Con questa lettera l’abate Genovesi, titolare a Napoli della cattedra universitaria di “Economia e commercio” –la prima del genere in Europa-, si rivolgeva ad un suo immaginario interlocutore, un Canonico, per contestare le tesi reazionarie di una parte dell’ambiente clericale e conservatore di Napoli: le tesi di chi identificava negli auspicati mutamenti economici, nelle riforme sociali, nella modernizzazione ed europeizzazione della scienza, nella diffusione della cultura la causa di ogni male e di tutte le inquietudini della società meridionale, vagheggiando al contrario un ritorno al primitivo e alla campagna, ad un’organizzazione politico-sociale ancor più gerarchica e teocratica, ad un più diffuso analfabetismo. La polemica aveva toccato anche il tema della delinquenza, col canonico a declamare che l’aumento della criminalità si doveva soprattutto ad un lassismo nell’applicazione della legge e a invocare nuove torture e più feroci esecuzioni. La risposta genovesiana è scritta con vigore e passione. L’illusorietà e l’irrealizzabilità delle sue proposte riformatrici non intaccano il valore e l’importanza della sua battaglia: un impegno che in questa pagina si eleva, come nei più alti esempi dell’Illuminismo europeo, a difesa dell’uguaglianza di tutti gli uomini e del loro diritto a creare una diversa e più giusta società. Si può consultare il testo nel saggio, da me curato, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Milano, Principato, 1975, pp. 147-150.
Antonio Genovesi, “Noi non siamo nati fiere, ma ci siamo ben fatti tali”, 1764
Quando la legge pensa a punire i delitti, ma non a prevenirli col soccorrere alla natura, non fa che aumentarli. Quella povertà, quella mal cavezza (1) di necessità, quei bisogni insiti, quelle false superstizioni, ispirano la frode, il furto, la rapina, la rissa, il tradimento, la venalità d’ogni cosa e dell’onore medesimo, la falsità, i veleni, gli odi, le invidie, tante maniere d’omicidii, parricidii… chi li potrebbe ridire? E’ la povertà, è la miseria, è il bisogno, è l’ignoranza, che o fa degli uomini crudeli e sanguinari; o spianta le famiglie, spopola le nazioni, impoverisce a poco a poco piccoli e grandi, e ‘l sovrano in fine. Opprime lo spirito, deturpa le arti, e le sbarbica: rende le nazioni prima schiave e poi le caccia in campagna siccome bestie feroci. Vien la legge, e dice: bruciato il parricida, squartato l’omicida, mutilato il falsario, esiliato il vendicatore della giustizia, deportato… Adagio! I medici che non curano che i sintomi non sono de’ gran fisici (2). Direi io, educate; date prima da mangiare, da bere, da vestire, da abitare, da bruciare legna nel focolare, allargate le nozze e rendete agevole il sostenere una famiglia; arti, perché si viva: arti perché si sappia pensare: rischiarate le menti degli uomini su i veri loro interessi: catechizzate: e poi bella cosa e divina è la forca, la mannaia e il fuoco, se bisogna. Pretendete che la legge col solo mostrarsi faccia rinunciare alla natura o all’invecchiato costume? Confidate su d’una virtù troppo rara. Io in fatto d’economia vorrei fidar sul fisico, più che sul morale. Ho a ridurre la Francia, diceva Errigo IV, a sì fatto stato che non vi sia contadino che le domeniche non abbia un pollo da strappargli il collo e da mettere a bollire.
Volete sapere questa povertà donde nasce? Perché non è poi di suolo, di clima, di causa accidentale, che sarebbe la vera, ma di costituzione politica. Non occorre che vi andiate lambiccando il cervello col dirmi: “è la poltroneria, è il lusso, è il mal costume: è il non esserci più fede, né privata, né pubblica”. Ciance. Tutti questi mali non sono che effetti della povertà. La povertà fa i poltroni: ella genera il mal costume: ella annulla la fede pubblica: ella (qual paradosso!) genera il lusso, dal quale viene poi vicendevolmente alimentata; perché se non vi fossero di questi poveri, ch’or vi dirò, e’ non ci sarebbe lusso, o ve ne sarebbe tanto da non esser che politezza (3); e servirebbe di rimedio contro la povertà e di restituzione del soperchio usurpato: paradosso che non capirà ognuno, ancorché niente sia più vero. Volete saper dunque donde proviene questa povertà, cagione fecondissima di scelleraggini? Uditemi. Mi servirò di un esempio. Faccia il nostro regno con la capitale ottocentomila famiglie. Si dividano le terre con tal proporzione che niuna famiglia sia che non n’abbia una parte. Allora i frutti della terra con un po’ di arti miglioratrici vi daranno a vivere a tutti, come già nel Perù, poi nel Paraguai (4). I poveri, se ve n’è, saranno ridotti al minimo possibile: e questi medesimi troveranno di leggieri (5) ad impiegarsi nelle arti miglioratrici, e di quel po’ di lusso, che vi debb’essere, per nutrirle, e per equilibrare la giustizia distributrice. Questo teorema vel do per dimostrato. Non ho qui pazienza di udire opposizioni.
Facciamo ora di un altro modo. Centomila famiglie abbiansi divise le terre: che faranno le altre settecentomila? Quel che fassi in Polonia. Quelle settecentomila famiglie saranno schiavi addicti glebae. Faticheranno su gli altrui fondi per un tozzo muffato di pane e un po’ di sale: non avranno altre case che capanne di Canadesi; non altri letti che la nuda terra o un po’ di paglia. Vedranno i figli morirsi di stento e di fame; le mogli a disposizione de’ padroni, e de’ loro fattori e procuratori. Verran loro in odio le nozze: la compassione de’ figli; il dolore di vedere altri arricchirsi de’ loro stenti gli scoraggerà: aborriranno una fatica destinata ad ingrassare degli avari poltroni: sopravverrà la disperazione: abbandoneranno il proprio suolo e altri cercheranno de’ chiostri: altri si daranno ad una vita di sgherri, o di guidoni (5): altri s’ingegneranno d’impiegarsi dove credono di star meglio, e diverranno furbi, ladri, assassini: altri si studieranno di gabbare e di avere a forza di frodi quel che non possono avere per giustizia. Quindi vedrete una guerra sorda d’inganni, garbugli, ingiustizie, tradimenti, omicidii… vedrete… volete ch’il dica, come mi pare? vedrete scatenati tutt’i diavoli su la terra. Voi griderete: “prendete, ligate, gastigate, appendete, squarciate, bruciate queste fiere”. Sì, bene. Ma sappiate prima che quella divisione gli ha fatti tali. Appresso che tutti questi esecutori de’ vostri comandi sono appunto quelli che prima di tutti si avrebbero a prendere, perciocché per la medesima ragione, per cui quelle son fiere, questi sono interessati a burlarvi. Ma quando anche gli avrete presi, restano d’infiniti altri che sbucano ogni dì fuora da quello istesso vermocane (6). Vogliono pane, pane, pane: e voi mostrate la mazza. Che? Credete che ci faccia più paura morire di un colpo di pistoletto che a bistento (7) per rodersi le viscere?
Be’, questa sorgente di tanti vizi, di tante scelleraggini, che vedesi in tre quarti della terra, è dalla natura o dal costume politico? Se è dal costume politico, che non potrebbe non esserci, perché accusate la natura? Non siamo dunque cosaccia, non fiere, non nature traditore, né nati per distruggerci.
Volete sapere, Canonico, chi sono coloro che più di ogni altro si studiano di far peggiorare gli uomini e inondare la frode, la crudeltà, la scelleraggine? Quegli appunto, che gridano “alla fiera” e mostrano in parole gran rispetto alla virtù, ma non dicono mai però alle ricchezze: “fin qui, basta”: quegli uomini da boschi e da riviera, che pretendono essere uomini d’anima. Quest’avidità, oceano senza lidi, non si può satollare che a spesa di migliaia e migliaia di persone, cui è forza restare a secco per l’altrui ingordigia. Quanto più si chiappa del comune patrimonio, più crescono gli indigenti. Ma un necessitoso serberà la pazienza un giorno, due, tre: una settimana: un anno: siete poi sicuro che scappa. Pretendete ingiustamente troppa virtù negli altri, non avendone voi nessuna. Mi muovono un certo riso amaro coloro che mostrano il viso sempre levato al cielo, che pare che non agognino che all’estremità, e intanto con i piedi, colle ginocchia, colle mani, non fanno che desertar la terra per straricchire (8).
Noi non siamo nati fiere, Canonico mio, ma ci siamo ben fatti tali, e ci facciamo ogni dì.
Siam per natura nudi, bisognosi, necessitosi, ignoranti, stolti… è vero. E perciò abbiam bisogno di essere ammaestrati, disciplinati, soccorsi, levati di necessità. Questo fanno le arti, le scienze. E voi volete spiantarle? Consideratene dunque il vantaggio: guardatele pel vero aspetto, e anzi di disarmarne, fate che ne siamo fornitissimi: ma fate che sieno più pratica che teoria. Vedrete che non siamo così “cosaccia”, come voi credete. Voi potrete a questo modo render docili e umani, siccome essi nascono, che non altri, ma gl’Imbis (9) medesimi, più crudeli de’ quali non credo che nutrisca il globo terraqueo. I cani americani non latravano, finché non l’impararono da’ nostri.
Canonico, fino a che i gentiluomini, i quali son creati per regolatori delle povere persone (10), avran paura del vero sapere e si opporranno con quei loro gran corpi al fulgore delle scienze, latrando, stracciando, cacciando via, opprimendo, noi saremo barbari e feroci: ma il saremo per ingiusto ostacolo di potersi sviluppar la natura, non per la natura.
(da A. Genovesi, “Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gli ignoranti che gli scienziati”, Napoli, 1764, lettera X, in “ Illuministi italiani. Riformatori napoletani”, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, t. V, pp. 254-261).
Gennaro Cucciniello
(1) La cavezza è una fune di cuoio che, sistemata a forma di museruola, serve a tener legato per il capo il cavallo o altro animale; nel Settecento indicava anche la fune che serviva per l’impiccagione. Qui è da intendere: quel dannato capestro del bisogno.
(2) Il fisico era allora il medico (per distinguerlo dal chirurgo).
(3) Il Genovesi era male informato sulla realtà delle colonie iberiche del Sud America.
(4) Facilmente
(5) Dallo spagnolo “guitòn”, da cui “guitto”, furfante, ribaldo.
(6) Verminaio
(7) In un’attesa penosa
(8) La frase è immagine di grande potenza ed efficacia.
(9) “popolo della Cafreria” (nota dello stesso Genovesi).
(10)Sopravvive il concetto della nobiltà regolatrice ed educatrice delle altre classi (concetto diffuso nell’ambiente italiano soprattutto dal Parini).
Quasi settanta anni dopo, il 21 novembre 1833, nella solitarietà della sua stanza il grande poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli così scriveva:
Er povero ladro
Nun ce vò mica tanto, Monzignore,
de stà lì a ssede a ssentenzià la gente
e de dì: questo è reo, quest’è innocente.
Er punto forte è de vedeje er core.
Sa quanti rei de drento hanno ppiù onore
che chi de fora nun ha ffatto gnente?
Sa lei che chi ffa er male e sse ne pente
è mezz’angelo e mezzo peccatore?
Io sò ladro, lo so e me ne vergoggno:
però l’obbrigo suo sarìa de vede
si ho rubbato pe vizzio o ppe bisoggno.
S’averìa da capì quer che sse pena
da un pover’omo, in cammio de sta a ssede
sentenzianno la gente a ppanza piena.