A Milano si scopre l’America 150 anni prima di Colombo
L’avreste mai creduto che l’America sia stata scoperta da un milanese, a metà del Trecento, più di un secolo prima del viaggio di Colombo? Oddio, forse è troppo, in tempi di cancel culture, parlare di “scoperta”: meglio essere cauti, come fa Paolo Chiesa nel suo libro “Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome” (Laterza) dove racconta, accompagnato da un team straordinario di giovani studenti, una meravigliosa avventura alla ricerca di un manoscritto e di un milanese, un frate domenicano, organico ai Visconti, il cui nome è legato oggi a una strada cittadina non lontano da porta Monforte: Galvano Fiamma.
Galvano (1283-1344) vive negli anni della definitiva affermazione dei Visconti a Milano. E’ un intellettuale e un cortigiano, forse un po’ arrivista, “ma in media con molti letterati del suo tempo, anche più famosi di lui”, scrive Chiesa. Ha una passione: la storia. Di Milano, innanzitutto, che, per lui, è la più antica città d’Italia, fondata da “Subres, bisnipote di Noè, attraverso Iafet l’Europeo” (un primato imbattibile).
E’, a tutto tondo, un campanilista e tale vuole apparire. Ma, a un certo momento della sua avventura intellettuale, non si accontenta più di questa prospettiva cittadina. Vuole esplorare altri campi e dedicarsi a un nuovo progetto, senza abbandonare i canoni del suo tempo: una storia universale. Comincia allora un’opera monstre. Una “Cronica universalis”. Accumula schede su schede, abbandona la microstoria e si dà alla macrostoria.
Ciò che viene fuori dal nuovo impegno di Fiamma è un progetto faraonico e velleitario. Procede, nota Chiesa, per accumulo, evita di discutere le diverse opinioni enumerandole però una ad una (arrivando al paradosso di contare ben sette paradisi terrestri frutto di sette diverse autorità), e alla fine raccoglie un’infinità di notizie che generano un indigeribile zibaldone che, a metà, abbandona. Così, invece di raccontare la storia dell’umanità dalle origini ai suoi tempi, si ferma molto prima, all’800 a.C. Ne scaturisce un’opera prolissa, di scarsa utilità se non per gli specialisti della materia.
Il manoscritto comunque vive una sua vita avventurosa. Con una storia che non si limita a Milano ma travalica l’Oceano Atlantico fino alla città di Omaha, nel Nebraska, comprato da un mecenate, l’imprenditore Byron Reed, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, rivenduto nel 1986 dal museo alla biblioteca pubblica della città americana per fare cassa, fino a essere messo all’asta l’8 ottobre 1996 e poi, di nuovo, il 1° dicembre 1998. Comprato da un misterioso acquirente ma sufficientemente gentile da metterlo a disposizione di Paolo Chiesa che lo fotografa a New York nel dicembre 2015.
Ecco che cosa si trovarono davanti Chiesa e i suoi studenti: niente di stupefacente, 656 capitoli indigesti, che oggi occuperebbero 500 pagine dattiloscritte, per lo più ripetitive e inutili. Finché si imbattono in una serie di strani capitoli. Dal capitolo 273 al 379 Galvano affronta un tema per lui senza precedenti: “La geografia delle terre lontane”. L’argomento lo appassiona, viste le fonti che cita, molte delle quali stravaganti ai nostri occhi ma ben inserite nella cultura del tempo. Per lui era chiaro, come per tutti gli uomini medievali, checché si pensi oggi, che la terra fosse tonda. Ma abitata fin dove? Agli antipodi vive qualcuno, uomini che tengono i loro piedi nei punti opposti ai nostri? La risposta è sì. Ma come raggiungerli? E, quegli uomini, come sono fatti? Galvano cerca notizie, sempre in quella sua maniera confusa e caotica. Però finisce per descrivere terre inaspettate. Liberandole talvolta dall’alone leggendario e conferendo ad esse dignità testimoniale, come il regno d’Etiopia, che nelle sue pagine appare vivido e concreto. Poi, dal sud passa al nord. C’è l’Irlanda. Troviamo la Norvegia e la Danimarca, o Dacia “con il nome che usavano i dotti di allora” e, piano piano, l’autore si addentra in regioni sconosciute: l’Islanda la si oltrepassa nominandola soltanto; si arriva quindi in Groenlandia e, da lì, a Marckalada.
Che cos’è questa terra? Galvano la descrive. E’ una regione florida, ricca di alberi, animali e uccelli. Gli abitanti sono giganti, “perché vi si trovano costruzioni di pietre gigantesche”. Essi, tuttavia, nessuno li ha mai visti, perché “nessun marinaio è mai riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche”. E’ naturale che Chiesa e il suo team, quando hanno letto la notizia di Marckalada, abbiano fatto un salto sulla sedia. Dopo la Groenlandia, infatti, cosa c’è se non le coste occidentali americane?
Riscontri dopo riscontri, procedendo con grande perizia critica ed erudita, distinguendo il grano dall’oglio, epurando l’opera da ogni taccia di falsità, ecco la scoperta: Galvano Fiamma parla proprio delle coste americane. Ed è il primo che lo abbia fatto in maniera abbastanza nitida e precisa.
Il libro poteva chiudersi anche qui. Con questo racconto affascinante di una scoperta che scompagina le nostre idee sulla dimensione geografica medievale e apre un nuovo terreno di discussione sulla scoperta delle Americhe. Ma Chiesa, che è storico profondo e attento ai problemi, va oltre. Con l’affrontare soprattutto un tema: Galvano la notizia di Markalada da chi la riceve? Attraverso quali canali? Con quali forme di trasmissione? Scritta? Orale? Naturalmente, non si tratta di dati scontati. Come faceva uno che non si era mai mosso da Milano, o tutt’al più era arrivato al porto di Genova, ad avere notizie così dirette?
Si sa che della terra detta Markland parlano due celebri saghe norrene, quelle dei Groenlandesi e quella di Erik il Rosso; e che la parola significa proprio “terra dei boschi”, composta dai termini islandesi mork (foresta) e land (terra). E di Markland parlano altre fonti: la cita un ignoto geografo islandese nel 1300 nella sua descrizione del mondo e se ne parla ancora, nella seconda metà del secolo, negli Annali islandesi.
Questi sono i testi che legge Galvano? Sicuramente no. La chiave è un’altra. Probabilmente proprio Genova, luogo centrale di commercio, il principale hub di collegamento tra il Mediterraneo e i mari del Nord, città dove “nel giro di soli tre giorni arrivava il sale e ogni tipo di spezie”, in cui l’informazione viene concepita come fondamentale risorsa per il commercio. Al porto marinai, viaggiatori, preti, come Giovanni da Carignano, pellegrini, cartografi raccolgono storie, dicerie, disegnano e compulsano mappe, si scambiano pareri.
Questo si deve credere fosse l’humus da cui Galvano Fiamma trasse l’eccezionale storia di Marckalada, una storia che rivela un Medioevo poco appariscente, fatto di curiosità, di domande, di ampiezza di scambi e di “una circolazione di notizie che finora si sospettavano soltanto, ma di cui non si aveva prova”. E dimostra che viaggiatori e studiosi comunicavano tra loro, e l’esperienza degli uni valeva la conoscenza degli altri”.
Amedeo Feniello
L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 5 febbraio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, alla pag. 11.