ttutto suo). Il dramma arriva all’apice nella rappresentazione del conflitto tra i due modelli di vita, quella popolare e quella dei potenti, di coloro che subiscono e di coloro che vincono troppo facilmente. Infine la metafora del fabbro che suda sangue mi sembra chiaramente ripresa dalla tradizione religiosa della Passione di Cristo: il popolano romano è sicuramente intriso di superstizioni ma Belli ci fa notare che è in questo sapere e sentimento che egli profondamente e appassionatamente si identifica.
Il poeta ritornerà in altri sonetti su questo tema che evidentemente lo assillava. Ecco:
“Er merito” 3 aprile 1836
Merito dite? eh ppoveri merlotti!
Li quadrini, ecco er merito, fratelli.
Li ricchi soli sò boni, so belli,
sò grazziosi, sò gioveni e ssò dotti.
A l’incontro noantri poverelli
tutti schifenze, tutti galeotti,
tutti degni de sputi e de cazzotti,
tutti cucuzze in cammio de cervelli.
Fà comparì un pezzente immezzo ar monno:
fussi magàra una perla orientale,
“Presto cacciate via sto vagabbonno”.
Tristo chi sse presenta a li cristiani
scarzo e cencioso. Inzìno pe le scale
lo vanno a mozzicà ppuro li cani.
Subire è da considerarsi un vero e proprio verbo-chiave nella poetica belliana. La plebe romana è vista dal poeta come un popolo ai margini della storia, anzi murato nella non-storia, privo di prospettive, “abbandonato senza miglioramento”. Esso sente la propria condizione di oppressione come qualcosa di naturale ed inevitabile, giacché Dio stesso, nell’atto della creazione, ha definito le gerarchie sociali. Nessuno è escluso. Il Governatore, capo della Polizia di Stato, è responsabile della repressione fisica; il Vicario, che ha il compito di vigilare sulla moralità, inventa peccati per poi punirli facendosi responsabile della repressione morale; nel frattempo il Tesoriere studia nuove tasse da imporre e il Segretario di Stato soffoca scandali e proteste. Per non parlare del Papa, solo preoccupato del proprio bene, egoista al punto tale da sentirsi il Dio in terra e da desiderare, come l’Onnipotente, di essere solo (Iddio, prima di creare natura angeli e uomini, era solo). Anche Dio sta alla finestra e butta giù catastrofi, disgrazie. I potenti, il papa, la storia, la natura. Tutto, fino a Dio, è oramai insanabilmente corroso.
“L’affari de Stato” 28 aprile 1846
Che fa er Governatore? Arrota stilli
e li dispenza a sbirri e berzajeri.
E er Vicario? Arimùcina misteri
per inventà ppeccati e ppoi punilli.
E er Tesoriere? Studia er gran bussilli
de straformà er bilancio in tanti zeri.
E er Zegritar de Stato? Sta in guai seri
pe ttrovà modo d’affogà li strilli.
Tratanto er Papa cosa fa? Si’ acciso!,
guarda er zu’ orloggio d’Isacchesorette (*)
e aspetta l’ora che ssia cotto er riso.
L’orologio era opera dell’orologiaio ebreo Isaac Soret.
Si ppoi pe gionta ce volete mette
quer che ffa er Padr’Eterno in Paradiso,
sta a la finestra a buttà giù crocette.
In un altro sonetto, “Li du’ generi umani” del 7 aprile 1834 il popolano belliano giunge ad affermare che Cristo, morendo, ha versato il sangue solo per i signori.
Noi, se sa, ar monno semo usciti fori
Impastati de merda e de monnezza.
Er merito, er decoro e la grannezza
sò ttutta marcanzia de li ssignori.
A ssù Eccellenza, a ssù Maestà, a ssù Artezza
fumi, patacche, titoli e sprennori;
e a noantri artigiani e servitori
er bastone, l’imbasto e la capezza.
Cristo creò le case e li palazzi
p’er prencipe, er marchese e ‘r cavajiere,
e la terra pe noi facce de cazzi.
E quanno morze in croce, ebbe er penziere
de sparge, bontà ssua, fra ttanti strazzi,
pe quelli er zangue e ppe noantri er ziere.
Comunque a chiudere questa commedia per tutti c’è il pensiero della morte perennemente in agguato. Si può essere atei o credenti, far parte degli strati miserabili o appartenere ai ceti privilegiati, andare a teatro o frequentare le osterie, accumulare o dissipare ricchezze ma lo sbocco di tante vite così diverse tra loro è uno solo: la morte.
“La morte co’ la coda” 29 aprile 1846
Cqua nun ze n’essce: o ssemo ggiacubbini,
o ccredemo a la lègge der Ziggnore.
Si cce credemo, o mminenti o ppaini,
la morte è un passo cche vve ggela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,
se trafica, s’impozzeno quadrini,
se fa dd’oggn’erba un fascio…eppoi se more!
E ddoppo? Doppo viengheno li guai.
Doppo sc’è ll’antra vita, un antro monno,
che ddura sempre e nnun finissce mai!
E’ un penziere quer mai, che tte squinterna.
Eppuro, o bbene o mmale, o a ggalla o a ffonno,
sta cana eternità ddev’èsse eterna!
Non si esce da questo dilemma. O siamo miscredenti o crediamo alla Legge di Dio. Se ci crediamo, sia che siamo gente popolare o che apparteniamo alle classi superiori, la morte è un passaggio che gela il cuore a tutti. Si corre al teatro, si va alle feste, si frequentano le osterie, si fa sesso, si commercia, si accumulano e si mettono da parte i denari, si fa tutto di tutto…e poi si muore. E dopo? Dopo vengono i guai. Dopo c’è l’altra vita, un altro mondo, che dura sempre e non finisce mai. Quel mai è un pensiero che ti agghiaccia, ti schianta. Eppure, sia che finisce bene sia che finisce male, o in cielo o nell’abisso dell’inferno, questa eternità cagna, crudele, nemica, deve essere veramente eterna!
C. Muscetta commenta che Belli “non era approdato al “solido nulla” di Leopardi, e non ancora era giunto alla “fede benefica” del Manzoni”. Nella sua poesia si avverte la tensione drammatica di un cattolico restato tale pur sotto la patina dello scetticismo e della satira blasfema, oscuramente preoccupato dal pensiero del nulla e della morte, ma soprattutto dall’angoscia che l’altra vita non può essere per lui che il proseguimento di questa, per l’eternità. Allora è meglio che essa sia annullamento totale: solo così potrebbe esserci sollievo. E nel titolo, “La morte col suo seguito”, noi possiamo intravedere una visione medievale e surrealista (Vigolo), una Mors caudata, uno strano mostro, uno scheletro dalla lunga appendice coccigea, che ci guarda negli occhi con fissità ebete. E allora potremmo chiederci: la morte è un drago che aggredisce la vita dall’esterno o una forza della stessa vita che, senza dirci come dove e quando nasce al nostro interno fino ad inghiottirci nel suo vuoto di senso?
Gennaro Cucciniello