Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Sesta puntata. 1-5 febbraio 1799. “Prime, gravose contribuzioni imposte dai Francesi. Proteste del Governo Provvisorio. La Guardia Nazionale. Reazioni contrastanti nelle province”.

Cronologia della repubblica giacobina napoletana. Sesta puntata. 1-5 febbraio 1799. “Le prime, gravose contribuzioni imposte dai Francesi. Vibranti proteste del Governo Provvisorio. La Guardia Nazionale. Il Direttorio parigino sostituisce il “giacobino” Championnet col generale Mac Donald. Reazioni contrastanti si registrano nelle province”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29).  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

1 febbraio. Venerdì. Napoli. Abbamonte e Pagano sono incaricati dal Governo Provvisorio di organizzare i tribunali.

Le prime, gravose contribuzioni imposte dai Francesi. “Nel settore finanziario il debito pubblico viene posto sotto la garanzia del Governo Provvisorio che assume il gravoso impegno di riconvertire tutte le carte bancali dei cittadini in denaro contante, decidendo inoltre di mantenere in vita, fino all’emanazione dei nuovi statuti, le imposte dirette in vigore durante la monarchia. Ma lo scoglio più grosso riguarda l’assolvimento da parte della capitale –come sancito dall’armistizio di Sparanise- della contribuzione forzata di due milioni e mezzo di ducati, alla quale Championnet aggiunge una taglia di 15 milioni da parte delle province” (Sani, pp. 22-3).  Championnet, entrando coll’armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola città già desolata dalle immense depredazioni che il passato governo vi avea fatte. Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in più lungo spazio di tempo. Quando se ne avvide, si pentì e mostrò pentirsi del fatto ma non lo ritrattò; anzi stabilì quindici milioni per le province, a suo tempo” (Cuoco, pp. 137-8). Le vibranti proteste del Governo Provvisorio. “Cinque del Governo Provvisorio andarono deputati del disconforto pubblico al generale Championnet; ed il prescelto oratore Giuseppe Abbamonti, parlandogli sensi di carità e di giustizia, lo pregava di rivocare il comando, ineseguibile allora, facile tostoché la Repubblica prendesse forza ed impero; ragioni, lodi, lusinghe adornavano la verità del discorso, quando il generale, rompendone il filo e ripetendo barbaro motto di barbaro antenato, rispose: “Sventure ai vinti!”. Era tra i cinque Gabriele Manthoné, già capitano di artiglieria, gigante d’animo e di persona, amante di patria, e spregiatore di ogni gente straniera, il quale, sconoscendo le forme di ambasceria, fattosi oratore di circostanza, così disse: “Tu, cittadino generale, hai presto scordato che non siamo, tu vincitore, noi vinti; che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi; che noi ti demmo i castelli; che noi tradimmo, per santo amore di patria, i tuoi nemici; che i tuoi deboli battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città; né basterebbero a mantenerla se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci, per farne pruova, dalle mura, e ritorna se puoi; quando sarai tornato, imporrai debitamente taglia di guerra, e ti si addiranno sul labbro il comando di conquistatore, e l’empio motto, poiché ti piace, di Brenno. Il generale, accomiatando la deputazione, disse: risolverebbe. Nacquero da quel punto in lui sospetti, e nei repubblicani disamore ai Francesi” (Colletta, pp. 307-8).

“Si sospetta che i Lazzari meditino una controrivoluzione in città contro la Repubblica. Un bastimento inglese ha dato la caccia a un piccolo bastimento napoletano fin sotto il cannone; e la Lazzararia ha applaudito. Segno questo di malanimo contro Francesi e governo” (Marinelli, in Rodolico, p. 167).

2 febbraio. Sabato. Napoli. Giornalismo repubblicano. Esce il primo numero del “Monitore Napoletano”, diretto da Eleonora De Fonseca Pimentel, considerato il giornale ufficiale della Repubblica. Consiste in un foglio di quattro pagine, a cadenza bisettimanale, in vendita il martedì e il sabato (ne usciranno 35 numeri, dal 2 febbraio all’8 giugno). Questo primo numero, che inizia con la frase “Siam liberi in fine”, contiene un resoconto dettagliatissimo della battaglia furiosa dei giorni dal 19 al 22 gennaio necessaria per superare la resistenza popolare.

“Questo problema del rapporto coi lazzari e la popolazione bassa è il più importante di tutti: se non si convinceranno intimamente che la Repubblica non gli è nemica, non si concluderà nulla. Il “Monitore” dovrà impegnarsi a fondo in questo senso. Oggi è uscito il primo numero. Nella stanza da pranzo-redazione Eleonora continua ad esaminarselo, da cima a fondo. E’ sempre seccata per la stampa un po’ grossolana: l’inchiostro non ha preso bene in vari punti. Soprattutto è ansiosa di sapere se va, quante copie se ne stanno vendendo, cosa pensano gli amici. Alle dieci e mezza di sera eran state vendute 37 copie, poi gli strilloni se n’andarono a dormire. 37… Pochissime. Eppure il giornale è venuto bene. L’articolo d’apertura fervido, s’era andata eccitando man mano lo scriveva, fino a diventare una vera, calda repubblicana. Cominciava con uno squillo d’entusiasmo, “Siamo liberi in fine”, e conteneva in modo chiaro le grandi indicazioni politiche: l’amicizia con la Repubblica Madre, le critiche al regime, un breve resoconto degli ultimi avvenimenti. Infine una gonfiata all’amicizia lazzaro-francese. Questo finale, in verità, nel rileggerlo a stampa,non l’era piaciuto: retorico, falso. “E bello fu vedere a un tratto succedere la fratellanza tra il vincitore e il vinto all’ira e al sangue”. Per ora c’è fratellanza solo nelle porcherie, dentro le taverne, nelle bische, nei bordelli. Per non parlare dei francesi che vengono trovati in qualche angolo della città, un coltello nella schiena, nel ventre, la testa fracassata. Infine le notizie varie: scarsissime, non per colpa sua. Questo benedetto Governo si rompe il cervello su declamazioni, leggi complicate, ma non si cura d’informarsi, né d’informare. Così il giornale non è interessante. Meu Deus, domani devo mandare i materiali alla tipografia: cosa stamperò?” (Striano, pp. 312-3).

La Guardia Nazionale. “Mentre la difesa militare della Repubblica viene affidata per volontà di Championnet alla sola armata francese denominata Armata di Napoli, il Comitato Militare della Municipalità emana le norme per l’organizzazione della Guardia nazionale cittadina addetta alla tutela dell’ordine pubblico, composta quasi esclusivamente da patrioti di estrazione borghese e nobiliare di provata fiducia. Inizialmente formata da quattro compagnie di cento unità l’una, viene subito dopo articolata in sei legioni e dodici battaglioni, divisi per quartiere e formati ciascuno da 1100 uomini di età tra i 15 e i 50 anni. Dei dodici battaglioni previsti, però, durante la permanenza di Championnet sarà possibile approntarne solo quattro” (Sani, p. 22). “La vera forza della guardia nazionale risulta dall’uniformità dell’opinione: ove non siasi giunto ancora a tale uniformità, conviene usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono ammettere se non quelli i quali si presentino per volontario attaccamento alla causa, o che abbiano nella loro educazione principi di onestà e nel loro stato civile una cautela di responsabilità. Quei tali che Aristotile direbbe formare in ogni città la classe degli ottimi, se non sono entusiasti, di rado almeno saranno traditori. Io parlo sempre dei principi di una rivoluzione passiva. Nei primi giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che diedero il loro nome alla milizia nazionale: rispettabili magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili, quanto insomma vi era di meglio nella città, disperando dell’abolito governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di guadagnare l’opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro che conteneva i loro nomi avrebbe forse potuto formare la salute di molti. Ma si volle spinger la parzialità anche nella formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si ritirò, e non si ebbe l’avvertenza neanche di conservare il libro che conteneva i loro nomi. Si formarono quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti entusiasti, tutti bravi. Ma quattro compagnie erano poche. Si dovette ritornare al punto donde si era partito, ed ammettere coloro che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano più. Si ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e militari, se prima non avesse prestato il servizio nella guardia nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma si volle ordinare che tutti si ascrivessero, e nel tempo stesso si ordinò un’imposizione per coloro che volessero essere esentati: dico “volessero”, perché i motivi di esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli, ciascuno potea ammetterli, senza timore di poter essere smentito se li fingeva, o rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano essere mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i migliori del paese, ma essi per lo più erano ricchi, e comprarono l’esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che non aveano né patriottismo né onestà né beni, e così la legge fece passar le armi nelle mani dei nostri nemici” (Cuoco, pp. 135-6).

“Entro la città sono in effervescenza più partiti, v’è il popolare che vegeta ancora, vi è l’aristocratico, il repubblicano, l’indifferente e il tollerante; a momenti dunque possiamo vederci di nuovo in mezzo al sangue, alle carneficine e i disordini”. “Così annota in un passaggio del suo “Diario” il De Nicola indicando abbastanza esattamente la formazione del tessuto connettivo della nuova repubblica. Da un lato è il popolo, che egli giustamente pone a sé non confondendolo con gli altri. Vengono poi gli aristocratici: il termine è, qui, ambiguo, poiché si riferisce sia a coloro che partecipano alla rivoluzione a lato dei giacobini, sia a coloro che si schiereranno con la reazione. Ma nei confronti di questi ultimi è necessario un chiarimento: più che di nobili (e la celebre congiura dei Baccher lo rivelerà) si tratta della grande borghesia, o meglio dei capitalisti borghesi che nel re e nella sua politica vedevano un mezzo per aumentare i propri profitti a danno e della nobiltà e del popolo. I repubblicani poi sono i giacobini; infine, come sempre, vi è la gran massa degli indifferenti e dei tolleranti. Il rappresentante tipico di questa categoria è proprio l’avvocato Carlo De Nicola, con la sua timidezza quasi morbosa che, pur intravedendo dove sia la via giusta e lodando con tutta la prudenza possibile l’operato di Championnet, tuttavia si tiene a distanza da ogni partecipazione attiva” (Battaglini, pp. 19-20).

Equilibrismi. Il Governo Provvisorio invia al Preside di Foggia questo Decreto: “Cittadino, avendo questo Governo Provvisorio considerato che i progressi della libertà debbano camminare a passi eguali colla sicurezza e tranquillità pubblica, perciò, siccome da una parte vi ordina di animare e proteggere le organizzazioni della municipalità a seconda delle istruzioni che vi si rimettono e di assicurare e aiutare quei cittadini i quali, pieni di Patriottismo ed autorizzati da questo medio Governo, si portano in cotesti luoghi a democratizzare i loro Paesi così dall’altra vi incarica di continuare con cotesta Udienza e a far continuare le autorità costituite dall’antico regime, ad amministrare la giustizia fra Cittadini, senza però attenuare la menoma cosa sulle attribuzioni delle municipalità costituite, o da costituirsi, ed in caso di dubbio vi appiglierete sempre al Partito conducente alla pubblica quiete ed agli avanzamenti della democrazia (…) Salute e fratellanza, Bisceglia “ (Battaglini, pp. 74-5).

Pozzuoli ieri non volle rendersi, e bisognò usare la forza con danno di quella città che fu esposta al sacco. Il castello di Baia resiste tuttora (…) Championnet con una lettera diretta alla municipalità ha fatto sentire il suo rincrescimento per le insolenze che commettono i suoi soldati, incarica i cittadini ad arrestarli per darne severo esempio di giustizia, proibisce il riceversi i loro biglietti di “bono”, ed ordina che se non pagano danaro contante i cittadini non siano obbligati a dargli roba. Si offre di pagare egli quelle somme che importassero, e i cavalli, vetture, carrozze, che i suoi avessero prese senza pagare, insomma i suoi ordini spirano giustizia (…) Molti frati, si dice, che siansi secolarizzati, e mi è stato anche detto che ve ne sia stato uno che siasi veduto sposare sotto l’arbore della libertà. Finirò la giornata rapportando l’aneddoto che segue. Si narra che si presentò ieri al Presidente del Provisorio Laubert un monaco e gli disse che voleva secolarizzarsi. Laubert rispose: “benissimo” e, rivolto ad una sentinella, “date una giacca rossa a questo cittadino”. “Adagio”, ripigliò il frate, “dovete ordinare che il monastero mi faccia un assegnamento, altrimenti non posso vivere”. “Siete adesso un birbone”, gli rispose Laubert, “se volete lasciare di essere monaco, pigliate un fucile e fate il soldato come ho fatto io e viverete, se volete che vi dia da vivere il monistero, seguitate ad esser monaco, andate” (De Nicola, pp. 59-60).

Ruvo (Puglia). “Nel paese da tempo, invano, i contadini avanzavano le loro richieste sulla terra. I ceti popolari insorgono contro la nuova Municipalità che raccoglie gli esponenti della ricca borghesia. Il 2 febbraio riescono ad abbattere l’albero della libertà. Ma la borghesia reagisce e, tre giorni dopo, l’albero viene nuovamente innalzato. A distanza di 24 ore, però, le masse popolari hanno di nuovo il sopravvento: l’albero viene abbattuto e i ceti popolari acclamano loro capo un contadino, Simone Pellegrino, il quale successivamente, consolidato il potere nell’amministrazione cittadina, guiderà i contadini del suo paese all’occupazione delle terre” (Pedio, p. 161). Nella Relazione scritta dal Sindaco il 19 marzo 1800 gli stessi fatti sono ricostruiti così: “In questa Città per un timore cagionato dalle notizie che in alcuni paesi erasi eretto l’infame arbore della Libertà, anche perché si vociferava che la truppa nemica era diretta dal Duca d’Andria che aveva del livore con questa Popolazione per le liti che se li erano promosse contra, il giorno del Martedì Grasso circa le ore 22 in questa Pubblica Piazza da pochi fu eretto; ma il giorno seguente 6, primo giorno di Quaresima, con concorso di tutta la popolazione fu svelto e bruggiato circa le ore 16” ( p. 426).

Parigi. Il Direttorio sostituisce il “giacobino” Championnet col generale MacDonald. La notizia arriverà a Napoli verso la fine del mese di febbraio.

3 febbraio. Domenica. Napoli. “Il popolo è in fermento, mal soffre i Francesi, anche perché da questi si son tentate delle violenze colle donne, cosa che rincresce moltissimo a questa popolazione. E’ vero che il Generale cerca di tenerli in freno, ma non è possibile impedire i disordini tutti, intanto si sente che di notte sieno stati ammazzati, tra questi giorni, più di un centinaio di Francesi (…) Si aggiunge a tuttociò che cominciano ad esservi dei malcontenti negli stessi patriotti glubisti, e questi anco fanno partito, e vi deve essere un partito armato (…) Ho inteso da gente del popolo dire che il Re tornerà in Napoli, che i Francesi dovranno andarsene via, o se ne farà una filza come ranocchi (…) Ritirandomi a casa verso le ore 24, oggi domenica primo giorno di carnevale, ho veduto Napoli a quell’ora deserta e tutto chiuso, spettacolo lacrimevole per chi sa l’affluenza della gente a quell’ora” (De Nicola, pp. 60-1).

“La propaganda giacobina voleva essere, per quanto possibile, capillare e giungere sino agli angoli più nascosti. Uno dei mezzi più singolari fu senza dubbio l’uso del dialetto, del quale fu autorevole fautrice, sulle colonne del Monitore Napolitano, la De Fonseca Pimentel e, tra altri scrittori oggi quasi del tutto ignoti, Sergio Fasano, autore del brano qui proposto. Si noti in questo l’accentuazione sul tema dell’eguaglianza sociale: “il povero e il ricco sono (devono essere) eguali”; l’ossequio alla religione: “San Gennaro ha fatto il miracolo”; l’utilizzazione delle superstizioni popolari: “la montagna di Somma (il Vesuvio) torna a far fuoco”), infatti, all’arrivo dei francesi era ricominciata la consueta eruzione); l’invettiva popolaresca contro l’odiata regina”. “Sso venute li Franzise, site curze co li Cannune, e co le Scoppette, avite fatto fuoco, e v’anno perdonate. Datele gusto mo, e farrite lo negozio vuosto. Chisse che bonno da vuje? Vonno che ve governate da vuje stisse; e non ve mettite co la faccia nterra pe rengrazià lo Cielo? Nchisso muodo lo stuorto s’adderizza. La justizia farà lo curzo sujo, nce vedarimmo nuje li fatti nuoste, li mbroglie sso fenute, l’ausurare non ngrassano co nnuje. Napole sarrà ricco, e venarrà lo tiempo de la Grassa. Fora Signure, e fora l’Ezzellenze; lo povero e lo ricco songo eguale, ogn’uno potrà di’ lo fatto sujo, e che bolite cchiù? La fede è chella stessa, S. Gennaro ha fatto lo mmeracolo, e la Montagna de Somma pe prejezza e pe lo bene nuosto torna a fa fuoco. Capacetateve Citatine, lo Rrè per nuje è stato no Tiranno, Briccona Fonnachera la Mogliera. Pensammo a nnuje, e pe lli figli nuoste: lo bene vene appriesso. Unimmoce da frate col li Franzise guappe e amoruse; e coll’arma, e co lo core vasammo le mmane a chillo Gioja de lo Generale lloro pocca nc’ha sparagnata la penetenzia de lo danno fatto, e senza guaje nc’anno dato lo rescatto da la Tirannia de no Govierno peo assai de chilo che stace ‘n Varvaria. A Napole, li 15 de lo Mese che chiove. L’amico di chi è ommo, e Patriota” (Battaglini, 100).

Picerno (Basilicata). “Appena il popolo intese l’arrivo de’ francesi, corse, seguendo il suo parroco, alla chiesa a render grazie al “Dio d’Israele che avea visitato e redento il suo popolo”. Dalla chiesa passò ad unirsi in parlamento, ed il primo atto della sua libertà fu quello di chieder conto dell’uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non tumulti, non massacri, non violenze accompagnarono la revindica dei suoi diritti: chi fu presente a quell’adunanza udì con piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior numero a taluno, che proponeva mezzi violenti: “Non conviene a noi, che ci lagniamo dell’ingiustizia degli altri, il darne l’esempio”. Il secondo uso della libertà fu di rivendicare le usurpazioni del feudatario. E quale fu il terzo? Quello di far prodigi per la libertà istessa, quello di battersi fino a che ebbero munizioni e, quando più non le ebbero, per aver del piombo, risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli organi delle chiese. “I nostri santi”, si disse, “non ne hanno bisogno”. Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche gl’istrumenti più necessari della medicina; le femmine, travestite da uomini onde imporre al nemico, si batterono in modo da ingannarlo più col loro valore che colle vesti loro. Non son questi gli estremi dell’amore della libertà? Ed a questo stesso segno molte altre popolazioni pervennero; e pervenute vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le stesse idee, i bisogni medesimi ed i medesimi desideri”  (Cuoco, pp. 103-4).

Potenza (Basilicata). “Il vescovo Serrao era in città amato e benedetto dalla parte buona della popolazione per le sue opere di carità ed amore. Giunto a Potenza l’annunzio dell’avvenuta proclamazione della repubblica fu inalzato l’albero della libertà assieme al tricolore. Nello stesso giorno si tenne parlamento per eleggere i membri della municipalità, secondo le norme trasmesse al Serrao; il quale in nome del Direttorio Napolitano presiedette l’adunanza. La sera poi il Vescovo, dando libero sfogo ai suoi patriottici sentimenti, al popolo affollato nel Duomo tenne elevato e memorabile discorso: ”…lodò il regime repubblicano, ne espose i vantaggi, giovandosi all’uopo della storia sacra e profana; parlò dei grandi benefici che avrebbe apportato al popolo la nascente libertà; lo esortò a farne buon uso, e non trascendere a sfrenata licenza”. Un decreto del Direttorio di Napoli nominò il vescovo Serrao Commissario Civile di Potenza con pieni poteri; egli a malincuore, ma da buon cittadino, accettò l’incarico e si diede a diffondere nel popolo come si dovesse intendere la libertà vera, che secondo lui era appunto quella predicata dagli Apostoli e consacrata dagli evangeli” (Serrao de Gregorj, pp. 341-2). “A Diano, fatto sancire in parlamento il suo diritto, il popolo occupò e divise il vasto demanio detto Sanizzo”.

Ripalimosani (Molise). “Fu uno de’ primi paesi, ove si innalzò l’albero della libertà. Ma la gran maggioranza del popolo era rimasta devota alla causa borbonica. Nel 3 febbraio il popolo si levò contro il picciol numero di Patriotti, abbatté l’albero, dié alle fiamme la residenza municipale, saccheggiò, devastò molte case. E non contento di ciò volle spargere ferocemente molto sangue cittadino. Ci furono nove morti nei tre giorni che durò la reazione. La moglie di uno degli assassini, con un fiasco in mano, pieno di vino, seguiva da per tutto gli attori di quelle tragedie e spesso, dando loro da bere, li incitava a distruggere persino le radichelle dei galantuomini”. Gli assassini verranno poi arrestati e fucilati a maggio (“Gli Abruzzi nel 1799”, pp. 74-5). Vasto (Abruzzo). “Il popolo, abbattuto l’albero della libertà, e arrestati quasi tutti i “civili” si resse per 25 giorni con propri magistrati non pensando affatto a restaurare le autorità borboniche. Nel parlamento popolare all’avvicinarsi dei Francesi alcuni proposero di trattare con essi, “poiché anch’essi erano repubblicani e rivoluzionari e avevano abbattuto i tiranni”. E proponevano di compiere l’ultimo atto della loro rivoluzione uccidendo i civili arrestati, i loro tiranni” (Rodolico, 214).

Cosenza (Calabria). “Erano giunti da Napoli i fratelli Orazio e Tommaso Telesio, dell’ordine Benedettino, i quali, per essere stati presenti all’ingresso dei francesi a Napoli, acquistarono subito autorità e prestigio: con una bandiera in una mano e il crocifisso nell’altra, i fratelli Telesio si posero in testa al corteo dove erano insieme nobili borghesi e popolani, che percorsero le vie della città, esortando la popolazione perché il nuovo governo fosse stabilito e sostenuto. “Si andiede al Sedile dei nobili ed il popolo commosso gettò le sedie indorate dai balconi, che sfregiò l’impresa dei signori Lupinacci, ed altro, imbiattò di sporchizie quella del signor Mollo. Non contento il popolo ruppe l’impresa dei Borboni a Palazzo, nell’ospedale, nella Chiesa e dovunque si trovavano. Non si gridava altro che libertà, uguaglianza. Si fecero feste di allegrezza per tutta la città. Si pacificarono molte famiglie prima nemiche. Si piantò l’albero a palazzo. Questo era una trave con in punta una coppola ed un fascio di verghe con la scure. Si piantarono l’alberi nella piazza piccola, avanti S. Domenico, in Portapiana e si proclamò la repubblica cosentina”. Fin dall’inizio apparve chiaro che uno degli obiettivi del moto repubblicano era la lotta contro il patriziato locale; scarsa fu dunque la partecipazione della nobiltà alla formazione della repubblica. Larghissima fu, viceversa, la partecipazione del ceto borghese, in tutte le sue interne gradazioni: dal possidente al professionista, all’agiato, da poco uscito dal mondo contadino. Il basso popolo non fu assente dal moto, specie all’inizio, ma non ebbe parte negli affari del nuovo governo e si trasformò, perciò, in strumento reazionario quando apparve chiaro l’orientamento dei capi repubblicani, ai quali erano estranei i suoi reali bisogni e che, assai spesso, erano coloro che avevano rafforzato i loro possessi terrieri, riducendo forzosamente le terre comuni e costringendo i modestissimi proprietari contadini ad alienare i propri fondi” (Cingari, pp. 122-4).

4 febbraio. Lunedì. Napoli. Si riaprono i tribunali e sono mantenuti in vita, fino a nuova decisione, gli organi esistenti previa mutazione delle denominazioni, ad eccezione del Tribunale di Polizia, definitivamente soppresso; anche il vecchio personale viene perciò mantenuto in attività. Nel Governo Provvisorio si comincia ad affrontare la riforma dello stato delle proprietà con la soppressione dei fedecommessi e dei maggiorascati (vecchia aspirazione del riformismo napoletano). “Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime dai sensi e, quel che è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, i capricci, e talora tutti i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, dai nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietà e i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell’operazione, e che intanto vi entrarono” (Cuoco, p. 83).

“Il principe Luca Caracciolo offrì a noi ufficiali francesi una caccia al lago d’Agnano. La caccia fu ammirevole per il luogo in cui si svolse e per il numero delle giovani donne che vi si trovarono. Ci fu un banchetto e ci fu servito sotto una tenda magnifica. Infine la festa terminò con un ballo sontuoso che, effettuato nel palazzo del principe a Napoli, durò per buona parte della notte. Ogni giorno ci portava dei nuovi omaggi. Mai i capi d’una armata straniera, nemica, erano stati oggetti di tali galanterie; c’era, a questo proposito, un’attiva rivalità tra i personaggi d’alto rango. Così l’élite della popolazione sembrava averci adottato” (generale Thiébault, p. 410).

Molfetta (Puglia). “I galantuomini accolgono gli emissari repubblicani ed esortano il popolo ad aderire alla loro iniziativa. Si va in chiesa per esporre dal pergamo i principali articoli delle leggi nuove. La Repubblica, afferma il canonico Di Mola, “apporta tranquillità senza disturbo e abbondanza senza miserie”. Ma i popolani diffidano di queste assicurazioni: tranquillità senza disturbo giova soltanto a chi non intende cedere e rinunziare alle prerogative e ai privilegi che vengono ritenuti diritti”  (Pedio, p. 166).

Bitonto (Puglia). “Qua l’indicazione dei notabili alla popolazione fu di starsene quieti fin’aqquando non si fosse avvicinato un esercito e, solo allora, di attaccarsi in petto la coccarda coi colori di quell’esercito, di qualsiasi colore e fede esso fosse arrisultato” (B. Lopez, articolo di “Repubblica”, 27 luglio 2001).

Crotone (Calabria). “La repubblica fu proclamata, all’arrivo della posta di Napoli con le prime notizie sull’ingresso delle truppe francesi e la costituzione del governo provvisorio. Ne furono artefici soprattutto alcuni Francesi, che si trovavano a Cotrone, in alleanza coi liberali della città e, secondo il vescovo Coiro, con la partecipazione specialmente del popolo che chiese subito l’abolizione dei gravosi tributi. Non mancarono da parte dei capi le promesse di risoluzione del problema fiscale; si diede, anzi, l’assicurazione che si sarebbe provveduto alla divisione delle terre demaniali. Nel duomo si cantò il Te Deum, il vescovo aveva sulla cappamagna la coccarda tricolore” (Cingari, pp. 147-52).

5 febbraio. Martedì. Napoli. Tutti i Comitati componenti il Governo Provvisorio sono in piena attività. Esce il secondo numero del Monitore Napoletano. “Non si è conosciuto affatto essere oggi l’ultimo giorno di carnevale, come carnevale non vi è stato, così la gente ha continuato a non dimostrare alcun segno” (De Nicola, 62).

“Mentre fu stabilito che le antiche autorità costituite rimanessero in attività, furono mandati nelle provincie per le riforme del caso dei democratizzatori (strana idea, e strano nome!), che in genere furono giovanotti inesperti e senza autorità, che presto vennero quasi ovunque in urto con le autorità locali sempre in carica; ne derivò nelle amministrazioni gran turbamento e grave disordine, che malamente raccomandavano il nuovo governo. Lo stesso avvenne nell’organizzazione dei municipi, avendosi voluto anche in essa imitare la Francia: prima l’elezione dei municipi era fatta direttamente dai cittadini-elettori, ora veniva fatta dagli elettori scelti (in numero di 6 per municipio); e giustamente le popolazioni si domandavano: “Prima i municipi erano eletti da noi; abbiamo tanto sofferto e tanto conteso per conservarci questo diritto contro i baroni e contro il fisco; oggi non l’abbiamo più! Che libertà è questa?” (Serrao De Gregorj, 145-6).

Molfetta (Puglia). “La mattina i pescatori e i marinai insorgono e, guidati da un contrabbandiere, certo Filippo Gaeta, si rendono responsabili di inconsulti atti di violenza. Due monaci vengono massacrati durante il saccheggio del Convento di S. Domenico. Padre Tarallino, un povero frate laico, è trascinato fuori dal convento. Invano il vescovo Antonucci interviene per sottrarlo alla furia popolare. Il povero frate è massacrato innanzi alla Chiesa del Purgatorio. E lì davanti, il giorno dopo, la plebe inferocita massacra altri esponenti della ricca borghesia repubblicana” (Pedio, pp. 166-7).

Trani (Puglia). Era stata democratizzata il 3 febbraio, il 4 era stata costituita la municipalità, il 5 il popolo insorto abbatteva il regime repubblicano. Istigatori erano stati i birri licenziati di quei tribunali. Il popolo elesse subito a suoi amministratori bottai, fornai, marinai, contadini (Rodolico, p. 215). “Verso le ore ventidue di detto giorno, ultimo di Carnevale, scoppiò la felice controrivoluzione. Molti armati, che ingrossavano con essere stati secondati da tutta la popolazione, che di mano in mano si armò e concorse, come seguirono del pari tutti gli armati dai Deputati della Guardia, fecero in pezzi l’Albero e le bandiere, calpestarono le infami coccarde tricolorate, occuparono il Castello ed il fortino, inalberarono le reali bandiere e rimisero le armi reali; innalzarono il Tossello co’ ritratti de’ Sovrani, riconobbero le Autorità Reali ed agli allegri spari delle fucilate, cannonate e suoni di campane, andarono in Chiesa a cantare Te Deum” (Pedio, p. 197).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • G. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • L. Coppa-Zuccari, “L’invasione francese degli Abruzzi (1798-1810)”, L’Aquila, 1928, v. I
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • A. Fiordelisi, “I Giornali di Diomede Marinelli”, Napoli, 1901
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974
  •  Relazioni dei Governatori e dei Sindaci delle Università della Provincia di Bari sui fatti del 1799”
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997
  • E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, 1998
  • Thiébault, “Mémoires du général baron Thiébault”, Paris