Jacopo Tintoretto, “Storie bibliche” (1564-1587), “Scuola Grande di S. Rocco”, Venezia
Il luogo. Il punto di partenza è piazzale Roma. Da qui si va al campo dei Tolentini, ove sorge la chiesa di S. Nicolò da Tolentino, una grande costruzione di V. Scamozzi (1591-1602), si costeggia il fianco dell’Università di Architettura e si arriva ad uno snodo, il campo di S. Rocco (allungato in forma di triangolo) nel quale a sinistra c’è la chiesa di S. Rocco, a destra la sede della nostra Scuola e –più avanti- la grandiosa, rosseggiante mole di S. Maria dei Frari con le sue absidi. Il complesso della “Scuola Grande” fu iniziato nel 1515, su committenza della potente confraternita di S. Rocco, col progetto di Bartolomeo Bon, continuato dal 1524 al 1527 da Sante Lombardo, compiuto nel 1549 da Antonio Scarpagnino. Jacopo Tintoretto vi dipinse dal 1564 al 1587 cinquantasei tele, uno dei massimi cicli della pittura italiana.
Nel 1523 era morto il doge Grimani. L’elezione del successore, il doge Gritti, è contrastata ma il suo dogado imprimerà un’accelerazione improvvisa alla cultura e all’arte veneziane. E’ mutata la situazione politica e sociale dell’Italia e dell’Europa e il Gritti ne è consapevole: perciò imposta subito un progetto costruttivo e decorativo che deve fornire un’immagine nuova e più dinamica di Venezia, non più una città storica solo orgogliosa del suo passato ma un centro vivo e proiettato nel futuro. Gli edifici pubblici e privati devono conservare il gusto ornamentale tipico della grande tradizione veneziana ma devono anche assorbire lo stile del classicismo del Rinascimento centro-italiano. Già nel Veneto il Sanmicheli a Verona e il Falconetto a Padova stanno operando in tal senso, senza citare quella che sarà a Vicenza e a Venezia la grande esperienza di Palladio. La facciata spettacolare della Scuola Grande dello Scarpagnino vale come prototipo ufficiale di questa tendenza, accanto al palazzo dei Camerlenghi costruito dal Bergamasco sul Canal Grande a Rialto, proprio di fronte al Fondaco dei Tedeschi, dove avevano operato pochi anni prima Giorgione e Tiziano.
I committenti. “A Venezia le Scuole erano nate nell’ambito dell’atmosfera di rinnovamento religioso del XIII secolo –da cui derivavano il nome di “Battuti”, dovuto all’antica abitudine dei confratelli di flagellarsi durante le processioni, alle quali partecipavano vestiti tutti allo stesso modo, con l’abito di ordinanza. A metà ‘500 i fratelli preferivano delegare l’abitudine di battersi ai poveri disposti a flagellarsi dietro compenso. Lo spettacolo era comunque impressionante. Monsieur de Villamont, che seguì una processione del venerdì santo, contò almeno 400 penitenti delle cinque Scuole Grandi che avanzavano nelle calli con un cero bianco in mano, nel riverbero di 40 enormi lanterne di cristallo e di 500 fiaccole. I flagellanti si frustarono ininterrottamente per un quarto d’ora con lame di ferro: dalle spalle alle reni erano tutti scorticati e sanguinanti. Pur continuando a praticare la filantropia, l’assistenza ai fratelli bisognosi, anziani e ammalati, la distribuzione di elemosine, a dotare le fanciulle povere e ad accompagnare alla morte i defunti, le Scuole avevano perduto via via le loro caratteristiche squisitamente religiose per divenire dei centri di potere –sorvegliate da vicino, controllate e appoggiate dal Consiglio dei Dieci, massima autorità dello Stato aristocratico, che delle Scuole aveva bisogno per mantenere la pace sociale, e dunque la conservazione, l’ordine e la stabilità della Repubblica”, scrive Melania Mazzucco in una delle sue approfondite ricerche sulla vita di Tintoretto. Sappiamo anche che un autore contemporaneo, il Caravia, amico di Lorenzo Lotto e processato dall’Inquisizione, in un suo poemetto si scagliava contro le meschine rivalità che laceravano le Scuole veneziane, condannava la corruzione e il clientelismo che le avevano invase, attaccava i loro Guardiani che ne dilapidavano le risorse in “variate pompe, in fabricar”, in continui rifacimenti suggeriti solo dall’ambizione personale, e non nella carità per i poveri “qual per Vinegia ne son infiniti,/ famati e scalci col disagio uniti”, dimenticando le finalità assistenziali sancite dagli antichi statuti: “Lor denar a quel tempo non spendevano / in architetti e dorati lavorieri;/ vestivan nudi e scuodean (riscattavano) prigionieri”.
Il Ciclo pittorico. Questo di Tintoretto è un piano grandioso, ciclopico, la più potente trascrizione pittorica del progetto teologico della Controriforma, e i teleri non obbediscono a un programma iconografico prestabilito; direi piuttosto che è un programma ampliato in fasi successive. Il tutto si articola nei tre cicli della Sala dell’Albergo (la “Passione di Cristo”, 1564-67), del Salone Maggiore o Sala Grande (le storie del “Vecchio e Nuovo Testamento”, 1575-81) e del Salone Terreno o Sala Inferiore (“episodi mariani e infanzia di Gesù”, 1582-87). Le tele sulla Passione di Cristo alludono forse alla vittoria della Chiesa sulla Riforma protestante; le tele con argomenti biblici nel soffitto del Salone illustrano il motivo della liberazione dai mali corporali, quelle con i fatti evangelici sulle pareti celebrano –attraverso episodi della vita di Gesù- la vittoria sui mali spirituali; i dipinti sull’infanzia di Gesù e sulla centralità di Maria sono in sintonia con gli indirizzi della chiesa veneziana dell’epoca, pervasa da un sentimento di trepida devozione mariana. In tutto il ciclo c’è l’ideologia della sostanziale continuità, e al tempo stesso dell’inevitabile contrasto, tra Vecchio e Nuovo Testamento, tra mondo ebraico e mondo cristiano.
Dal punto di vista artistico (linguaggio e forma) lo spazio non segue più le tradizionali strutture prospettiche ma si sviluppa in superficie e in profondità seguendo direttrici multiple (sotto l’influsso delle suggestioni manieriste), con figure in movimento (a volte vorticoso), con una luce che balena all’improvviso correndo veloce sulle immagini, che scatena profonde inquietudini fantastiche guizzando incandescente su fondi addensati di ombre e che giunge –nelle ultime tele su Maria- a una meditazione silenziosa, assorta nella contemplazione del paesaggio. Qui la materia sembra veramente trasfigurata nella luce.
Sala dell’Albergo. “La Passione di Cristo”, 1564-67 Un frate francescano spagnolo, Antonio de Guevara, aveva scritto negli anni trenta del ‘500 il “Libro del Monte Calvario”, una rievocazione appassionata ed emozionante degli ultimi giorni della vita di Gesù. A Venezia il libretto era stato pubblicato per la prima volta da Giolito nel 1555 e più volte ristampato negli anni successivi nella versione italiana di Alfonso de Ulloa. Tintoretto lo aveva letto e qui, nelle sue quattro tele, ne interpreta alcuni episodi, colpito dall’insistenza descrittiva, dall’attenzione figurativa, dalla ricchezza delle citazioni e dall’ampiezza dell’interpretazione allegorica. La scelta si concentra su quattro momenti essenziali in rapida e commovente successione.
Cristo davanti a Pilato. E’ un’immagine istantanea, un fotogramma dominato da un’unica nota luminosa, quella della figura altissima, ascetica, quasi spettrale (scrive Argan), di Gesù, di una nobiltà sobria e sublime. La scena suggestiva è dominata dall’esile, calma, quasi incorporea figura di Cristo, chiuso in un dignitoso silenzio, la cui veste bianchissima genera una luce impalpabile, spirituale, avvilita e trionfante nello stesso tempo, la luce della verità. Nello spazio ristretto dalle linee prospettiche oblique si accalca la folla in ombra, la folla inconsapevole e che vuole la morte del giusto. Macchie di luce sono riflesse dalla caraffa da cui scende l’acqua a lavare le mani di un Pilato anch’esso in ombra, macchie di luce si riverberano sulla sua fronte calva, sulle sue vesti, sul turbante dell’uomo a destra, sul vecchio scriba che –sotto i gradini del trono- sta verbalizzando il fatto, sulle altre anonime figure intorno a Gesù.
Ecce Homo. Mai prima era stata tentata una raffigurazione di un condannato tanto coperto di sangue, allusione e rievocazione di torture crudeli e insistite. Il pittore abolisce la rappresentazione della folla e mostra frontalmente Gesù flagellato e sanguinante, terribilmente solo. Lo spettatore deve accettare la chiave di lettura costruita da Tintoretto: fare un percorso di meditazione sui momenti salienti del processo e del dolore, diventare quasi uno degli ebrei che –gridando il nome di Barabba- incita alla morte in croce del giusto.
La salita al Calvario. Mai prima la penosa ascesa al Golgota era stata allestita, in pittura, su un tornante così ripido. Voglio riportare il commento di Adorno: “Il senso del fatale procedere verso il luogo del martirio, il passo lento ma irreversibile dei condannati è reso dall’andamento obliquo, dalle linee angolate delle lunghe croci e, soprattutto, dalla contrapposizione delle direzioni (da sinistra a destra e, poi, con un angolo a gomito della via, da destra a sinistra) e col contrasto drammatico dell’ombra della zona inferiore e della luce di quella superiore dove, quasi schiacciato dal peso della croce, il volto rigato di sangue rivolto a terra ma illuminato di riflesso, passa Gesù, la vittima, evidenziata dalla luce calda del cielo che, solo verso l’alto, si incupisce di fitte nubi minacciose”. Questi tre episodi compongono una specie di trittico: è una composizione di stringente vigore e di grandissima efficacia emozionale, quasi a preparare per lo spettatore la contemplazione dell’immensa Crocifissione sulla parete di fondo.
La Crocifissione. Il fulcro dell’immensa composizione è il Cristo inchiodato sulla croce piantata al centro dello spazio, sul vertice di un triangolo creato da una piana rocciosa sopraelevata che si allarga a ventaglio; sotto ci sono le persone che lo piangono, raccolte intorno a una Madonna straziata. L’intero esercito romano sembra essere stato inviato sul Calvario per crocifiggere Gesù e i ladroni e godersi lo spettacolo: sulla croce centrale Cristo sembra già morto ma –con strana contraddizione- le croci dei ladroni non sono ancora al loro posto e solo adesso una viene innalzata e l’altra è preparata. Gesù, in quella gran confusione, appare isolato, circondato da un alone luminoso ma irrimediabilmente solo, lontano da tutti i presenti. L’atmosfera è temporalesca, strisciata da macchie luminose.
In realtà lo spazio è costruito intrecciando due composizioni, l’una che si allarga verso l’orizzonte, l’altra che converge verso lo spettatore –coinvolto nella tragedia direttamente-, entrambe concentrate sulla croce al centro: da questa partono fasci di luce che illuminano la scala posata a terra, la croce di un ladrone ancora adagiata, l’altra che si sta sollevando, sulla destra due soldati che si giocano ai dadi la tunica del condannato. Il pittore crea con cura corrispondenze formali sapienti: a sinistra c’è il gesto del personaggio che tira la fune per sollevare la croce del ladrone e che è riflesso –in maniera più pacata- in quello del personaggio che scava, sulla destra; in primo piano si impongono con evidenza figure chiaroscurate e plastiche, definite da un’energica linea di contorno –con alcuni volti il cui realismo fa pensare a inserti ritrattistici- e sullo sfondo comparse tracciate solo con piccoli tocchi di pennello; i personaggi a cavallo –che guardano indifferenti o compiaciuti- sono disposti specularmente ai lati della scena, formando un piano prospettico che scivola verso l’orizzonte; le braccia spalancate di Gesù, che sembrano abbracciare il mondo e irraggiare insieme dolore e luce, sono l’unica chiara linea orizzontale che rompe la piramide centrale e che contrastano in modo significativo con le braccia abbandonate delle pie donne in deliquio. Gli episodi e i dettagli sparsi alla rinfusa non sono né secondari né irrilevanti: perché tanti infedeli partecipano alla concitata agitazione della scena? Perché tante persone presenti, ciascuna intenta a un lavoro, o ad osservare curiosa, o a commentare, o a meditare? Perché tante Marie che piangono? Perché un asino che divora i rami di un ulivo?
Tintoretto è consapevole di dover spiegare contenuti dottrinali complessi ma non ricorre a intellettualismi complicati: egli vuole soprattutto presentare al fedele la storia della Redenzione e lo vuol fare coinvolgendolo nell’emozione; a questo servono gli infiniti dettagli che riproducono scene di vita vissuta e gli effetti luministici di grande suggestione e patetismo. Così facendo rinnova l’iconografia sacra e si adegua alla perfezione al nuovo clima religioso richiesto e suggerito dalle conclusioni del Concilio tridentino: “attraverso le storie dei misteri della nostra Redenzione (uccisione di Gesù, inizio del suo ritorno al cielo e della redenzione umana), raffigurate nei quadri, il popolo viene istruito e confermato nel ricordare e rimeditare assiduamente gli articoli di fede”. Lo spettatore è chiamato di volta in volta a una fruizione attiva, a muoversi da un quadro all’altro per seguire le scene, a contemplare in silenzio, a parlare con Dio.
La visione non è che storia intensificata, tanto da rivelare immediatamente, nel fatto, i suoi significati umani e morali e diventare autentica devozione popolare. Per Venezia gli anni Sessanta del Cinquecento segnalano il ritorno della perenne minaccia turca (che sarà scongiurata solo qualche anno dopo dalla vittoria di Lepanto, anche se per breve tempo) e il sospetto di spionaggio in suo favore da parte degli ebrei: così A. Gentili ci aiuta a spiegare le ragioni della presenza, tra gli spettatori sul Golgota, di orientali con turbante e ci rivela che tra le Marie, così numerose, si può identificare in una –posta proprio sotto la croce di Gesù- la personificazione della Chiesa cristiana e in un’altra –collocata più indietro e col capo rivolto a terra- quella della Sinagoga ebraica, piegata e velata, incapace di vedere e capire.
C’è una luce livida e olivastra percorsa da bagliori devastanti e veloci, fantasmi volanti con cappucci rossi, nature morte (suggerisce F. Caroli) buttate là con pennellate color vino o susina; contrasti netti, il bianco e il nero, la luce e l’ombra, un’ebbrezza già quasi visionaria di segni e di lampi.
Salone Maggiore. “Storie del Vecchio e Nuovo Testamento”, 1575-1581.
Qui Tintoretto sviluppa l’idea che vede la guarigione e la salvazione dell’umanità sofferente attraverso un miracolo dell’Antico Testamento che, a sua volta, prefigura la redenzione dell’umanità col sacrificio di Cristo. Così c’è una rispondenza tra i ventuno dipinti del soffitto e i dodici teleri sulle pareti, simili a quelli presenti nella “Biblia pauperum”, la Bibbia dei poveri, e sviluppando affinità con le immagini evocate in un libretto allora molto diffuso a Venezia, la “Pratica dell’orazione mentale” del predicatore fra Mattia Bellentani. Lungo l’asse centrale maggiore del soffitto ci sono le tre grandi storie di Mosé (“Visione di Mosé, Mosé fa scaturire l’acqua dalla rupe, Il passaggio del mar Rosso”) e intorno, secondo un programma iconologico rigoroso, storie di protagonisti che nel Vecchio Testamento prefigurano l’avvento del Cristo (Giona, Isacco, Ezechiele, Giacobbe, Elia, Eliseo) fra i due estremi del “Peccato originale” e della “Pasqua ebraica”. Lungo le pareti gira la sequenza della vita di Gesù; sono logicamente escluse le vicende della Passione già dipinte nell’Albergo anni prima e quindi si passa dall’”Ultima cena” all’”Agonia nell’orto” e direttamente alla “Resurrezione” e all’”Ascensione”, con un incrocio allegorico trasversale e una perfetta tessitura concettuale. Si disegnano itinerari rigorosi e labirintici insieme, affidati a ogni singolo spettatore, perché ogni percorso dà senso e restituisce verità. Si portano alla luce i significati simbolici delle scene narrative e li si collega tra loro, in una rappresentazione cifrata dell’universo biblico e morale. Tutto si tiene, una tela rimanda a quella accanto o a quella di fronte, come in un discorso ininterrotto. Era un’abitudine cara a molti pittori del Cinquecento, specialmente veneziani. Una prova tra le più alte, e di misterioso enigma, l’aveva data qualche decennio prima Lorenzo Lotto nelle tarsie del coro di S. Maria Maggiore a Bergamo. Facciamo ora qualche esempio.
Prendiamo il tema dell’acqua. Nel soffitto, “Mosé fa scaturire l’acqua dalla roccia”: l’acqua sgorga per dissetare gli ebrei pellegrini arsi e assetati nel deserto; sulla parete sinistra, a richiamo, c’è il “Battesimo di Gesù”, scena nella quale Cristo –in un’insolita postura di assoluta sottomissione- accetta la discesa metaforica alla morte e il presagio della croce, giacché nel fondo c’è Maria che sviene anticipatamente tra le braccia delle donne in un turbine di folla evanescente lungo il Giordano, e la croce di Giovanni Battista spunta dietro le spalle di Gesù, curve sotto un peso invisibile. La critica scrive che l’acqua rigenerante del Battesimo si contrappone all’acqua inefficace della “Piscina probatica” che sta esattamente di fronte sulla parete destra.
Vediamo il tema, ancora più complesso, del pane, cibo divino. Nel soffitto, ai lati della “Caduta e raccolta della manna” (con ricerca di effetti prospettici e scorciati di singolare efficacia) ci sono gli ovati con “Eliseo che moltiplica e distribuisce i pani” e con “Elia che riceve dall’angelo i pani e l’acqua” (anche qui l’angelo cala dall’alto audacemente scorciato). Sulle pareti, in perfetta corrispondenza, stanno una di fronte all’altra “L’ultima cena” e la “Moltiplicazione dei pani e dei pesci”. L’abilità nella resa degli scorci, dei corpi nudi e delle masse muscolose di alcune figure fa anche pensare a una sua pratica del disegno dal vero e agli studi di anatomia. Nella “Cena” (Tintoretto ne dipingerà tante nella sua lunga carriera, tutte diverse e tutte bellissime) con gli effetti di controluce e con una prospettiva a visione angolare il pittore crea un clima drammatico. Sul fondo è illuminato l’interno di una cucina coi servi affaccendati nelle loro mansioni quotidiane. La tavolata dei commensali è spinta lontano dallo sguardo degli spettatori. Gesù, umile figura all’estremità della tavola, sta annunziando il tradimento e nello stesso tempo sta avvicinando una vera e propria ostia alla bocca di Pietro (l’eucaristia: la manna caduta dal cielo si è trasformata nell’ostia). Un veloce e continuo alternarsi di luce e di ombra illumina l’agitazione degli apostoli, espressa in movimenti e gesti convulsi che si propagano e si placano solo quando la tensione, giungendo a Gesù, si rasserena. Due mendicanti, ignari del cibo divino, si accontentano di avanzi dati loro dai servi (e ricordano le attività assistenziali della Scuola), a un cagnolino bastano le briciole. Nella “Moltiplicazione dei pani e dei pesci” la scena è agitata ma suggerisce un senso corale di fiduciosa attesa del miracolo, in sintonia con la profonda devozione popolare incoraggiata dalla Controriforma. Il tema del pane ricorre ancora nella “Natività” nella quale i pastori offrono con le braccia alzate un pane buono (che allude a quel grano di frumento che deve scendere nella terra come seme e morire per dare frutto come pane, Giovanni, 12, 24-25), tanto che Maria fa vedere il Bambino tra le spighe; e –proprio di fronte- c’è la scena della “Tentazione nel deserto” in cui un demonio androgino inquietante offre inutilmente a Gesù, con lo stesso gesto dei pastori, due pietre affinché le tramuti in pane e si sfami dopo il lungo digiuno.
Ancora, nel soffitto c’è la scena dell’”Erezione del serpente di bronzo”: si racconta nel libro biblico dei Numeri (XXI, 6-9) che Dio mandò serpenti per punire gli ebrei che nel deserto, sopraffatti dalla fatica e dalla sfiducia, avevano imprecato contro di Lui e contro Mosé. Gli ebrei pentiti eressero in espiazione un serpente di bronzo in forma di croce, risanatore dal morso velenoso dei rettili e che prefigurava la croce redentrice di Cristo. Tintoretto dipinse questa scena nel 1576, proprio quando a Venezia stava imperversando una peste terribile che sterminerà ¼ della popolazione cittadina, tema quindi di tragica attualità. Ma l’episodio gli consentì anche di rappresentare le figure colte negli spasimi della sofferenza o nei gesti di una lotta disperata e inutile e di rivelare l’influenza possente di Michelangelo sul suo linguaggio. E’ la qualità del nervoso disegno manieristico che si trasferisce nel colore e lo carica di una straordinaria energia. Il nostro pittore aveva saputo cogliere le novità del plasticismo tosco-romano introdotte nella laguna veneziana dal Pordenone cinquanta anni prima e studiare l’opera del Buonarroti e degli scritti teorici di Serlio specie per l’elemento scenico e teatrale.
Nell’”Orazione nell’orto” c’è la visione simultanea dei vari episodi, nei loro tempi in successione, con un movimento che assume straordinari effetti di narrazione. Gesù prega assorto, immerso in una luce sanguigna, mentre i tre apostoli dormono e l’angelo appare; al rumore dei soldati –che stanno sopravvenendo con Giuda- Pietro solleva il capo, colto da una sciabolata di luce; è proprio la luce che evidenzia i diversi momenti e li unifica facendoli emergere dall’oscurità. Come non pensare al mosaico splendido del primo Duecento su questo tema che c’è nella basilica di S. Marco, opera di grandi maestri bizantini e veneziani?
Infine è da citare l’”Ascensione di Gesù” per la luce visionaria che rende argentei i profeti Mosé ed Elia, figure evanescenti nello sfondo, plasmate come fantasmi con una pennellata vorticosa, in contrasto con gli apostoli giganteschi in basso che assistono al miracolo.
Sala Inferiore. “Storie dell’infanzia di Gesù e temi mariologici”, 1582-1587.
Sono passati quasi vent’anni da quando il nostro pittore ha cominciato la decorazione di questa Scuola, la sua fatica più grande e –in assoluto- il suo capolavoro. Siamo in un momento della storia italiana ed europea che vede incrinarsi la profonda armonia che dominava la spiritualità rinascimentale (con echi drammatici anche nelle ultime opere di Tiziano): “l’uomo pare oppresso dalle forze cosmiche della natura, pauroso degli elementi ostili della vita, sperduto nel caos delle collisioni ormai mondiali e cerca salvezza dentro di sé” (Vipper). Tintoretto registra questa crisi spirituale in tutta la sua profondità: vi reagisce con lo slancio della fantasia creando opere di meravigliosa suggestione, dove la materia sembra veramente trasfigurarsi nella luce, aumentando le illusioni spaziali e dissolvendo il colore in un balenare di pennellate diafane.
Nel salone imponente, diviso in tre navate da due file di colonne corinzie, si comincia da sinistra con l’”Annunciazione”. L’ambiente è povero: una piccola sedia rozzamente impagliata, delle assi di legno in disordine, un pilastro sbrecciato in primo piano, sul fondo a sinistra un giovanissimo falegname sta lavorando. Chi è? Nell’interpretazione tradizionale è Giuseppe ma questi, di solito, è presentato maturo, vecchio a volte. Un critico ci aiuta: quel protagonista è Gesù ragazzo, già impegnato a prepararsi la croce. E’ un’illazione? Non sembra. Se guardiamo con attenzione scorgeremo sulla mensola, proprio sotto gli ultimi angeli, bene in vista, sporgenti contro un cielo in quel punto luminosissimo, il cappio di corda che –anni dopo- servirà a trascinare Cristo nella salita al Calvario e la lancia che gli aprirà il costato. Il tema, in questa sala così intensamente mariologica, ci riporterà di continuo al finale angoscioso della Passione. Ormai è chiaro: le esigenze propagandistiche della più importante confraternita della città forniscono a Tintoretto l’occasione di liberare il suo linguaggio per una comunicazione funzionale all’intervento nell’attualità politica e religiosa.
“Adorazione dei pastori”. La scena è divisa, orizzontalmente, in due zone da una sorta di soppalco, tipico delle stalle contadine: sopra, su un mucchio di fieno, c’è la Sacra Famiglia, adorata da due donne; sotto ci sono i pastori. Ancora una volta è messa in risalto l’umiltà dell’ambiente, quasi per risottolineare la vicinanza di Dio ai poveri, in una ricerca del significato spirituale più intimo degli episodi: soprattutto più per una severità ascetica interiore che ormai domina il nostro autore che non per un possibile (ma non provato) riflesso delle idee luterane, in quel tempo abbastanza diffuse a Venezia come prova la tormentata vicenda di Lorenzo Lotto e dei suoi amici. Su Maria e sul Bambino piove, filtrando dal tetto rotto e tra le travi della capanna rustica, la luce di Dio mentre i pastori sono illuminati dall’esterno e, in parte, da un intenso lume posto all’interno della mangiatoia. La scena, così, appare illuminata da una fonte di luce naturale esterna al dipinto (come nell’ambiente in cui si trova lo spettatore) e dall’accendersi, all’interno, di un bagliore soprannaturale. Il gusto del nostro pittore per impostazioni prospettiche inusitate e la disinvoltura con cui gruppi di personaggi si dispongono nello spazio si spiegano con un segreto: egli costruiva teatrini di legno con cui studiava e simulava la scena del dipinto e vi inseriva pupazzetti di cera e di stoffa, illuminandoli in modo bizzarro. Ormai la dialettica tra luce e ombra si è fatta sempre più violenta e la visione si dilata in spazi fantastici: la capanna sembra da un momento all’altro cadere all’indietro, una contadina è rivelata controluce con strisce fosforescenti nervosamente incrociate, la testa di un cane è disegnata con acuta psicologia e fulminea tenerezza: una morbida calata di orecchie brune e un muso stuccato di calce. Segue “La strage degli innocenti”: dove le pennellate gettate con furia sulla tela e i toni sanguigni del colore evocano l’orrore del massacro.
“La fuga in Egitto”. L’ambientazione paesistica prende il sopravvento, con toni più intimi e insieme misteriosi nella natura lussureggiante: nel paesaggio lunare i tocchi di luce sembrano addirittura suggerire i fruscii notturni delle foglie e delle acque increspate. Giuseppe si muove a fatica, Maria ha una veste rossa scintillante, il capo coperto da un velo bianco e il mantello blu. La sacra famiglia pellegrina sta attraversando una natura dolce e tranquilla: ma all’estrema destra c’è una palma a cui è addossata una rustica croce, ancora una prefigurazione della Passione. Il messaggio evangelico è sottolineato nella sua componente salvifica dalle mobili chiazze di luce nelle valli lontane, che sembrano ulteriori segni della grazia divina. Con lo sviluppo di elementi altamente spettacolari, un tempo drammatici (vedi i dipinti della Passione), ora lirici, il pittore vuole sempre ottenere il massimo coinvolgimento emozionale degli spettatori.
Siamo arrivati alla fine del nostro percorso e ora incontriamo i due teleri più affascinanti. Il paesaggio si è trasformato in una visione fantastica, come se fiumicelli, rocce, alberi –in una notte incantata innaturalmente luminosa- si trasfigurassero per rappresentare l’angoscia e la meditazione di due giovani donne, poste in posizione decentrata e di proporzioni ridotte. C’è vera contemplazione, evocazione di uno stato d’animo che si confronta con l’infinita meraviglia del creato e che, attraverso la lettura e la preghiera, placa ogni smarrimento. Si avverte la vicinanza del pittore a un tipo di devozione semplice e popolare, con toni insieme mistici e dimessi, e che –grazie alla sua arte- raggiunge accenti di grande poesia. Gli elementi della natura, gli alberi, l’acqua, gli animali, sembrano assumere un’intensità interiore, quasi un’anima propria. Le montagne lontane, le fronde, i profili delle case sembrano accendersi e lievitare. Tremiti di foglie, riflessi di acque, lontananze digradanti vibrano grazie a una luce misteriosa che protegge la solitudine delle due donne. A lungo si è discusso sull’identità delle due figure: l’interpretazione da tanto tempo accreditata le definisce S. Maria Maddalena e S. Maria Egiziaca, eremite penitenti. Giandomenico Romanelli ha confutato con convincenti spiegazioni teologiche e iconografiche questa identificazione, ha rivendicato per loro i nomi di Maria Vergine e di Elisabetta e l’episodio ispiratore sarebbe narrato dai Vangeli apocrifi: la fuga delle due madri sante in Egitto durante la strage degli innocenti e fino alla morte di Erode. Anche questa spiegazione non è però persuasiva: i vangeli apocrifi erano stati banditi come fonti iconografiche dal 1570, in seguito ai deliberati del Concilio di Trento, e questo tema non avrebbe potuto essere rappresentato così esplicitamente in un luogo pubblico. Io preferisco seguire l’analisi di A. Gentili che annota in un suo Arte-Dossier: “è la stessa donna in entrambi i dipinti, che siede in due luoghi contigui presso il medesimo torrente, che veste i medesimi abiti (per di più con lo stesso volto di Maria nella “Fuga in Egitto”), che in un caso è rivolta quasi frontalmente verso di noi e nell’altro volge quasi le spalle lasciandoci solo il profilo perduto, che in un caso concentra lo sguardo sul libro aperto e nell’altro lo solleva, come a riflettere. Questa è una doppia immagine di Maria, non oggetto ma soggetto della storia della salvezza, non comprimaria ma protagonista della redenzione, detentrice di un punto di vista privilegiato che le consente in contemporanea, su due percorsi equidistanti e complementari, la meditazione degli avvenimenti passati e la premonizione di quelli futuri”.
Il cromatismo luministico di Tintoretto si è fatto ormai essenziale e scarno, fino a un monocromato di toni spenti e bruciati. Egli appare già dentro la visione figurativa barocca per questo linguaggio luministico che tende all’espressione del movimento, persino del respiro sotterraneo della natura, per la spazialità molteplice e insieme unitaria delle composizioni, per la sua fede religiosa sincera, di matrice popolaresca, e per la sua fiducia nel miracolo, quanto di più lontano dal panteismo laico di Giorgione, vicino semmai al respiro dei mistici protestanti che si rintraccia nel “Paesaggio danubiano” del 1525 di Albrecht Altdorfer (ora all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera): “Dio risiede in ogni cosa e ogni cosa risiede in Lui” di Sebastian Frank, “Paradoxa”, 1534. Proprio in quegli anni passava per Venezia, osservava e imparava, un orientale visionario come El Greco, l’unico vero discepolo del nostro Jacopo Tintoretto.
Gennaro Cucciniello