“ALLOSANFA’N” di P. e V. Taviani, 1974 (prima parte)
con Marcello Mastroianni, Laura Betti, Bruno Cirino, Lea Massari
Estratti da un fascicolo di 106 pagine, pubblicato nel maggio 1997, custodito nella biblioteca dell’Istituto Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre; gli studenti sono diciassettenni.
Prefazione
Fulvio Imbriani, aristocratico lombardo, imprigionato dagli austriaci, è improvvisamente rilasciato dal carcere, volendo far credere ad un suo tradimento. La setta dei “Fratelli Sublimi”, a cui egli aderisce, lo cattura e, credendolo colpevole, quasi lo ammazza. Scampato alla morte, Fulvio ritorna alla casa paterna da cui manca da vent’anni. Ammalato, scoraggiato, qui trova nelle cure amorevoli della sorella e della famiglia tutto un conforto dimenticato: ciò non fa che acuire la sua angoscia interiore e il dubbio di aver combattuto una battaglia sbagliata. A scuoterlo è l’arrivo di Charlotte, la donna con la quale egli ha vissuto e che possiede ancora una fede cieca nella loro missione rivoluzionaria. Raggiunto pure dai compagni, che lo vogliono coinvolgere in un’ennesima spedizione perdente, egli non impedisce alla sorella Ester di denunciarli alle guardie. Sfuggiti fortunosamente all’arresto, i congiurati si ritrovano per dare sepoltura a Charlotte, rimasta invece uccisa. Così Fulvio è di nuovo in mezzo alla lotta, che vuole sempre abbandonare, ma che costantemente lo insegue per catturarlo. I preparativi per la spedizione si rivelano fallimentari, con i fucili mancanti e la presenza impopolare di Vanni Peste, odiato dai suoi compaesani. Fulvio, che ancora una volta ha cercato di liberarsi dei confratelli, anche eliminandone uno –Lionello- per fuggire in America col figlio, con uno stratagemma viene addormentato. Così l’Imbriani si imbarca per il Sud, dove insieme ai compagni troverà la morte, lui ucciso dai soldati, loro massacrati dai contadini. L’unico a salvarsi è Allosanfàn, figlio del Gran Maestro della setta, che in preda al delirio racconta una vittoria immaginaria a Fulvio, il quale, ingannato a sua volta, indossa la camicia rossa: un simbolo che lo farà identificare e uccidere.
Siamo giunti al quarto quaderno di analisi di un testo cinematografico e vi affrontiamo un nodo contraddittorio dell’utopico ideologismo dei primi moti risorgimentali italiani. Ancora una volta gli studenti si sono dimostrati, tutti, diligenti e acuti osservatori, pazienti lettori, con una brillante resa dei particolari e meticolosa capacità d’introspezione. Ci siamo confrontati con la vicenda angosciosa di Fulvio Imbriani, una vita piena di traversie tormentate, sullo sfondo di un universo di carcere e di clandestinità. Ci sono dei versi di Tommaso Campanella che credo possano riassumere e dare eco alle tensioni e delusioni del nostro eroe:
“Sei e sei anni che ‘n pena dispenso / l’afflizion d’ogni senso,
le membra sette volte tormentate, / le bestemmie e le favole dei sciocchi,
il sol negato agli occhi / i nervi stratti, l’ossa scontinoate, / le polpe lacerate”.
Non vorrei minimamente paragonare quella straordinaria macchina di apprendimento, di elaborazione e di persuasione raffinate –quale fu Campanella- alla debolezza psicologica e alla crisi privata del nostro congiurato post-giacobino; ma c’è comunanza di crisi di “heroici furori”, di lucido disincanto, di voglia di sopravvivenza. Seguiremo nelle sequenze, raccontate e interpretate dai ragazzi, lo sviluppo della storia. Riporto –in un’appendice critica- le note di Moravia, Morandini, Coluccelli. Ma –poiché non sono d’accordo con l’assunto centrale delle tesi di Moravia e Morandini- voglio puntualizzare il mio dissenso e aprire una discussione. In breve, il nodo centrale del film è ritenuto da questi critici il tradimento del militante carbonaro deluso e infiacchito, col gusto e il melodramma tutto italiano del tradimento. Ne sarebbero una conferma l’analisi dell’anti-eroe, il Fulvio Imbriani, che tradisce e regredisce nel proprio egoistico “particulare”, e la contrapposizione –nei suoi confronti- del gruppo dei suoi compagni sempre fiduciosi, incrollabili, ingenui, “grulli e goffi e storditi” scrive Morandini. Questa interpretazione non mi convince anche se le riconosco una persuasiva capacità di penetrazione psicologica e di apparente lucidità storica.
Per me, invece, il tema centrale del film è la grande forza dell’utopia rivoluzionaria, vista però in tutta la sua complessità e dialetticità, in tutti i suoi problemi e le sue umane e storiche contraddizioni. Ogni movimento rinnovatore va analizzato in tutti i suoi intrecci: vi sono al suo interno esigenze ed egoismi individuali, dubbi esistenziali, riflessioni politiche, slanci etici, il rifiuto del quieto vivere, la ricerca personale e collettiva della felicità e tante altre cose. I “fratelli Sublimi” si sentono gli eredi di una lunga tradizione che non muore e non vuole morire: che non si aggiorna né si adatta o si piega; e per questo non si sentono soli ma avvolti da una grande nube di testimoni; quasi invocano regole dure ed esigenti, lavoro incessante, rigore, dedizione, rinuncia, sacrificio (è questo che è lontano dal sentire di molti giovani d’oggi, come testimonia lucidamente lo scritto di Ketty B.). Tutto questo non è il “particolare” di Guicciardini, come dice Moravia. Prendiamo Fulvio, ad esempio. E’ vero, sprofonda nel suo guscio individuale ma ha dedicato vent’anni alla rivoluzione senza che sia successo nulla; è vero che è attirato dalla dolcezza dell’ambiente familiare e dalla sensualità di donne e cose ma ha abbandonato musica, figlio, compagna per inseguire un risultato politico irraggiungibile. Fulvio porta in primo piano le contraddizioni umane irrisolvibili del rivoluzionario; ma se restasse solo su questo piano sarebbe sì solo un personaggio melodrammatico. Invece è di più. In lui la crisi è dettata dalla ragione storica: la sfiducia nel successo, che fa crollare tanti miti (v. il suicidio del Gran Maestro), è motivata anche dal suo tentativo di analisi delle forze in campo, dalla scoperta dell’inesistenza di classi sociali dietro la rivoluzione, dalla carenza nei suoi compagni di conoscenza scientifica della realtà. Sono centrali, da questo punto di vista, i monologhi di Fulvio e di Tito: quando il primo commenta con lucida amarezza lo svanire dell’illusione ideologica mentre i fratelli carbonari –guidati dal suo amico Tito- scendono i prati ben curati della villa nobiliare in cui Fulvio è convalescente e stanno per cadere nel tranello della polizia; e quando il secondo incita i compagni all’impresa finale, alla fratellanza tra patrioti del nord e contadini del sud, e constata con rimpianto –ma anche con dolorosa serenità- che i suoi anni più belli sono passati nell’attesa di una società ormai mitica di uomini eguali e fratelli. Ancora sono significative, sulla nave che naviga verso il sud, le brevi e secche annotazioni del dialogo fra l’Imbriani e Vanni Peste culminate in quel “cialtroni!” –detto a bassa voce da Fulvio e indirizzato ai suoi compagni che cantano infervorati “la Marsigliese” e nulla sospettano del disprezzo e della paura che accompagnano nel suo paese la figura di Vanni Gavina. E’ drammatica tutta la scena finale dei contadini colerosi e del prete dalla faccia proletaria che grida: “Che ci portano? Pane, farina, medicine? No, armi e colera ci portano!”. L’utopia rivoluzionaria, se vuole realizzarsi, deve diventare progetto politico fondato sulla padronanza dei dati reali e sul coinvolgimento consapevole delle forze sociali protagoniste del cambiamento. Ma poi perché non vedere nei “Fratelli Sublimi”, così sicuri nella loro fede e ottimisti, non degli antagonisti di Fulvio Imbriani ma le proiezioni del suo passato, di come era anni prima, quando la crisi non lo aveva ancora toccato. Se fosse così, essi non sarebbero sciocchi e stolidi ma sognatori accaniti, deliranti certo –come alla fine Allosanfàn- ma che continuano a proclamare la necessità dell’impegno, nonostante tutto. E lo stesso Fulvio, alla fine, indossa la camicia rossa forse non per totale opportunismo ma perché ha creduto al racconto di Allosanfàn e ha scambiato il sogno per la realtà, anche lui che fino ad allora aveva lucidamente visto le deficienze e le ingenuità dei fratelli. E del resto chi sono stati nella storia i “Fratelli Sublimi?”. Una setta carbonara, di impronta buonarrotiana e di nostalgia giacobina, con ideali massonici e di comunismo primitivo, elitaria nel reclutamento e nella composizione sociale, isolata ed avversata dalla stessa borghesia, priva di qualsiasi capacità di capire le strutture della produzione e dell’organizzazione sociale, illuministica e paternalistica nei rapporti con le masse popolari. Ma nel film non è solo rappresentata la crisi delle sette carbonare italiane. Nel tentativo di sbarcare nel Sud viene esemplificata dai registi la vicenda mazziniana della spedizione in Calabria dei veneziani fratelli Bandiera del 1844 e quindi è presentato il fallimento anche del primo organico tentativo di superare l’organizzazione politica ristretta del carbonarismo e di creare programmi politici e strumenti di propaganda capaci di parlare alle grandi masse di popolo. Senza risultato e con la morte di chi ha osato. Ma passeranno pochi anni e la spedizione garibaldina, in un quadro nazionale e internazionale mutato, dimostrerà che i patrioti coraggiosi e lucidi possono anche vincere.
prof. Gennaro Cucciniello
maggio 1997
Il processo dei “fratelli Sublimi” a Fulvio Imbriani
Sipario. Sette secondi di profondo silenzio, il tempo giusto per leggere lo scritto iniziale, quella frase preludio della fine, che inserisce il film nel periodo della Restaurazione. Poi la frase scompare e un sipario rosso si apre. Un’inquadratura frontale mostra un’alta scala, a monte un’ampia finestra da cui entra una fredda luce bianco-grigia che riempie l’ambiente. Tutto fa pensare all’interno di un sontuoso palazzo signorile, nessun elemento “architettonico” ricorda un carcere, solo un cancello spalancato in ferro –alla base della scalinata- lo rievoca vagamente. Ma è invece il climax a richiamare il pensiero a quel luogo di sofferenze: la luce fredda, l’imponenza della scalinata, la divisa nera delle guardie, il loro scalpitio sui bianchi e duri gradini di marmo, l’ordine con cui scendono la gradinata e si dispongono ai suoi lati, l’impeccabilità dei loro movimenti, la gelida impassibilità con cui attendono “il colpevole”.
Proclama di libertà. La scena si sposta ai piedi della scalinata. Sulla sinistra, di spalle, c’è un personaggio vestito di nero che legge, con voce chiara, un verbale. Di fronte a lui il Prefetto: una parrucca bianca, un mantello nero con bordature dorate, una camicia dal colletto alto, un’espressione austera, lo sguardo lontano, la bocca diritta in una smorfia inespressiva, il viso segnato dalle rughe di chi ha sorriso troppo per convenienza, la testa che ondeggia annuendo con tono di sufficienza. La “camera” è di nuovo di fronte alla scalinata, alla cui sommità appare la figura di Fulvio Imbriani, accompagnato da una guardia che lo sospinge verso il basso. L’uomo scende le scale e le guardie, ad una ad una, lo bastonano, senza sforzo, quasi senza violenza, e riprendono poi, composte, la loro postazione. Fulvio arriva davanti al Prefetto, ansimante. Il rosso vivo del suo vestito, simbolo della sua lotta e resistenza, anche in carcere, si impone sui colori smorti della scena circostante. E’ libero di andarsene. I suoi occhi increduli guardano prima il Prefetto, per poi dirigersi verso le guardie, quasi intuendo un macabro scherzo, col sospetto che vogliano coglierlo di sorpresa. Il “lettore” ribadisce con voce più alta che egli è libero per concessione del Prefetto che, nel giorno del “Te Deum” ha deciso di essere clemente. L’Imbriani tenta di parlare, borbotta qualcosa, una guardia gli pone il mantello sulle spalle e lui sobbalza nervoso, teso, incredulo, poi si avvia verso l’uscita. Primo piano sul volto, poi è inquadrata la sua figura intera. Indugia sulla porta, poi scende frettolosamente i gradini. Un attimo dopo due guardie appaiono sull’uscio, si mascherano e si accingono a seguirlo.
Il rapimento. La scena si sposta in città. Sono inquadrati due vicoli paralleli divisi da un palazzo e da una piazza. Fulvio proviene dal vicolo buio di sinistra; nella fretta urta due passanti, barcolla e poi si dirige verso una fontana, nello spiazzo. Nel frattempo dal vicolo di destra, più illuminato, si avvicina un gruppo di uomini vestiti con un camice ed un cappuccio bianco. La “camera” zooma su alcuni di loro che corrono verso l’Imbriani: uno gli afferra il mantello e lo passa ad un altro che si traveste per apparire come Fulvio, altri afferrano il Fulvio vero, lo sdraiano su un carretto e lo coprono con una “cappotta”. L’azione è fulminea, si svolge in pochi secondi; il “sosia” prosegue verso destra, seguito dalle guardie che non si sono accorte di nulla mentre il resto del gruppo imbocca tranquillo il vicolo di sinistra. Fin dall’inizio comincia a sentirsi una melodia di viole e violini, lieve, alla quale si aggiunge un canto quasi angelico che dà un senso di pace e libertà; la musica si alza di tono nel momento del rapimento, per poi abbassarsi del tutto.
Il trasporto. In questa scena c’è un alternarsi di inquadrature girate dall’interno e dall’esterno del carretto “incappottato”: questo alternarsi di “dentro-fuori” è per me simbolo di un dialogo tra Fulvio e “il mondo” al quale è stato brutalmente strappato nel momento della sua carcerazione, un mondo che ormai non conosce più, i cui avvenimenti ultimi ignora, un mondo che gli è quasi estraneo ormai. I “fratelli sublimi”, gli uomini in bianco, sono ripresi da dietro mentre trasportano il nostro verso il luogo del processo. La “camera” si sposta all’interno, tutto è di colore verde. Ciò è dovuto all’apertura, coperta da una lastra di vetro verde, che permette di vedere ciò che succede all’esterno; la macchina da presa, come se fosse gli occhi di Fulvio, inquadra Lionello, uno dei fratelli, che si toglie il cappuccio e gli sorride. Ora è inquadrato il volto incredulo dell’Imbriani che parla a fatica, divorato dalla febbre che lo assale da tre giorni, poi chiude gli occhi e sorride come un bambino che sa di essere al sicuro nelle braccia della madre. E’ inquadrato di nuovo Lionello: ora il suo viso s’è improvvisamente incupito e la sua bocca pronuncia una parola; Fulvio chiede, urla di ripetere più forte, nella speranza –forse- di aver frainteso; ma stavolta la chiara voce di Lionello grida: “traditore!” e poi nasconde il volto sotto il bianco cappuccio, quasi a voler mascherare l’accusa. Si vede, dall’esterno, nuovamente il gruppo dei fratelli, ripresi dal retro. Il carretto sobbalza e Fulvio viene scosso, il suo viso è sconvolto, brucia di febbre. Un’immagine di maestosa cattedrale gotica, dal basso verso l’alto. Poi di nuovo la faccia stravolta, pensosa, preoccupata e silenziosa di Fulvio. Dalla prima inquadratura fino all’ottava accompagna la scena una musica dolce e leggera, e sopra di essa prevale a volte il rumore delle ruote del carro sulla strada. Dalla nona inquadratura la musica si trasforma d’improvviso in un coro straziante di voci, sembrano quasi urla. Tutto ciò accentua la sensazione di confusione nella mente di Fulvio che, dopo l’illusione di aver trovato finalmente pace e rifugio presso i fratelli, comincia turbato a pensare: le mille voci del coro che urlano contro di lui sono i suoi pensieri che cercano di prevalere l’uno sull’altro e la febbre è il loro amplificatore.
Il Processo. Il tempio. Si vedono, dal basso, le rovine di un tempio, luogo dove probabilmente si celebrerà il processo, mentre le parole di Tito introducono già la scena. La “camera” inquadra Tito che espone a Fulvio, ora imputato, le ragioni dell’accusa. Tito ha un’espressione quasi colpevole, rassegnata, ma nei suoi occhi c’è ancora fiducia nell’innocenza dell’amico: lo rivelano infatti la sua voce bassa e la titubanza delle sue parole. Fulvio è ora inquadrato. E’ seduto in mezzo ai suoi “fratelli”, che sono ora i suoi carcerieri; è incredulo e chiude gli occhi nella speranza che sia tutto un sogno. La scena si allarga mostrando il cerchio dei settari nel tempio, c’è un momento di silenzio. Lionello accusa Fulvio di menzogna, di prendersi gioco di loro, ma la sua voce trema. L’Imbriani replica affermando che i bambini sono loro, che hanno messo in piedi questa pagliacciata. L’altro cerca di giustificare quel suo momento d’impeto; ha nel viso l’espressione di un bambino che sta accusando suo padre di averlo tradito, e lo sta facendo con tutto il coraggio che ha dentro, con la speranza di essersi sbagliato. Fulvio reagisce violentemente e lo getta a terra, indignato. Chiede a Tito, suo amico ma soprattutto la persona con maggiore autorità e senno, di far ragionare i fratelli, ma è braccato da lionello e non ottiene risposta.
Lo stagno. I fratelli lo conducono sulle sponde di uno stagno e ve lo gettano dentro, forse cercano di ucciderlo. Tito lo impedisce. La “camera” lo inquadra in primo piano. Ha capito, forse, che tutti loro hanno esagerato, che in un momento di grave tensione si sono lasciati prendere la mano ed hanno giudicato sommariamente senza aver dato spazio alla “difesa”. Tito cerca di far ragionare gli altri ma ottiene solo urla, grida, confusione. La “camera” si allarga e riprende il gruppo dei fratelli che si scontrano tra loro. La confusione materiale è simbolo di una più profonda confusione di ideali che sconvolge le loro menti. Ora anche le loro più sicure convinzioni si stanno sgretolando; vedono sfumare i loro sogni sotto la falce della restaurazione e tutto ciò li spaventa. La macchina da presa torna su Fulvio, accasciato in mezzo alla folla vociante. Qualcuno grida: “Lasciatelo parlare” e l’ordine si ristabilisce. Fulvio ora sa come dar prova della sua innocenza. Sono nuovamente inquadrati i fratelli che tentano di comprendere fiduciosi le sue parole e la scena si chiude sul volto dell’Imbriani. Solo il rumore del vento e le parole, le voci dei fratelli accompagnano questa scena.
La verità. La “camera” inquadra una pianta di glicine, inerpicata su di un muro, poi, scorrendo verso destra, arriva fino ad corpo esanime, se ne vede la testa. Il corpo è appeso ad una corda e penzola di fronte al glicine; un gruppo di curiosi si sofferma vicino e trova nella tasca una lettera. Uno di loro chiama una bimba per fargliela leggere. La giovanissima lettrice con innocente chiarezza legge quelle “parole da adulto” che stonano sulla sua bocca ma che rivelano ancor di più, con questo strano stratagemma registico, la lucidità con cui sono state scritte. Quel corpo è di Filippo Bonon, il Gran Maestro della setta. Sulle parole “Non perdono a nessuno e a nessuno chiedo perdono” la “camera” si sposta sul corpo penzolante che viene mosso dal vento e che con “un’espressione di rassegnazione” sembra guardare la piccola e tutti i suoi fratelli. La sua espressione rivela, più ancora delle sue parole, il suo pensiero. Si torna sulla piccola Giovanna, che continua a leggere, non comprende il contenuto della lettera ed estrapola da essa solo la frase, “caccia alle streghe”, che le fa alzare il viso verso il cadavere. La “camera” scorre ora sui volti dei fratelli, in particolare su quello di Fulvio che non crede a tutto ciò, non vuole credere che quel vecchio sia Filippo, non vuole credere che in fondo anche lui è così ora, ma è troppo afflitto, malato e sconfortato per poter pensare che la soluzione non può stare solo nella morte o nel tradimento o nel voler continuare una lotta che ormai “è morta” se la si mantiene nei vecchi schemi. La gente ai piedi del cadavere si accorge dei fratelli e cerca di fermarli; uno degli uomini manda Giovanna a chiamare la polizia. I fratelli si allontanano,cercando di non farsi notare, mentre Tito prende per un braccio Fulvio dicendogli di non guardare. La piccola, da sola, corre a chiamare le guardie, si ferma per togliersi le scarpe e poter correre più veloce. I “fratelli sublimi” ora scappano. Fulvio tiene lo sguardo fisso di fronte a sé e Tito lo guida. Lionello, disperato, cerca di abbracciarlo nel tentativo di farsi perdonare ma Tito, freddo e distaccato, lo scaccia e dà ordini, da buon capo militare, di separarsi per evitare una veloce cattura. Si scatena nuovamente la tensione, scoppia una discussione furibonda. L’unico che continua imperterrito per la sua strada è Fulvio, con uno sguardo ormai di ghiaccio (è la spia anticipatrice del suo futuro abbandono?). La “camera” inquadra ora dall’alto lo spiazzo dove si trovano i fratelli. Essi si sparpagliano e si nota in mezzo a loro Fulvio che, con passo spedito, prosegue diritto e sicuro. Tito torna da lui, egli prima lo respinge, lo allontana, poi lascia che egli lo segua. C’è un motivo musicale che, alla fine della sequenza, si impone: è una ballata, un motivo popolare, forse del’Italia del sud, lo stesso che balleranno assieme, alla fine, gli sconfitti, i contadini e i carbonari.
Eliana B.
Ritorno nella villa di famiglia
I preliminari. Paure e indecisione. Dietro i cespugli e le fronde degli alberi si scorge l’imponente villa di famiglia alla quale Fulvio si sta avvicinando: sa che qui sarà finalmente fuori pericolo e protetto, è sicuro che la famiglia lo accetterà perché tempo prima aveva ricevuto una lettera dalla sorella che gli chiedeva di ritornare. La musica (della sequenza precedente) diminuisce progressivamente d’intensità ed è sostituita dal fruscio delle foglie provocato dal vento e dalle voci dei due personaggi che avanzano. L’avvicinarsi e lo scrutare ricorda il movimento di un animale che con passi felpati arriva alla meta stabilita. Egli non è solo, con lui c’è Tito, al quale confessa –con espressione soddisfatta- di essere un “grande attore”, dal momento che ha deciso di travestirsi da frate e di fingere di essere un amico di se stesso, per non farsi riconoscere e per essere libero di andarsene nel caso in cui le circostanze non gli permettano di restare. Improvvisamente il richiamo di una voce di donna spezza il dialogo tra i due: la voce grida il nome di Fulvio e l’espressione che compare sul volto del nostro eroe è di sconcerto, per un attimo ha pensato di essere lui la persona chiamata. Tito gli chiede se si tratta della sorella, Fulvio risponde di no; poi, da una finestra, si scorge una donna dai lunghi capelli rossi che riassesta le tende mosse dal vento e subito il nostro si contraddice dicendo all’amico che è proprio lei: sua sorella Ester. Altre persone che si trovano sulla gradinata della villa gridano lo stesso nome, la balia di famiglia chiama invece “fringuellino” e per la seconda volta la sorella si affaccia ad una finestra, dirimpetto al grande giardino, e chiama spazientita e con tono deciso: “Fulvio!”.
Con un soprassalto, data la forza del richiamo, Fulvio risponde a voce bassa: “sono qua, Ester”. E, mentre pronuncia queste parole, il primo piano mette in risalto un volto febbricitante e desideroso di protezione. Anche l’immagine che riprende la grande casa è suggestiva e simbolica: ad essa segue la figura di Ester che rappresenta, più di ogni altro, il passato e la famiglia. Dall’ombra di alcuni alberi spunta un bambino che si dondola su un’altalena e che risponde al richiamo, “Eccomi, mamma!”. Un primo piano: il bambino non è felice, appare turbato, o forse è solo assorto nei suoi pensieri. Fulvio lo vede e capisce che si tratta di suo nipote al quale hanno dato lo stesso suo nome. La scena del piccolo che corre spensierato nel grande prato assolato sconvolge l’altro Fulvio: sembra quasi un suo flash-back, di lui quand’era bambino; a fargli sentire ancora più vivo e vicino il passato si aggiunge l’abbaiare del suo vecchio cane, come se avesse avvertito la presenza del padrone. Ora sembra avere un attimo di esitazione e di ripensamento. Ma a rincuorarlo delle sue incertezze e paure è Tito, che gli infila il cappuccio da frate e gli ricorda di dire ai familiari di essere malato. Fulvio va e la prima cosa che si sente di dover fare è riabbracciare il suo cane che, scodinzolando per la gioia, non rinuncia a farsi accarezzare. Tito, da un punto lontano del parco, guarda la scena e poi si appisola, nascosto sotto gli alberi: anche lui, come il cane, è un amico fedele e gli vuole bene. Deve aspettarlo lì per circa un’ora: se l’amico non tornerà più, vuol dire che tutto sarà andato per il meglio. Il cane e Tito sono la metafora della vera amicizia, del legame profondo che può esistere tra due persone che hanno combattuto e continuano a farlo per gli stessi ideali di vita. Un legame che purtroppo verrà spezzato: ecco il primo piano di Ester, che simboleggia i motivi psicologici e ideologici di questa rottura.
La cena. Siamo all’interno della villa, precisamente nella sala da pranzo, anche se l’unico elemento che ce lo fa capire è il fatto che tutti sono a tavola e stanno per mangiare, immersi in un’atmosfera cupa e formale. Non si vedono i mobili ma tutto si concentra nel fulcro centrale che è il lungo tavolo attorno al quale siedono il frate-Fulvio –a capo tavola-, Ester, il fratello e la moglie e, non a caso, -di fronte a Fulvio- suo nipote. Ester appare in un primo piano che rende l’immagine simile ad un quadro. Il suo viso è illuminato ma lo sfondo è buio; ella, immobile, guarda il frate ma il suo sguardo sembra incerto. Le sue parole riportano alla memoria, ricordando Fulvio, come il suo disperso fratello amasse abbinare ad ogni persona un colore. Il piccolo è distratto ed invece di mangiare osserva la sua mamma. Rimproverato dallo zio Costantino, che pronuncia il suo nome facendo sussultare “il frate” –non perfettamente a suo agio tra i familiari e timoroso di essere scoperto da un momento all’altro-, il bambino risponde che “la sua mamma è arancione”. A Ester sembra un bel pretesto per raccontare che quando suo fratello Fulvio era bambino diceva di chiudere gli occhi e di pensare a ciascuno come ad un colore. Egli, a differenza di suo figlio, la vedeva “viola”. Il primo piano che le viene fatto, però, sembra dare ragione al piccolo: il suo viso è luminoso e trasmette calore per i tratti un po’ rotondi e addolciti. Ma mentre suo figlio associa i colori in base alla tinta della carnagione e dei capelli, forse Fulvio lo faceva con un criterio diverso: e cioè sceglieva un colore che rispecchiasse il carattere e la personalità del soggetto. Il gioco piace e continua. La cognata sostiene che Costantino è “celeste”. Ester, indignata, le risponde con un secco no: Fulvio, infatti, diceva che il celeste è il colore della felicità ma egli non riusciva a vedere nessuno di quel colore; no, Costantino era “verde, verde-cavolo”, aggiunge con una risata sardonica. Fulvietto insiste e chiede alla sua mamma di quale colore si vedeva lo zio e lei gli risponde “d’oro”; Ester non riesce più a reprimere i suoi sentimenti e con passione afferma di rivolere indietro suo fratello; Costantino aggiunge che potrebbe tornare a fare il musicista, dato che sa suonare bene il violino; la moglie dice che potrebbe tornare con suo figlio ed Ester, con aria dominante e con voce ferma, “voglio anche lui”. Il piccolo chiede dove si trovi questo sconosciuto cugino e la madre dolcemente gli spiega che Massimiliano, così si chiama il bambino, vive lontano da loro e da suo padre, il quale –racconta- ha dovuto rinunciare a molte cose per le sue idee, anche a suo figlio: queste idee, un giorno, le potrà conoscere e giudicare. In Fulvio si accrescono nervosismo e ansia. La balia interviene e dice di fare bere al “reverendo” un vino dell’anno in cui Fulvio è nato: tutti brindano e la balia, sottovoce, “bevi, bevi, fringuellino”. Lei è l’unica della famiglia che ha capito chi è la persona che sta davanti a loro; il riconoscimento è sottolineato dal regista con un primo piano del viso della vecchia, che rimane incantata a fissare il frate incappucciato. E mentre Fulvio beve la guarda con complicità, sorseggia, poi muove gli occhi sulla sorella e torna indietro con la memoria come se fosse di nuovo bambino; il silenzio è tornato a dominare l’ambiente, una musica malinconica prende il posto delle parole e nella sua mente si apre la porta della stanza dei ricordi: egli vede Ester ancora viola, vede il fratello verde, e infine posa lo sguardo sul piccolo che è d’oro, proprio come lo era lui. Del Fulvio-adulto la macchina da presa inquadra solo gli occhi, mentre i suoi lineamenti sfumano nel buio della stanza: sembra che rimpianga il volto e la figura del Fulvio-bambino che simboleggia la sua infanzia. Ha la fortuna di potersi rivedere a distanza di molti anni: può capire come anche lui è stato bambino, ancora senza preoccupazioni e ideali da inseguire, preso solo dall’ingenuità dei suoi pochi anni. Ma se Fulvio può riconoscere se stesso da piccolo, non ha la facoltà di poter vedere cos’è diventato da adulto: ecco perché il Fulvietto non vede quasi nulla dell’altro, se non i suoi occhi che sembrano una maschera e non si capisce bene cosa esprimano: forse tristezza, affetto o passività dovuta all’amarezza per la sua presente condizione. Tutti gli sorridono ma il suo viso è smarrito, triste, teso. Tutto questo peggiora il suo stato di salute ed Ester, preoccupata, lo fa accompagnare in camera.
Rabbia e vendetta. Entra nell’atrio della casa un ufficiale austriaco, il marito di Ester. Fulvio sta faticosamente salendo le scale; Ester spiega al marito che quel frate è un amico di Fulvio e che è venuto a portare la notizia che Fulvio forse ritornerà. C’è il commento dell’uomo: “anche tuo fratello comincia ad imparare che è facile ora mettere la testa a posto…”. Il frate è preso da un impeto di rabbia incontenibile e scaglia una tazza addosso al nuovo venuto; Ester protesta per un gesto di cui non riesce a capire il motivo; Fulvio le risponde che è facile ricordarsi di suo fratello solo nel presente ma Costantino ribatte che è stato ricordato spesso anche in passato, quando il loro padre “era rimbecillito dalla vergogna”. A queste parole, Fulvio si ritrae e non ribatte, rassegnato sembra: ma il rancore è più forte e decide di metterli alla prova, non tanto per vendetta ma più per disperazione, per vedere se e come sarebbe stato rimpianto e per capire se la decisione di tornare sia stata veramente la più saggia. Comunica loro che “Fulvio è morto impiccandosi ad un albero tre giorni fa, non lontano da qui, per disperazione, perché abbandonato da tutti, solo come un cane”. Ester è la prima a reagire a queste parole. Non può ammettere a se stessa che questa sia la verità e, se suo marito interviene per sostenerla, lei gli si scaglia contro con tutta la sua forza, strattonandolo e dandogli del “vigliacco tedesco”. Costantino, invece, chiede dove si trovi il corpo del fratello: resta calmo, non si abbandona a nessun tipo di crisi violenta anche se il suo modo di parlare è nervoso ed esasperato.
La “camera” ritorna su Ester che corre ad abbracciare il suo bambino. Chissà perché la mia attenzione è attirata dallo scialle che porta sulle spalle: vi sono disegnate delle grandi rose di color viola. Costantino, incapace di reggersi ancora in piedi, si siede e, togliendosi con gesto sconsolato la parrucca, si abbandona ad un pianto silenzioso. Fulvio dall’alto delle scale ha potuto capire tutto, la sua e la loro meschinità ma anche l’affetto che ancora li unisce. E’ sudato ed è chiaramente all’estremo delle forze: la farsa è durata fin troppo a lungo. Comincia a scendere la scalinata per andare incontro ai familiari, che sembrano diffidenti. Si muove più velocemente, si toglie il cappuccio per farsi riconoscere e dice ripetutamente: “sono io, ragazzi, Ester, Costantino, sono io”, in tono confidenziale. La sequenza termina in un abbraccio: Fulvio non riesce più a reggersi in piedi e si lascia andare tra le braccia dei fratelli, “Ragazzi, muoio”.
Elena B.
Malattia e convalescenza di Fulvio
Il profumo del pane e l’odore dei ricordi.
“Ragazzi, muoio!”. Sono le ultime parole pronunciate dal febbricitante Fulvio mentre si accascia tra le braccia dei suoi familiari. In gran parte di questa sequenza le parole si ammutoliranno lasciando il posto alle immagini che porteranno lo spettatore dentro il personaggio: sapremo riconoscere i suoi ricordi come i nostri, la monotonia dello stare a letto e la scoperta del “calore familiare”. La prima scena sembra non dare scampo al nostro Fulvio: sdraiato e immobile nel lettone, i parenti attorno e un prete che lo benedice disegnando una croce nell’aria. Nella stanza entra poca luce perché è il crepuscolo ormai e l’apprensione dei familiari per quel corpo si legge nell’espressione e nell’attenzione con cui, al comando del religioso (“tiratelo su”), gli sollevano il busto e gli aprono la bocca in cui il prete deposita l’ostia di Cristo.
La scena si dissolve e se ne materializza una nuova: è ormai mattina e si propone una veduta dal giardino della splendida villa neoclassica, immersa in una leggera nebbia, la solita foschia mattutina padana. Si ode la voce di un gallo, prontamente inquadrato, ma la sua sveglia si ferma al primo rintocco perché una coperta rosso-sangue gli si abbatte addosso; due mani agguantano il fagotto e lo consegnano alle cure di un inserviente. “Prendi, portalo lontano da qui…ora occorre silenzio”, è l’unica raccomandazione della balia. Veniamo trasportati di colpo nella stanza preparata per accogliere il nostro eroe e che ora si presenta deserta. Riusciamo a distinguere il corpo inanimato del protagonista, che noi ricordiamo morente: il volto sbuca dalle coperte e il capo è sprofondato nel cuscino. La macchina da presa allarga l’inquadratura e ci viene proposto, a campo medio, uno scarabeo che ondeggia, aggrappato ai tendaggi di colore bianco, seguendo il ritmo dettato dal vento. Lo spostarsi dell’insetto da un angolo all’altro della stanza segna il lento lungo trascorrere del tempo (due giorni e due notti, mi sembra); si sente un canto di grilli. Ora è inquadrata la faccia di Fulvio: occhi chiusi, il mento proteso verso l’alto, il volto schiacciato sul cuscino; il corpo è in una posizione scomposta, sdraiato sul fianco destro. Nel frattempo lo scarabeo è andato a posarsi sulla sua spalla sinistra e questa volta, in primissimo piano, se ne distingue il colore verde lucente che ricorda uno di quegli splendidi gioielli di fabbricazione egizia. Ci viene poi proposto in visione un gatto in atteggiamento da sfinge, sopra un cuscino, la coda sventolante e, in sottofondo, il suo ronfare. Fulvio, seminascosto dal cuscino, risponde allo sguardo del felino con l’intensità di una risposta alla sfida: gli si vede un occhio solo e le sopracciglia aggrottate.
La “camera” indugia a questo punto sugli stucchi del soffitto e non se ne capisce il senso se non quando ritorna a inquadrare Fulvio, disteso supino nel letto, con lo sguardo perso nel vuoto, a guardare senza vedere. Costretto a letto, è obbligato a costruire itinerari fantastici; la telecamera assume il suo punto di vista: dal letto ripercorre le vie dettate dall’incrocio tra i muri, il pavimento e il soffitto, soffermandosi su quest’ultimo, nel punto in cui la luce disegna ombre di colore indefinito che si mescolano alle voci provenienti dalla grande finestra, indistinguibili. La scena cambia e con essa anche l’atmosfera: è notte, la stanza è appena rischiarata da un piccolo candelabro a quattro braccia, dove però bruciano solo due candele, e che si trova appoggiato sul mobiletto accanto al letto; la luce fioca illumina un lembo della tenda e un angolo dello specchio. Fulvio è sveglio e sente il bisogno di scoprire la propria vita con quel candelabro. Ponendolo in direzione del buio, davanti a sé, quell’oggetto gli rivela antichi ricordi rimasti sepolti nella mente per un tempo lunghissimo: i giochi d’infanzia, un baldacchino con i burattini, i violini, le malinconie si mescolano così a una nuova speranza che viaggia a vele spiegate verso un orizzonte indefinito, rappresentato in una piccola tela fissata al muro (vi è dipinto un veliero) e a una scritta minuscola prontamente inquadrata: “Verso le Americhe”. Quel “lume” di ragione che aveva strappato Fulvio alla sua vita aristocratica ora ve lo riporta con tutta la grazia e la sensualità che occorre per farcelo rimanere per sempre. In questo senso le inquadrature a seguire del pane che esce fragrante dal forno di casa e di Fulvio che si alza, seduto sul letto, ad annusare quel “ sapore”, sono emblematiche di tutta la sequenza. Ormai il protagonista comincia a guarire, a riassaporare il gusto delle attenzioni e delle comodità a cui aveva rinunciato; e non v’è alcuna malizia nella scena in cui la vecchia fedele domestica lo scopre e lo lava: “Oh! Stai guarendo, fringuellino, eh?”, perché quel fringuellino scappato dal nido lo aveva visto nascere. Lo ritroviamo dopo un bagno ristoratore, appoggiato al davanzale, intento ad osservare il mondo di fuori, nel parco. Pulito, con una veste bianca, lindo e le campane che suonano quasi in suo onore. Poi, davanti allo specchio, ritrova se stesso, il Fulvio di più di vent’anni prima: assapora lo stesso antico piacere del bello fisico e tutta una serie di valori presenti nell’animo dei benestanti. Quel “fammi bello” è pronunciato con tono di sfida a quel “barbone” vagabondo, rivoluzionario rinnegato, che –arrivato dal nulla- gli appare allo specchio. Il parrucchiere, al suo comando, comincia curiosamente a girargli attorno con le forbici in mano, come uno scultore che si appresti a dare il primo colpo sul blocco di marmo e comincia a tagliare. C’è un colore bianco che quasi abbacina l’ambiente: il bianco delle tende, delle lenzuola, della sedia, della vestaglia e che si confonde col bianco della luce del giorno.
Cambio di scena: Ester, ad occhi chiusi, è sdraiata su una seggiola da giardino sulla scalinata esterna della villa. All’improvviso riemerge dai suoi pensieri e, guardando la sua nipotina, comincia a canticchiare una nenia, di quelle che vengono insegnate ai bambini per farli giocare. Il piccolo Fulvietto è inginocchiato su uno sgabello di fronte al pianoforte. Ester, con uno sguardo d’intesa, si rivolge amorevolmente a Fulvio, ma con quella smania di quando si vuole rievocare un ricordo comune a più persone e creare quindi un’intesa, un legame profondo: “…non ti ricordi?”, e ancora, con ritmo trascinante, “dirin-din-din…dirin-din-din…”. Costantino e sua moglie, al richiamo della canzone, escono dal bosco e ritornano verso la casa. La vecchia balia, inquadrata frontalmente, inizia a disfare il letto a ritmo di musica. Da dietro una porta sbuca il marito austriaco di Ester che comincia anche lui a ballare. La balia, affacciata alla finestra, sculetta al tempo del ritmo. Primo piano di Fulvio che, preso dall’euforia, martella con la mano sul bracciolo della sedia. In campo medio, nel salotto, Fulvietto con aria dispettosa, di rabbia infantile, fa cadere per terra un pappagallo di ceramica posto sul tavolo. Il viso di Fulvio ora è quello di una volta, pulito, sereno nella mente e nell’animo, che si lascia cullare da un ricordo non più tale, un ricordo che ora è il presente, un presente che non ha più voglia di seppellirsi nella memoria. La macchina da presa inquadra di fronte, con una carrellata lenta, la villa in tutta la sua ampiezza e la musica si impadronisce della scena con un ritmo travolgente e splendido.
Nicola S.
Ricordi e ripensamenti
Chiudo gli occhi e furtivamente ascolto la voce silenziosa dei ricordi. La campagna, il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle foglie agitate dal vento, un aeroplano, il rumore dell’aratro dal campo vicino, risa spensierate di ragazzini gioiosi, una favola, il vecchio giradischi, passi brevi e frettolosi in un continuo rincorrersi, il profumo dei fiori, della terra, del fango e del dolce di mele appena sfornato; e poi all’improvviso lontana, profonda, indimenticabile…la voce del mio papà, una lacrima. Apro gli occhi e mi accorgo che ciò che era ora non è più. Mentre le piantine fragili di un tempo si sono trasformate in alberi massicci, querce vigorose capaci di sfidare qualsiasi vento tempestoso che li voglia sradicare, altri invece si sono raggrinziti, aggrottati, invecchiati, deboli ormai nell’affrontare nature impetuose. E così osservando la realtà nella natura stessa delle cose ci si rende conto che non sono poi tanto le lacrime del viso le più dolorose.
Io penso che Fulvio, durante il suo stato di malattia e poi di convalescenza trascorso nella vecchia casa natale, allo stesso mio modo abbia chiuso gli occhi e si sia lasciato trasportare e cullare dalla musica dei ricordi, per poi aprirli con il concludersi della sequenza e della canzone intonata dalla sorella. Nella mia analisi voglio prendere in considerazione i cinque sensi così da far percepire sensazioni ed emozioni.
Mi concentro sul “senso dell’udito”. Ascolto il silenzio, più o meno interrotto solo da suoni naturali come il cinguettio degli uccelli, voci indistinte, lontane. Continua la quiete…poi il silenzio è spezzato dolcemente dal mite, delicato e crescente suono del flauto, delineando i contorni del lieto e triste ricordo del passato. La musica fugge, ritorna la quiete. Un panno impregnato d’acqua e una prima voce di donna (quella della nutrice) e di seguito il suono delle campane di lontano e,dopo una lunghissima pausa, finalmente la voce di Fulvio, “Fammi bello!”. Ester gli dice: “te la ricordi?” e intona una vecchia canzone d’infanzia. La musica incalza sempre più e il tono della voce si fa più vivo, gioioso, pieno di entusiasmo. Tutti i familiari, compresa la balia, sembrano essere tornati indietro nel tempo quasi a voler rivivere nuovamente il passato, quel passato che forse li aveva visti tutti insieme e sereni. Poi un sospiro finale di Fulvio, debole ma nello stesso tempo rinvigorito dalla carica vitale dei ricordi, come se con quel sospiro ci si volesse liberare da quei timori che appesantiscono l’anima per sentirsi, come in gioventù, di nuovo totalmente liberi. Tutto si conclude con la canzone intonata alla fine da un coro di voci crescenti.
Apro gli occhi e ora utilizzo il “senso della vista”. C’è Fulvio, malato, nella sua stanza da letto. Una stanza non cupa, grigia, che rappresenti il suo stato di malattia, ma al contrario candida, fresca, solare, come se a dominare la situazione non fosse il timore della morte ma la speranza della vita. Lo stesso grande letto è di un bianco evidente, pulito, con lenzuola piene di ricami, grandi cuscini…immaginando quasi di vedere una nuvola soffice, delicata, materna. All’improvviso è inquadrato un gatto, immobile, rigido come un idolo; i suoi occhi fissi vengono ad incontrarsi con quelli di Fulvio, anch’essi inflessibili. Fieri, ardimentosi, dignitosi, occhi imprevedibili. E ancora subito dopo un gioco di ombre giallo-rosse su un soffitto ornato. Arriva la notte, accompagnata dal suono del flauto. La stanza non è mai completamente buia, ad illuminarla è la pallida luce delle candele. I giochi, il teatrino con i pupazzi, i violini e poi un quadro…una nave che va con le sue enormi vele bianche a solcare il mare impetuoso, rincorrendo un destino apparentemente ignoto ma poi svelato da quell’ultima inquadratura, “verso le Americhe”, verso la libertà. La notte svanisce di colpo e una pagnotta calda viene tolta dal forno. La nutrice lava con un panno imbevuto d’acqua il corpo di Fulvio che, avendo superato la malattia, si avvia ora al recupero delle forze e alla guarigione. Le immagini si susseguono. L’uomo si affaccia alla finestra e la luce sembra illuminarlo, avvolgerlo. Poi davanti allo specchio dice al barbiere: “Fammi bello!”, e ciocche di capelli tagliati cadono sul pavimento. All’aperto, nel portico, la vitalità della famiglia ritrovata esplode con esuberanza col ricordo d’una vecchia canzone popolare. Tutti cantano, Ester accenna un passo di danza. Fulvio si lascia trasportare dalla felicità e dalla serenità.
Per quanto riguarda l’olfatto, il gusto e il tatto possiamo provare a citare: il fragrante profumo del pane appena sfornato, quel pane fatto in casa dal sapore indimenticabile; respirare l’aria del mattino, la freschezza del vento, il calore del sole; il panno bagnato e l’acqua purificatrice che rinfresca il corpo di Fulvio ormai in via di guarigione.
Giada T.
Il gioco delle rinascite
Ecco! Gli strumenti sono accordati. Si alza il sipario, inizia il melodramma.
Ho deciso di analizzare la sequenza della malattia. Il personaggio di Fulvio è guidato da drammatiche contraddizioni, tali che mi hanno convinta a definirlo l’uomo dalle quattro nascite e dalle quattro morti. Alle prime due non assistiamo. Si tratta, nel primo caso, della nascita biologica di un rampollo dell’aristocrazia lombarda più conservatrice, con annessi e connessi; nel secondo è “l’uscita dalla minorità” propugnata da Kant e, quindi, la presa di coscienza da parte di un ragazzo della propria libertà senza i confini posti dal limite conosciuto con l’esperienza. Il film, a mio parere, inizia con la morte di questo ragazzo.
Il nostro eroe è deluso, amareggiato, malato; è tornato a casa trascinato da un impulso atavico, dalla ricerca di un luogo sicuro, dove curare le proprie ferite e , forse, morire. Novello Ulisse, si è presentato sotto mentite spoglie; solo il suo vecchio cane e la nutrice lo riconoscono (palese la ripresa di Omero, mancava solo che la povera bestia si chiamasse Argo) e l’accolgono con calore e con gioia repressa. La cena, l’ultima cena, è segnata dalla drammaticità dei ricordi, del ricercare affetti da ritrovare, dell’ansia del rifiuto. Fulvio è seduto a capotavola; la testa china sul piatto, gli occhi spiano fra le pieghe del cappuccio nella paura, frammista al desiderio, di essere riconosciuto. Di fronte a lui un trittico di colori (campo semantico della luce e del buio, la stanza è in penombra e oscurità, i volti illuminati): viola la sorella autoritaria e possessiva, verde il fratello invidioso e scaltro, d’oro l’ambizioso Fulvio della sua infanzia. Nessuno è celeste? Nessuno possiede il colore della felicità? (Guarda alla tua destra, non vedi la buona nutrice come luccica di turchino? Ella è felice, della felicità che solo l’arte di sapersi accontentare porta. O forse non vuoi vedere, ti farebbe troppo male accorgerti che lei, vecchia e ignorante fantesca, è arrivata dove tu non giungerai mai?). Dall’altro capo Fulvietto, eterna ripetizione di se stesso, suo nipote, specchio che riflette uno specchio, e allora la speranza, le radici affondano nella terra dell’affetto familiare.
Ma il guerriero non si è ancora spento e l’ultimo suo vigore lo fa sentire a noi tutti in una splendida scena teatrale: in cima alle scale, come sopra un pulpito, inveisce contro tutto ciò che lui chiama falsità, è stanco, febbricitante, sfiduciato. Pare Savonarola quando, nel 1492, gridava contro la depravazione dei costumi femminili e l’avidità degli uomini (non che abbia detto solo questo) mentre Colombo scopriva le Americhe. E poi, come in una tragedia greca, sui lamenti che si levano dai presenti all’annuncio della morte del congiunto (qui il deus ex machina capita a fagiolo), si alza una voce, la rivelazione: “sono io, Fulvio, amatemi, ho bisogno di voi, muoio”). (Scena da “Torna a casa, Lassie!”, nel momento in cui tutti si precipitano ad abbracciare il figliol prodigo).
Sul letto della sua giovinezza gli viene data l’estrema unzione, i veli del baldacchino come sudario. E’ morto il rivoluzionario. Un minuto di silenzio per la commemorazione. Non è morto solo, con lui si è spento il ragazzo che non era cresciuto, il simbolo che non era diventato. Circondato dai suoi cari, chiude gli occhi. Che beffa, a seppellirlo è un prete. Un sudario di nebbia avvolge anche la villa, un gallo solitario annuncia la vittoria del giorno sulla notte, ma non deve; zittito dalla cara nutrice, gli viene imposto il silenzio.
Lentamente, quasi titubanti, i raggi del sole filtrano dalle imposte illuminando il lettone dove riposa l’infermo, il neo-nato; è una luce dolce discendente che scaccia le ombre: quanto tempo è passato? Quant’è durato il travaglio? Il sole, simbolo di vita, è forse anche simbolo di illuminazione verso una nuova filosofia? E, intanto, i grilli stridono festosi. Ora la stanza brilla di una luce soffusa, bianca. Fulvio dorme come un pupo, incosciente di tutto e per questo tranquillo. Spicca uno scarabeo verde iridescente sulla tenda, chissà perché sarà entrato questo strano animaletto primaverile che poi si posa sul protagonista. Chi è poi il protagonista, il personaggio o l’insetto, è forse il “bacarozzo” apportatore di un messaggio di vita? Allo scarabeo si sovrappone un gatto soriano accucciato su un cuscino, al canto dei fringuelli si sostituiscono le fusa domestiche. E’ pomeriggio inoltrato e Fulvio, come paralizzato, fissa il micio, negli occhi una domanda, ma si può porre un quesito ad una sfinge senza che questa risponda con tutti gli enigmi del mondo? (Splendido chiasmo di immagini, una chicca offertaci dai Taviani, l’inquadratura si sposta dal primo piano del protagonista a quello dell’insetto che, in dissolvenza, si tramuta nel gatto per poi tornare a Fulvio, in un intreccio uomo-animale, animale-uomo). Le ombre giocano con gli stucchi del soffitto, tutto viene rivisto, di tutto si prende coscienza con occhi nuovi, con sollievo, ma non vi è ancora gioia, l’azzurro non fa per lui, e nuovamente Fulvio ricerca qualcosa che prima non aveva visto, dal pavimento al soffitto lungo un asse verticale. Nulla è cambiato (purtroppo?), tutto è uguale a come l’aveva lasciato. E’ il crepuscolo e gli uccelli cantano.
Scende la notte, con la sua calma ha messo tutti a dormire, solo il nostro “eroe” non riposa, deve continuare il suo viaggio di riscoperta delle gozzaniane “vecchie buone cose di pessimo gusto”. Ma se il sole è di Dio, l’uomo può solo indagare con la flebile luce delle candele. Ecco che allora lungo le pareti affiorano in successione il teatrino delle marionette (quanti giochi feci a quel tempo, ero felice allora?), gli strumenti musicali (oh, il mio violino, quante melodie, risate e scherzi), per poi essere inghiottiti di nuovo dalle tenebre; e, infine, il quadro (quante volte nei miei sogni infantili salpai con quella nave verso le Americhe, verso la libertà, è forse lì che troverò il mio pezzo di mondo, la mia felicità?). Ora sono troppo stanco per pensarci ma quanta nostalgia. Ecco l’aura di sacralità che si completa, l’asse verticale e quello orizzontale da sinistra a destra creano una croce che apporta un sigillo su tutto ciò che è ricordo, firma in calce di una esperienza quasi divina. La mattina, il profumo del pane appena sfornato impregna l’aria, la dolce fragranza che risveglia i sensi, la solidità, la sicurezza. L’umido del panno col quale l’antica balia lavava il bimbo e ora l’adulto. I cinque sensi sono stati ritrovati come la certezza di avere un porto: vista, udito, olfatto, tatto e gusto, per finire in bellezza con la candida battuta che noi farciremmo di malizia, “stai guarendo, fringuellino”, detta al lavaggio delle grazie del protetto e conclusa con un sorriso compiaciuto del personaggio.
Le campane annunciano festose la resurrezione del Cristo e, nello stesso tempo, salutano il nuovo Fulvio tornato alla vita; mi sono alzato, sono guarito, ho vinto (ho vinto?). Ultima fase ma non meno importante è il desiderio di piacere e di piacersi, “Fammi bello”, nella riconquista di un posto che già gli appartiene ma che comunque non sente proprio.
Siamo alla fine della sequenza. Sotto il portico vengono scandite le prime note di una ballata campagnola dell’infanzia che, in un climax ascendente, riempiono l’aria di una canzone cinguettante che culmina con le movenze della stessa Ester, accompagnata da Fulvio. Sembra che per la prima volta, dopo tanto tempo, la gioia sia rientrata nella casa ma c’è una nota stonata. Nel tentativo di ritrovare le proprie origini, l’Imbriani ha defraudato il nipote che ora, per gelosia, distrugge la statuetta in ceramica di un falco (rapace libero, forse la metafora dello stesso Fulvio senior), mentre la musica continua, anzi si intensifica, con ritmo più veloce, e le risate riecheggiano sulla scia di DIRINDINDIN . Quanto durerà?
Lisanna S.
L’arrivo di Tito e dei “fratelli”
Nella sfocatura di un campo lungo della villa degli Imbriani “emerge dal bosco una congrega di patetici e un po’ lugubri fantasmi: camminano senza avanzare, guardano senza vedere”. L’immagine diventa sempre più nitida, osserviamo l’arrivo dei “fratelli sublimi”: ora le parole di Fulvio accompagnano le immagini, ogni momento è descritto dalla sua voce. In un angolo del parco sono nascoste le guardie: sono lì per catturare i rivoluzionari.
Il monologo di Fulvio. “Perché sei venuto a riprendermi, Tito? Perché venite a riprendermi? Ma dove credete di andare così mascherati? Sono vent’anni che andate, venite, vi mascherate, che corriamo dietro a faville che sono soltanto ceneri. Dio! Come mi siete venuti a noia, state diventando anche voi soltanto delle tremende abitudini.
Da come cavalchi il tuo purosangue, Gioacchino, ti riconosco (si inquadra un asino); da come cammini, Ugo, con la tua artrosi, da come saltelli, Lionello. So perché stai saltando, cerchi di nascondere la vocazione alla morte che ti porti dietro. Imbecille, se lo rifai ti sparo addosso. Dovevi affogarmi, Lionello, dovevate lasciarmi morire di febbre, avete sbagliato a lasciarmi guarire. Sono guarito, sono cambiato, sto bene qui dove tutti mi vogliono bene.
Tito, Tito mio, ho perso la fede e non puoi cercare nemmeno di consolarmi perché sono io che ho pena di te. Tu non vivi, Tito mio, tu sopravvivi a qualcosa che è finito da tempo e che forse ricomincerà quando io e te saremo vecchi, morti, spazzati via…Non chiedermi quello che voglio, so soltanto quello che non voglio più. E tu dove guardi, Massimo, abbassa gli occhi o inciamperai; non sopporto i vostri occhi sempre volti al futuro, a me la vita è data una sola volta e non voglio aspettare la felicità universale. Chi di voi pazzi mi ama abbastanza da proteggermi contro la morte? Non guardatemi così! Se qualcosa vi deve spaventare non è la mia disperazione ma la mia allegria, voi neanche immaginate cosa si possa chiedere di diverso alla vita”.
Ecco: questo è il discorso di un uomo forse stanco, forse ormai in disaccordo con i compagni, forse ormai guarito dall’utopia o forse solamente deluso. Chissà se Charlotte se ne rende conto, che il suo amante, il padre di suo figlio (anche se non sembra essergli molto affezionata) sta cambiando, chissà se sente che lui è ormai lontano…In fin dei conti è nella sua casa, con la sua famiglia, nei suoi ricordi. E’ immerso nella quiete dei legami d’affetto, coi suoi cari…Per quale motivo dovrebbe continuare a seguire quelle folli idee, sicuramente mai realizzabili e comunque dure e faticose da ottenere, perché soffrire e rischiare di morire per inseguire qualcosa che ormai non si può avere perché non è più il suo tempo o forse perché è ancora troppo presto?
Quante domande, quante risposte da dare, questo è quello che mi viene in mente, questo penso sia quello che si chiedeva anche Fulvio. Infatti, come dice lui stesso, ormai il movimento segue ciecamente “faville che sono soltanto ceneri”. Come poter seguire qualcosa che ormai ha fatto il suo tempo, che ha bruciato molto, ma che sta diventando freddo? Ecco quello che sta succedendo ai movimenti rivoluzionari, hanno svolto la loro funzione, stanno emettendo gli ultimi bagliori prima della morte. Come una cosa può continuare a vivere se non ha seguito? Se non ha un qualche appoggio significativo (si veda l’ultima sequenza del film)? E’ comprensibile che ci possa essere un’altra interpretazione delle regole politiche e sociali, ma come un sogno può annebbiare i cervelli a tal punto da non riuscire ad organizzare i più semplici progetti? Solo una questione di noia, solo questo è rimasto di una vita passata inseguendo una chimera, sacrificando tutto ad essa per un “mondo più giusto”. Amici e compagni diventano semplici abitudini. Una demotivazione che spinge Fulvio a tradire. Ormai nella sua voce non c’è più amore e passione, c’è qualcosa che assomiglia molto alla stanchezza, al disgusto. Ma solo questa apatia lo spinge ad abbandonarli e a non fare niente per salvare loro la vita ma anzi a far trovare loro la morte?
Certo, anche l’aver ritrovato una famiglia che lo ama e che ora è contento di vedere contribuisce alla scelta ma non è ancora una risposta esauriente. E’, secondo me, la doppia natura di Fulvio a causare tutto: due differenti e inconciliabili nature che lo spingono a scegliere l’una o l’altra cosa a seconda della situazione, cercando sempre di ottenere il meglio per sé. Egli è un idealista a volte ingenuo ed è un realista disincantato, quasi cinico. Dico che è idealista perché segue un processo difficilissimo da compiere, un progetto grandioso, lungo da realizzare. E’ un rivoluzionario che veramente crede alla verità che porta. E’, e non era, perché nonostante affermi di essere guarito, di essere cambiato, è in fondo rimasto uguale a prima; nonostante sacrifichi i compagni, ancora li segue. E’ realista perché si accorge che la società della restaurazione non ha alcuna volontà di accoglierli. Quella guarigione è la sua volontà di separazione dal suo passato che continua a tormentarlo, che lo insegue e lo cerca dappertutto. E’ questo continuo ed eterno conflitto che lo accompagnerà fino al suo ultimo viaggio, è questa sua duplicità che lo condurrà alla morte. Fino alla fine i temi dell’utopia e del realismo si intrecceranno, fino alla tragica conclusione: la morte dell’utopia e il delirio di Allosanfàn. Lo scambio di giacche che porterà Fulvio alla morte non può essere anche uno scambio di “visione prospettica”?
Il primo tradimento. Ester entra nella camera del fratello, gli svela di aver denunciato i “fratelli”. Fulvio ha un momento di smarrimento, non sa come comportarsi, osserva dalla finestra. La sorella gli chiude gli occhi con una mano, all’uomo torna in mente un ricordo della sua infanzia: un veliero. La calma della stanza è sconvolta dal terremoto Charlotte che tenta, disperata, di salvare gli amici.
Il veliero. Un flash nella mente di Fulvio, quel vecchio quadro appeso nella sua stanza rappresenta un’imbarcazione da oceano, sola, nella tempesta che ormai sta calmandosi. L’acqua è ancora mossa ma un raggio di sole apre le nuvole. Sopra, una scritta: “Verso le Americhe”. Avventura, abbandono, fuga, ricerca. Quattro sostantivi che potrebbero benissimo spiegare quel dipinto. Per Fulvio sono tutti validi, ognuno di essi rappresenta un suo desiderio, un suo pensiero. Un ricordo d’infanzia prima, ora “un canale” che lo accompagnerà. Fuga da un pericolo noioso, abbandono della setta, ricerca di una libertà propria, avventurosa.
Il caos. Charlotte corre in giardino ad avvisare Tito, uno sparo, la donna è ferita. Scoppia la paura, tutti scappano, molti cadono, altri si dileguano cercando di salvare quelli che sono in difficoltà. Nel frattempo, all’interno della villa, la famiglia Imbriani è nascosta. Fulvio rimprovera: “Dovevi farlo, Ester, ma non dovevi dirmelo”. Fuori si continua a fuggire.
Charlotte e Fulvio. I caratteri sono diversi, il modo di agire è diverso. Charlotte è ancora un filo che lega Fulvio ai compagni, è una donna che crede ancora profondamente nella causa, che lavora ed opera per essa. Senza paura e senza pudore manifesta i suoi pensieri e sentimenti, non nasconde, non maschera la sua vocazione rivoluzionaria, non si preoccupa di sacrificare alla “felicità universale” tutto ciò che può avere, nemmeno il suo piccolo bimbo. Forse la mia interpretazione sarà azzardata ma Charlotte in parte rappresenta anche la rivoluzione, il sogno che tutti i “fratelli sublimi” inseguono. Salvando Charlotte, Fulvio contribuisce a mantenere vivo il suo legame col passato, con quello che aveva detto a se stesso di aver dimenticato. Il suo gesto quindi non sarà un semplice atto d’amore per una donna, sarà anche la ricerca della salvezza di qualcosa in cui crede ancora.
In casa. Che poco coraggio, Fulvio, quanta vigliaccheria in quella frase ad Ester. Quel “non dovevi dirmelo” deve mettere in pace la tua coscienza e permetterti di dire: “io non lo sapevo, non ho potuto fare nulla”, non sentirti responsabile di tante morti?
La fuga. Fulvio esce dalla villa, Charlotte lo supplica di salvarla e l’uomo, dopo un momento di esitazione, l’aiuta a salire su un calesse. Da dietro una statua sbuca il piccolo Fulvio: quale migliore ostaggio per fuggire indisturbati? Il ragazzino viene caricato, la madre accorre per salvarlo, cerca in tutti i modi di strapparlo al fratello: lo frusta, lo insulta. In sottofondo si sente quella vivace canzone, Dirindindin. Il calesse parte e la sequenza termina con l’immagine della campagna che scorre veloce, il bambino è fatto scendere, il calesse riparte…
Ester. Che trasformazione rispetto a poco prima: la dolce e premurosa sorellina è diventata una furia, si oppone al fratello con grande forza, frustandolo e chiamandolo “traditore”. Non ha più fiducia in lui, non lo ama più. Vede forse ciò che aveva capito il padre molti anni prima. Ha cercato di riaccoglierlo nella famiglia ma ora teme che gliela possa distruggere. Che differenza col marito! Ha un carattere molto più deciso che non l’austriaco, che non sa far altro che mettersi a piangere. La donna è un compendio di vitalità, tenerezza, affetto ed energia. Mi ha colpito un particolare: quella musica popolare, che sempre accompagna Ester, è una carica di vivacità in una tensione che ormai stava diventando pesante, è un ricordo della giovinezza di Fulvio contro l’uomo che era diventato. Le due donne, Charlotte ed Ester, due personaggi decisi e combattivi, rappresentano i due momenti della vita dell’Imbriani, le sue due personalità. Esse si oppongono, si ostacolano, si odiano ma sono fondamentali entrambe, dettano il suo comportamento.
Fulvietto. Il nipotino e il patriota giacobino rappresentano due espressioni di un unico corpo. Già all’arrivo di Fulvio ammalato c’è uno scambio. L’uomo sente tante voci che lo chiamano ma quelle grida non sono rivolte a lui, sono per il nipote, un ometto che si sta dondolando sull’altalena. Ora spostiamoci sull’ultima scena: agguantato dallo zio, in piedi sul calesse con la sua camicia bianca, cerca in un primo momento l’aiuto della madre, poi si zittisce, guarda. Ha due occhi scuri, profondamente tristi, malinconici ma, al tempo stesso, lo sguardo è senza rimpianti, poi volge il volto in avanti. Forse assomiglia allo zio o almeno a ciò che è stato: forse per questo il distacco dalla famiglia non gli sta provocando un grande dolore, probabilmente aspettava da tanto tempo il momento di questo distacco. Forse c’è un fondo di ammirazione e di invidia per questo zio, personaggio diverso e strano. Rimane però deluso, Fulvietto. Lo zio lo ha usato solamente come merce per assicurarsi la salvezza, lo scarica nella campagna, gli lascia una sciarpa. Perché una sciarpa gialla? Per ricordargli che è ancora “d’oro?”. Lasciato solo, il bimbo fa qualche passo in avanti, come a voler continuare il suo viaggio d’avventura, poi si ferma e torna indietro correndo. Quella piccola parte di Fulvio Imbriani ritorna a casa.
Francesca F.
La villa di campagna
La sequenza più simbolica del film, se vogliamo capire le ragioni di Fulvio, è quella dell’arrivo (o ritorno) alla vecchia casa di famiglia e d’infanzia. La casa–catena di un Fulvio giovane, ribelle, pieno di aspettative e di furori, diventa per il Fulvio ormai vecchio e stanco l’unico porto sicuro.
I registi sono bravi a lasciar trasparire i particolari che hanno potuto disgustare il Fulvio giovane e insofferente. Una certa affettatezza nei modi della famiglia, un non tanto lieve velo di ipocrisia…ma la famiglia in cui Fulvio cerca rifugio non è negativa: è calore. Tutti lo accettano, malgrado le scelte che ha fatto. In fondo sono loro ad essere come Fulvio ora vorrebbe essere. Se il messaggio dei registi avesse voluto essere negativo verso la scelta del protagonista, la casa sarebbe sembrata nient’altro che un ricettacolo di vecchi rancori, convinzioni e giudizi. E invece la casa-rifugio è accogliente. Fulvio, anche se con un po’ di rammarico, non può far altro che sentirsi finalmente bene.
A casa. Sì, perché la casa dei “fratelli”, i compagni d’azione, di idee, di passione, altro non è che una piccola, angusta prigione. Dove nessuno è libero di fare le proprie scelte, o di pensare, di rivedere le proprie idee, di auto criticarsi. Niente; il minimo accenno di dubbio è il tradimento più grave, la minima titubanza è darsi per vinti, per sconfitti. Gli amici del gruppo non si rendono conto che la loro opera non era iniziata per assoggettarsi l’uno all’altro, per sopraffarsi; nell’esaltazione tutti diventano dei potenziali nemici. O con me o contro di me. Grottesco. Questo è il modo con il quale i registi dipingono la foga dei rivoluzionari. Che altro non sono che paranoici, illusi, handicappati a volte. Questo vede Fulvio, guardando dalla finestra i suoi compagni: un branco di poveri, ridicoli campagnoli. Armati solo di tracotanza e sogni, fumo da vendere e boria. Il tutto a cadere sotto due fucilate, nemmeno il tempo (e la modestia) di accorgersi che forse anche gli altri hanno cervelli e piani.
Fulvio ha conferma di ciò che ha sperato fino all’ultimo non accadesse: fino al momento del primo sparo spera in cuor suo che finalmente, una buona volta, i compagni usino e cedano alla ragione. Io un po’ mi immedesimo in Fulvio. Solitamente si ha simpatia per i sognatori. Ma sognatori troppo bambini non sono mai buoni combattenti, ed è proprio questo che sembrano questi fratelli: bambini cocciuti, che vanno diritti per una strada senza osservare gli incroci, senza pensare se un altro sentiero non porti più in là della strada maestra. Schiavi di donne che niente provano se non infatuazioni ora per l’uno ora per l’altro, che irrompono nelle vite altrui senza rispetto e senza permesso, schiavi di amici che giudicano e, fin troppo spesso, condannano. Schiavi di convinzioni che restano in piedi da sole, senza che chi combatte per loro sia ancora convinto di una vittoria, o anche soltanto della parte precisa in cui collocarsi. Più che guerrieri, questi rivoluzionari sono fanatici.
Fulvio rimane sempre e comunque un traditore. Ma a cosa deve andare incontro? All’uccisione per mano degli stessi suoi compagni? Da chi è partita la prima accusa infamante, il sospetto gratuito, rabbioso, violento? Non si può che appoggiare il Fulvio cinico e disincantato che tenta di risvegliare i fratelli. E non gli si può rinfacciare la ricerca della propria salvezza. Né lo si può condannare per aver cercato la libertà di decidere.
Il soffio di libertà che i registi hanno voluto infondere nella sequenza del ritorno alla vecchia villa in campagna e che lo spettatore, anche se solo per un attimo, respira a pieni polmoni, è simbolo di come giustizia sia anche lasciar decidere agli altri da che parte stare. E anche conciliare opinioni se troppe ingiustizie, sofferenze e disillusioni lo richiedano. Perché passare da una gabbia all’altra non credo sia mai una rivoluzione.
Ketty B.