“Natale” di Giuseppe Ungaretti, da “Allegria di naufragi”. Un’ipotesi interpretativa.
Questo è un lavoro scritto nel dicembre 1992 da un mio studente del quinto anno del Liceo Linguistico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che un ragazzo di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta di “Allegria di naufragi”, naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture. “Un classico”, scriveva Italo Calvino, “è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé: ma continuamente se li scrolla di dosso”. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.
prof. Gennaro Cucciniello
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro capriole
di fumo
del focolare
Napoli il 26 dicembre 1916
E’ da prendere subito in considerazione la data in cui la poesia è stata scritta: 26 dicembre 1916. L’Italia è entrata in guerra da più di un anno e mezzo e il poeta è già venuto a contatto con gli orrori del conflitto, con le brutture della trincea, con le sofferenze ed i dolori dei soldati. La data ci è dunque utile per capire la condizione psicologica in cui si trova l’autore.
E’ Natale, sembra quasi un periodo di tregua, sembra che la guerra attraversi una stasi. Sembra che Ungaretti possa fermarsi, fermarsi per pensare, estraniandosi da tutto quanto lo circonda. Non è un caso, infatti, che il testo cominci con una negazione: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade”. Emerge perciò già nella prima strofa la non volontà di associarsi alla città, al gomitolo di strade, al suo labirinto infinito. Il poeta sembra refrattario, freddo (proprio “come la pietra del S. Michele”) agli inviti seducenti della città. L’uso del verbo tuffarmi” sottolinea l’analogia ma anche la contrapposizione col “tuffarsi nei suoi fiumi” che, in un altro testo, avevano significato la piena integrazione nella vita; ma questo momento di apatia non sfocerà in malinconia ma in un’immagine dai tratti palazzeschiani, le capriole di fumo del focolare. Col correlativo oggettivo, osservando l’ambiente estraneo che lo circonda, Ungaretti passa a rappresentare il suo malessere interiore: figura immobile di un uomo dallo sguardo pensoso e attonito. Questo processo di isolamento continua poi nella seconda strofa dove il poeta si abbandona: “Ho tanta / stanchezza / sulle spalle”. E’ da notare l’allitterazione in “S” che dà una sensazione di scivolamento, di silenzio, di desiderio di tranquillità. Così come è da rilevare la posizione in parallelo del verbo nelle due strofe: “Non ho voglia” – “Ho tanta”. Negazione e affermazione, stesso verbo, l’io soggettivo: l’autore ci parla nella sua dimensione. Necessità di una pausa, necessità di uno spazio bianco, necessità di fermarsi, di bloccare il corpo per lasciar andare la mente con i propri pensieri. L’uomo di dolore, “a cui basta un’illusione per sperare”, si blocca, vuole isolarsi per un po’. E’ sopraffatto dalla “tanta stanchezza” che gli grava sulle spalle, in bella assonanza con le strade rifiutate prima. Il poeta ha deliberatamente staccato l’aggettivo “tanta” dal nome cui è riferito (stanchezza) per marcare in maniera più vistosa il peso della stanchezza, enfatizzata anche dall’allitterazione in “A”. Tre versi dunque, cinque parole fondamentali: verbo, aggettivo, nome, preposizione, nome, uniti, fusi a formare un pensiero, una sensazione palpabile quasi, un senso di spossatezza –evidenziato anche dal gioco delle doppie (stanchezza, spalle)-che sembra trasfondersi nel sangue di chi legge. Un momento di riflessione e poi la ripresa con un invito: “Lasciatemi così”.
Lasciatemi: voi è il soggetto sottinteso. Ma voi chi? I suoi compagni? Gli amici che lo stanno ospitando a Napoli? Gli uomini tutti? Tutto ciò che gli è estraneo? “Così”: ritorna lo stato d’animo descritto nelle prime due strofe. “Lasciatemi così:” posta in posizione principe, dopo il rallentamento suggerito dalle prime due strofe, sembra quasi una locuzione pronunciata a voce alta che va a scontrarsi col bisbiglio trepido degli altri versi. Ritorna poi il torpore, la pace, col paragone: “come / una cosa / posata”. Ritorna quindi il come delle similitudini utilizzate in molte poesie (“Sono una creatura; Soldati; Agonia; Allegria di naufragi). In questo caso il nostro si paragona ad una cosa, una cosa qualsiasi, non ad un soggetto ben definito, una cosa deposta in un angolo e lì dimenticata: i critici parlano di “processo di cosificazione dell’umano”. Ungaretti resta vago e sospeso. La strofa ricorda in maniera evidente un altro testo, scritto un anno dopo, “DORMIRE”: Vorrei imitare / questo paese / adagiato sul suo camice / di neve”, dove notiamo soprattutto nei participi “posato / adagiato” una stretta somiglianza. Da notare ancora alcuni giochi linguistici: l’allitterazione in C che lega i primi tre versicoli: “così-come-cosa”, e la forte assonantizzazione di “cosa- posata”, in rima vicina con “dimenticata”. Nel verso 12 c’è in un brevissimo battito di ritmo quel “in un” che si ricollega mirabilmente a “in un gomitolo” del verso 3 e introduce l’”angolo” del verso 14: un contrasto-somiglianza tra il groviglio tortuoso dei vicoli di Napoli e l’appartata tranquillità dell’angolo silenzioso. In sottofondo si riprende l’idea dei cunicoli della trincea? E’ da sottolineare infine un altro artificio linguistico interessante: la congiunzione “e” fatta scivolare all’ultimo verso della strofa: con questo sistema si spezza (quasi) la strofa, nella mente rimane sospesa l’immagine del cantuccio tranquillo; c’è una pausa silenziosa, si prosegue la lettura e si trova la congiunzione e il participio passato, una fragile separazione che imprime ancora di più nella mente questa idea di isolamento.
Nella quarta strofa “Qui” è posto in posizione principe. Lo stacco è avvenuto con un’altra indicazione spaziale. Il “Qui” isolato ci avvicina ad un Ungaretti lontano da tutto e da tutti. Si prosegue con una litote, “non si sente altro che”, si avverte solo il caldo buono, solo quello, null’altro. Le parole si inseguono, “caldo-fumo-focolare”, c’è un caldo benevolo, tranquillo, un caldo che prima che sulla pelle si può assaporare in bocca, se ne può quasi sentire il gusto. La mente ricorda il freddo della trincea dove il soldato aveva trascorso interminabili nottate gelide, ore drammatiche, ricordi di una terra lontana, il suo Egitto affocato. Poi questo caldo buono lascia il posto ad un’affermazione tanto decisa quanto silenziosa. Sembra quasi che la voce del poeta sfumi piano piano, è come se la sua penna scrivesse con un tratto sempre più leggero, fino a svanire. E’ del tutto evidente la somiglianza in parallelo tra “Qui” e “Sto”, entrambi all’inizio delle strofe e solitari. Ci sembra quasi di vederle le capriole del fumo. Fissando il focolare la mente vaga tra i pensieri. Ci aiutano le allitterazioni in C (con, capriole) e in F (fumo, focolare), e la ripetizione delle preposizioni (di, del), che creano una musica a tre tempi (con- capriole,di-del, fumo- focolare) che ben si accoppia con le quattro capriole e con la terribile solitudine del nostro poeta. Un linguaggio quotidiano, il suo, ma allo stesso tempo intenso ed oscuro, che conferisce all’intera poesia un senso di vaga indeterminatezza.
Carlo T.