Abramo, padre tormentato tra amore e timore
Non c’è forse racconto più sconvolgente di quello biblico del cosiddetto “sacrificio di Isacco”. In esso sembra essere in gioco un rovesciamento traumatico della paternità: la mano del padre non protegge la vita del figlio ma si arma per dargli la morte. Il testo biblico si impernia su una richiesta paradossale e atroce che un Padre (Dio) muove ad un altro padre (Abramo): che sacrifichi, in nome della fede, il suo figlio più amato, Isacco. “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su un monte che ti indicherò”. Kierkegaard si è soffermato sullo scandalo di questa scena in pagine memorabili di “Timore e tremore” facendo ai Abramo un “cavaliere della fede”. Secondo il filosofo danese il conflitto che attraversa Abramo è quello tra due Leggi inconciliabili; da una parte la Legge etica degli uomini che sancisce il dovere del padre di assumersi una responsabilità illimitata verso il proprio figlio e, dall’altra, la Legge di Dio che impone, assurdamente, che i limiti della Legge etica vengano oltrepassati, scardinati, trascesi dalla Legge religiosa che impone l’obbedienza assoluta verso Dio. E’ l’aut aut in aggirabile col quale Abramo si confronta: se rispetta la Legge etica degli uomini si trova a disdire la Legge religiosa di Dio; se invece segue la Legge religiosa di Dio si mette in contrasto con la Legge etica degli uomini. Nessuna sintesi dialettica tra le due Leggi è possibile. Resta solo l’angoscia –il tremore- di fronte all’irrevocabilità della scelta. E’ questo il dramma di Abramo che Kierkegaard segue: e se Abramo avesse sentito male o avesse frainteso il comando di Dio? Avrà tentennato nei tre giorni di viaggio trascorsi in compagnia del figlio per raggiungere il monte Moria dove avrebbe dovuto compiersi il sacrificio umano? E quali brividi attraversano il cuore di quel padre quando il figlio gli chiede teneramente dov’è l’agnello che avrebbero dovuto sacrificare al loro Dio senza percepire che è lui stesso ad essere la vittima designata?
Senza addentrarmi in una lettura teologica di questa scena vorrei cogliere laicamente il suo focus nel sacrificio a cui Abramo e sua moglie Sara sono chiamati da Dio. In gioco è la rinuncia ad ogni proprietà sul loro amatissimo figlio. Ma che figlio è Isacco? Il testo biblico lo presenta come il figlio della promessa. Egli viene al mondo grazie alla parola di Dio da due genitori ormai anziani, fuori tempo biologico, incapaci di generare naturalmente. In questo senso Isacco è un puro dono di Dio. E’ il figlio tanto sperato quanto inatteso; è, quindi, il figlio più amato, l’unigenito immensamente desiderato. Ora, non è privo di importanza che Dio comandi che sia proprio questo figlio, il più amato, il figlio da sacrificare. Perché? Nella lettura anti-sacrificale proposta da André Wénin, Dio non esige il sacrificio umano di Isacco ma esige che i suoi genitori lo sappiano perdere; che sappiano rinunciare alla sua proprietà. In questo senso quando Abramo risponde alla richiesta assurda del suo Dio offrendosi senza riserva (Eccomi!”) ci rivela il senso più profondo della paternità. “Eccomi!” significa esserci, amare il proprio figlio sino al punto di rinunciare ad ogni diritto di proprietà su di lui. Significa divaricare, come accade in ogni paternità simbolica, la dimensione illimitata della responsabilità da quella ristretta della proprietà.
Anche Sara occupa una posizione particolare verso Isacco. Per lei più che per Abramo, che ha già avuto un altro figlio, Ismaele, da una sua schiava, è davvero il suo unico e insperato figlio. Non ne ha potuti avere prima a causa della sua sterilità e non ne potrà più avere dopo a causa della sua tarda età. Isacco è il solo figlio. E Dio le chiede di rinunciare alla sua vita. Ecco che si palesa qui la prova più grande: perdere il proprio figlio, il più amato, lasciarlo andare, sacrificarlo. Si tratta di slegare il figlio dai lacci che lo vincolano alla sua famiglia e al desiderio dei suoi genitori. Il coltello di Abramo non colpisce, infatti, la carne del figlio ma, guidato dalla mano dell’angelo, lo libera dai lacci, lo slega, permettendogli di divaricare la sua strada da quella dei genitori. Abramo rinuncia al rispecchiamento narcisistico nel proprio figlio, accetta la discontinuità tra le generazioni, sa abbandonare Isacco nel deserto. Non è forse questo il gesto che più di ogni altro riflette il dono di un padre e di una madre? Saper abbandonare, dopo averli amati e cresciuti, i loro figli nel deserto dell’esistenza? Non a caso Sara morirà all’indomani del ritorno di Abramo.
E Isacco potrà trovare moglie in Rebecca solo una volta disceso senza la compagnia del padre dal monte Moria. In questo senso lo stesso Kierkegaard può scrivere che “con la fede Abramo non rinunciò a Isacco ma con la fede Abramo ottenne Isacco”, ovvero rese possibile ad Isacco la sua libertà, la sua vita singolare sciogliendola dai lacci che lo legavano alla famiglia d’origine. E’ questo anche il dono ultimo di Sara: accogliere il proprio tramonto, la propria fine, lasciare andare il figlio. La vita umana infatti esige la separazione e l’abbandono; esige di incontrare il mondo al di là della famiglia. La sospensione del sacrificio rivela qui tutta la sua posta in gioco: sono Abramo e Sara che devono perdere il loro amato figlio unigenito, che devono sacrificarne la proprietà per consentire al figlio di diventare un uomo.
Massimo Recalcati
Articolo pubblicato in “Repubblica”, domenica 15 maggio 2016, p. 56