“Aminta”. Nell’opera del Tasso si trovano i nostri malinconici sogni.

Nell’Arcadia di Tasso si trovano i nostri sogni malinconici

Una nuova edizione dell’”Aminta” riporta all’attenzione un’opera pastorale piena di grazia e sensibilità. Le sue increspature si comprendono dentro l’autunno del Rinascimento, come dentro la complessità delle nostre singole vite.

 

Ne “La Lettura” del 25 luglio 2021, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 29, è pubblicato l’articolo di Roberto Galaverni che commenta questa edizione di Einaudi. Nella concezione voluttuosa ed edonistica della vita, propria del nostro Rinascimento, nell’”Aminta” si può isolare –in una luce più cruda ed evidente- il motivo della caducità della bellezza e dell’amore, come se questa civiltà italiana estremamente matura e disillusa iniziasse un’amara riflessione su se stessa. Tasso di questo amore sente anche il limite e la precarietà (se non ancora, cristianamente, la colpevolezza; o, come si dice nel dramma pastorale: “Amiam, ché non ha tregua / con gli anni umana vita, e si dilegua”.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

Una nuova edizione dell’”Aminta” di Torquato Tasso mette a disposizione del pubblico italiano una delle opere più perfette e incantevoli della nostra letteratura. Fu composta e messa in scena nel 1573 per Alfonso II d’Este e la sua corte sull’isoletta di Belvedere, presso Ferrara. Subito molto apprezzata dai contemporanei e poi via via, lungo i secoli, da lettori di orientamenti anche molto diversi, questa favola pastorale o boschereccia non gode tuttavia della fama che merita. Lo si può dire senza mezze misure, infatti: per l’unità dell’ispirazione e del tono, per la mutua intrisione di grazia e sensibilità, per la particolare qualità dello spirito che la sostiene dal primo all’ultimo verso, questa pastorale in cinque atti (endecasillabi e settenari, con tanto di personaggi e di coro) costituisce qualcosa di speciale, di magico.

Il giovane pastore Aminta è innamorato della ninfa Silvia, la quale invece, tutta votata a Diana e alla caccia, disdegna impietosamente il suo amore. I più esperti e assennati confidenti dei due giovani, Tirsi e Dafne (nel personaggio di Tirsi, va ricordato, Tasso ha messo in scena se stesso in veste di pastore), tentano di porvi rimedio, provando a far desistere Silvia dal suo orgoglio o a favorire un incontro tra i due. Ma invano. Accade però che un Satiro riesca quasi a fare violenza a Silvia dopo averla legata a un albero. Ed è proprio Aminta a salvarla, anche se poi Silvia, con l’orgoglio consueto ma anche per il pudore della propria nudità, fugge di nuovo nei boschi. A questo punto viene data per morta a causa di uno scontro con i lupi: il che non è vero, ma la triste notizia getta comunque Aminta nella disperazione e lo spinge a togliersi la vita gettandosi da una rupe. L’intrico della vegetazione, in realtà, lo salva, ma intanto Silvia, che alla notizia ha cominciato il proprio ravvedimento, è corsa a cercarlo. E’ appunto tra le sue braccia che Aminta si risveglia: “Egli hor si giace / nel seno accolto de l’amata ninfa,/ quanto spietata già, tant’hor pietosa;/ e le rasciuga da’ begli occhi il pianto / con la sua bocca”.

Fin qui l’azione drammatica della pastorale tassiana, che è quella di una commedia, visto anche il lieto fine, impiantata però sullo schema di una tragedia. Ma diciamo intanto della nuova edizione, che è stata curata per Einaudi da Davide Colussi e Paolo Trovato, a cui si debbono rispettivamente introduzione e commento, e l’approntamento del testo critico con la relativa giustificazione. Si tratta infatti di un testo –come puntualizza Trovato nella chiara e godibile nota che chiude il volume- “alquanto diverso dalla vulgata nella quale lo leggiamo da più di un sessantennio perché ripulito dalle tante incrostazioni (…) dell’edizione su cui tale vulgata è basata”.

Tenendo anche conto della scrupolosità del commento, si può dire insomma che l’Aminta abbia avuto finalmente un’edizione che le rende giustizia.

E proprio la puntualità, ma anche la copiosità del commento, soprattutto per quanto riguarda le corrispondenze intertestuali e la semantica del linguaggio poetico, porta a una prima considerazione. Scorrendo le note, se già talvolta non lo ha suggerito direttamente l’orecchio, il lettore potrà rendersi conto della trama fittissima di riprese, citazioni, allusioni, presente nel testo. Teocrito, Virgilio e Ovidio, Dante e Petrarca, Sannazzaro e Ariosto, i vari poeti della corte ferrarese che già s’erano cimentati nel genere pastorale, e tanto altro.

Questa favola di pastori e ninfe è intrisa di natura e insieme insegue una possibile naturalezza (parola quanto mai equivoca, per altro) del dire e del raccontare. Eppure si tratta di una scrittura poetica estremamente letterata e consapevole, che può assomigliare addirittura a un intarsio di citazioni. Tasso non solo non dissimula, ma ostenta senza alcun timore la propria memoria letteraria e il suo procedere per via d’artificio. Nessuna angoscia dell’influenza, sembrerebbe, da parte sua. E del resto il ‘500 è un secolo in cui la letteratura ha nell’idea d’imitazione un autentico caposaldo.

Tanto più stupefacente risulta allora la capacità del poeta di asservire tutte queste riprese alla regola, che è insieme musicale e di spirito, della sua invenzione poetica. Qualsiasi elemento prelevato dal campionario della tradizione, non importa se di provenienza popolare o letteraria, se di natura lirica o arguta e concettosa, entrando nell’Aminta viene rimodulato e accordato a partire da principi e fini del tutto intrinseci. Segno che non sono le fonti a determinare modo e tono dell’opera, quando invece è l’opera stessa a disporre a proprio piacimento dei materiali volta a volta impiegati.

Quali sono questi principi? Prendiamo ad esempio il caso di Petrarca, che è l’autore forse più presente in questi versi. Come sottolinea Colussi, il lessico amoroso petrarchesco di norma viene riqualificato in senso fisico e corporeo, percettivo e sensibile, da rarefatto e disincarnato che era. E certo basta rifarsi a due episodi fra i più celebrati –Aminta che vede Silvia completamente nuda, dopo che il Satiro l’ha legata all’albero, e ancora Aminta che carpisce i baci di Silvia attraverso l’inganno gentile di una finta puntura d’ape- per comprendere come l’amore che qui si celebra sia una cosa sola con il desiderio sentito nella sua dimensione fisica e carnale (l’area semantica legata all’idea del piacere è forse la più consistente dell’opera). E certo fa specie pensare che Tasso abbia scritto il suo poemetto drammatizzato quando la “Gerusalemme liberata”, il poema dei rovelli e precipizi interiori, dei tormenti, degli esami di coscienza, si trovava ormai a uno stadio molto avanzato di composizione.

Per l’Aminta si è parlato non a caso di sensualità, di spirito pagano, di liberazione sensibile, di spensieratezza. Ed è certo vero. Eppure (forse il miracolo sta proprio qui), anche in questa direzione la pastorale tassiana sembra non voler mai coincidere con un’ideologia compiuta e definita, come se non intendesse farsi prendere con le mani nel sacco. Sì, ci sono varie formule che potrebbero testimoniare di una precisa visione (o vagheggiamento, o ideale) della vita. “La virtù della bocca / che sana ciò che tocca”, ad esempio; oppure il celebre “S’ei piace, ei lice”.

Tuttavia, su tutto prevale la complicità del poeta con il pubblico della corte, il gioco d’empatia e distanziamento degli spettatori chiamati, per così dire, a una partecipazione attiva fatta d’intelligenza, di comprensione, di grazia, di civiltà. Diversamente da quanto accade nella “Gerusalemme liberata”, qui i personaggi non coincidono con la propria lettera, né sono portatori di quell’autenticità senza ritorno che tanto piacque ai lettori di epoca romantica del poema eroico.

L’Arcadia dell’Aminta non rappresenta un modo idealizzato e sottratto al tempo, bensì il simulacro consapevole dei nostri sogni e insieme delle ombre che vi si nascondono. La sua pienezza sensibile e le sue increspature d’oro si comprendono solo dentro all’autunno del Rinascimento, proprio come dentro alla complessità e all’inquietudine delle nostre singole vite.

 

                                                        Roberto Galaverni