La mia voce nel Cortile dei Gentili.
Nei mesi scorsi papa Benedetto XVI parlando di Atrio dei Gentili lo ha definito “un luogo di possibile confronto nel quale ci si ascolti a vicenda e dove anche chi non è cristiano possa dare corso al proprio indagare. Il logos umano, riflesso del Logos divino, accomuna gli uomini, non li divide”. Il pontefice ha ragione. Gesù, infatti, quando scacciò coloro che riducevano l’atrio dei Gentili del Tempio di Gerusalemme a puro luogo di commercio, auspicò che diventasse una casa di preghiera per tutte le genti: “ed insegnava, dicendo loro: Non è egli scritto: la mia casa sarà chiamata casa d’orazione per tutte le genti? Ma voi ne avete fatta una spelonca di ladroni” (Marco, 11, 17). Si era squarciato così il velo di ipocrisia che distingue una sfera religiosa da venerare in templi segregati e una sfera mondana senza Dio, luogo di arbitrio e di sopraffazione, dominato dal male. Penso anch’io che il Cortile dei Gentili sia il luogo ideale nel quale credenti e non credenti possano incontrarsi per cercare di comunicare con lo stesso linguaggio: già lo storico Giuseppe Flavio ne “La guerra giudaica (V, 1-5)” lo descriveva posto in mezzo a due orizzonti contrapposti: da un lato era la romana fortezza Antonia, simbolo del potere terreno, e dall’altro il Sancta Sanctorum del Tempio, simbolo di una realtà trascendente. Per questi motivi anche un non credente come me pensa che sia possibile far sentire la propria piccola voce in questo cortile metaforico, che ospita in questo periodo almeno tre attori minacciosi: la scienza moderna col suo potentissimo corredo tecnologico, il confronto tra le fedi religiose e la storia impazzita di questo inizio del terzo millennio, frammentato e multipolare. Il giornale cattolico Avvenire ha ospitato per più di un mese contributi interessantissimi a questo proposito; ho molto apprezzato questa lodevole iniziativa e ne scrivo anch’io una pagina.
Credere in Dio rende felici? Nella mia infanzia e adolescenza di questo assunto, del Dio che apporta felicità, ero sicurissimo: avevo una fede profonda, il mio dialogo con Gesù era quotidiano, lo sentivo come un amico fraterno e protettivo, ne ricavavo sicurezza e serenità. Mi sento di dire che il nostro era un rapporto diretto, carnale quasi, un parlottare continuo e questo per me era bellissimo: Dio –che si era fatto carne- aiutava, s’arrabbiava, benediceva, consolava; il nostro era un rapporto tra padre e figlio, un gioco, una dialettica, un dolore, una felicità. Credevo che ogni persona religiosa creasse le sue preghiere e parlasse con Gesù. Aumentava così la mia consapevolezza del mondo e del dovere che tutti noi abbiamo di lottare per ciò che è giusto; mi si dimostrava che non dobbiamo accettare il mondo così com’è e che possiamo fare la nostra parte perché diventi come invece dovrebbe essere.
Ero convinto allora che Dio era onnipotente e governava il mondo, che era buono e non voleva il male; non ero sfiorato, nella mia innocenza, dalla consapevolezza che il male, invece, esiste nella realtà e quindi non mi ponevo il problema della composizione logica di questi tre postulati. Se Dio ha potere sui corpi umani costruiti con le sue mani, se Dio vuole il bene fisico di ogni singolo corpo, perché vi sono corpi che nascono irrimediabilmente malformati? Il teologo Vito Mancuso scrive che “lungo la storia si è risposto: o Dio non è realmente onnipotente, o non è realmente buono, o il male in realtà non c’è. Ma il cristiano non rinuncia né all’onnipotenza di Dio né alla sua bontà né alla realtà del male”. Ora io so che il problema del male non cessa di inquietare la coscienza cristiana e che sciogliere questo nodo è difficile, può pretendere anche una rifondazione radicale della fede.
Non credere in Dio rende infelici? Ateo è una parola che non mi piace, perché vuol dire “senza Dio” e io non posso dire di negare l’esistenza di Dio, non avendo le prove per negarla. Piuttosto preferisco definirmi un agnostico, uno che non crede nell’inconoscibile, un essere che non ha la grazia della fede religiosa. E’ un dato di serenità: ho coscienza che gli uomini sono semplicemente animali evoluti con un cervello straordinariamente sviluppato. Ed è anche un dato di umiltà: non siamo scelti, eletti da Dio. Mi adatto all’idea che siamo degli esseri finiti, che non esiste altro che questa nostra impercettibile vita sulla scala dell’universo, e che la nostra morte è biologicamente necessaria, inevitabile: c’è la regola naturale della continua trasformazione della materia, del lasciare spazio a chi viene dopo di noi. Sono malinconicamente convinto che tutto si gioca qui, nell’orizzonte finito della nostra esistenza e, proprio per questo, non sento alcuna spinta a convertire il credente, a fargli perdere la sua fede. Sono contrario a ogni proselitismo, riluttante a ogni fanatismo. Mi confronto con l’esperienza del limite, mi piace la solitudine del silenzio, del pensare, del meditare.
Il lavoro intellettuale come ricerca del vero. Una bellissima nota di Leopardi recita: “Desideri infiniti, visioni altere, pensieri immensi”. Si è scritto che a volte parla di Dio più chi lo nega di chi lo afferma. L’ateo Emil Cioran (ricorda mons. Ravasi) lamentava che nel nostro tempo “il cristianesimo, consumato fino all’osso, ha smesso di essere una fonte di stupore e di scandalo, ha smesso di scatenare vizi e di fecondare intelligenze e amori”. Foscolo e Leopardi, tutti e due atei materialisti, furono indotti dall’ideologia romantica a forzare quel limite razionale che sentivano invalicabile: il primo nel sentimento del sepolcro, il secondo nella concezione della fraterna amicizia umana necessaria per difendersi da una natura dolce e quieta, tiranna e indifferente. E’ un insegnamento ancora attuale che invita a superare gli steccati, a interrogarsi tutti sul fine ultimo e sul senso della vita, ad andare oltre il materiale, a privilegiare l’ordine simbolico e l’idealismo. Paola Mastrocola scrive che “la letteratura è una cosa molto religiosa, che la poesia è la versione laica della preghiera, che bisogna educare ad una religiosità che risulti educazione alla metafisica”; e cita S. Agostino che ricorda che a volte andava da S. Ambrogio per chiedere consiglio e il vescovo non lo riceveva perché stava leggendo: un adulto che legge, che predilige la meditazione all’azione immediata, è questo il migliore incontro con Dio.
Io non considero la religione una visione puerile del mondo e credo che sia possibile il dialogo serio su temi che ora sono cruciali: l’accoglienza dell’altro e del diverso da noi, la portata drammatica della questione educativa, l’invasione della tecnoscienza nella nostra vita quotidiana, la riflessione morale nei comportamenti, nella politica, nell’economia. La società civile deve essere ricca di risorse culturali e ideali, di competenze e di convinzioni, di un atteggiamento di rispetto dell’altro. Tradizione cristiana e pensiero illuminista-laico sono chiamati, nella fatica dell’incontro e del dialogo, a costruire il terreno comune sul quale oggi fondare la convivenza in Italia. Concordo con chi dice che la laicità deve essere soprattutto un metodo. Il laico non è il non credente che rifiuta o peggio che deride il sacro, ma è colui che lo interroga, lo discute, che si pone di fronte al senso del mistero che il sacro porta con sé, chi non assolutizza e non idolatra il proprio punto di vista relativo e la propria ricerca. Ed è laico anche il credente che non è superstizioso, fanatico, arrogante, disponibile alla poco casta strumentalizzazione politica, pronto a utilizzare le truppe spurie e interessate dei cosiddetti “atei devoti”. L’Europa laica, della scienza e delle tecnologie, potrà far risuonare di nuovo il nome di Dio, senza irrisioni e stravolgimenti, senza ostilità perché è un Dio che si prende cura dell’uomo e della sua dignità.
Negli anni Sessanta del secolo scorso io avevo creduto nel Concilio Vaticano II, avevo letto d’una Chiesa cattolica pronta ad essere finalmente compagna di strada dell’uomo, viandante con lui nel cammino della storia, figlia di un Dio che regna dalla croce e non da un trono, testimone di una speranza e non detentrice di una verità assoluta, in ascolto del mondo per trasmettere il messaggio evangelico e per conciliarlo con le risposte del pensiero laico e della razionalità, rispettosa della libertà di coscienza che il Concilio aveva riconosciuto come diritto inalienabile della persona anche nel caso in cui questa libertà andasse contro la verità. Mi avevano colpito più frasi nei documenti conciliari. La prima: “Ignoriamo, non sappiamo”. Mi era sembrato che la Chiesa ammettesse con umiltà la sua sprovvedutezza, avendo molto sbagliato lungo i secoli. La seconda: “Nuova è la strada su cui l’umanità si è messa da poco. Si passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose ad una concezione più dinamica ed evolutiva. Ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove”. Si desume da questo scritto della Costituzione pastorale del Concilio che si indagava in modo nuovo la condizione umana: essa non era più percepita come uno status ma invece come un divenire. La Chiesa perciò non doveva arretrare davanti ai cambiamenti, fosse pure un cambiamento che toccasse il modo di pregare, il modo di credere e la stessa invariabilità del magistero romano. Scrive Raniero La Valle: “Popolo di Dio non è un modo più democratico per dire la Chiesa. Questo popolo, che sta nella Chiesa visibile ma non finisce in essa, che sta in tutti i luoghi e in tutti i punti della storia, è il popolo che Israele credeva di essere, e che in Cristo invece si è rivelato essere l’umanità tutta. La Chiesa serve all’umanità in quanto perpetua nel tempo la presenza di Gesù crocifisso e risorto, senza però sostituirsi al mondo, bensì riconoscendosi come una parte di questo stesso mondo, come un modo di stare al mondo. Come dice il decreto conciliare “Ad Gentes”, Dio vuole “che tutto il genere umano costituisca un solo popolo di Dio, si riunisca nell’unico corpo di Cristo, sia edificato in un solo tempio dello Spirito Santo, fino a giungere a quei regni -come annota S. Agostino- dove nessuno dice: Padre mio, ma tutti all’unico Dio: Padre nostro”. Invece, cogli anni, il terrore di certe derive del Sessantotto, le ossessioni dottrinarie e centralistiche della Curia romana, i rischi di sfrangiamento dei fedeli hanno portato alla restaurazione. Il Concilio non è stato applicato, è stato invece devitalizzato, ingabbiato, spolpato; la Chiesa cattolica romana ha deciso di non poter rinunziare alla definizione centralizzata della verità.
Necessità di un riconoscimento reciproco. La relazione tra Dio e l’uomo è contrassegnata da un lungo cammino, pieno di dolorose contraddizioni; ora, però, ci si deve orientare ad assumere un atteggiamento dignitoso e coraggioso di fronte alle problematiche spesso incomprensibili che la vita presenta di continuo. Credenti e non credenti hanno bisogno gli uni degli altri: è una sfida difficile ma non proibitiva perché la spiritualità tocca la persona in profondità, nel suo mistero, e non si riduce alla sfera morale e alla sessualità. Da più parti si sostiene che proprio la religione sia il fondamento delle nazioni democratiche e che è la religione a tenere uniti popoli che altrimenti potrebbero fatalmente separarsi in conseguenza delle loro differenze economico-sociali e delle loro divisioni politiche. Ma proprio su questo ho letto tempo fa una suggestiva riflessione di Enzo Bianchi. Il teologo sosteneva che la concezione cristiana della politica è anomala, potenzialmente eversiva, in quanto il messaggio evangelico pretende di avere principi irrinunciabili come il perdono, l’amore del nemico, la difesa della vita e degli ultimi, la politica di pace, principi che si oppongono a ogni “necessitas” di potere umano. Questa autocoscienza evangelica tuttavia non può pretendere di imporre alla società il proprio punto di vista etico e nemmeno evadere dai principi democratici condivisi. Questo significa che il rapporto tra cristianesimo e politica non può mai essere risolto una volta per tutte. Da questa angolazione mi piace interpretare le recenti e impegnative affermazioni fatte dal card. Bagnasco, a nome dei vescovi italiani, sull’innamoramento dell’intera comunità cattolica per l’unità nazionale, in occasione del 150° anniversario della creazione dello Stato unitario.
Gianfranco Ravasi, ora neo-cardinale, afferma con intelligenza che “la visione dell’Imago Dei propria della rivelazione biblica ha dato vita ad una cultura dei diritti dell’uomo; fuori di questo orizzonte, come si imposta l’universalità dei diritti umani? Il dialogo, che richiede il mantenimento delle reciproche identità, presuppone un confronto di argomentazioni rigorose senza sincretismi o concordismi vaghi.” Però Marc Bloch diceva che il dialogo non è tale se i due soggetti che discutono restano identici. Il credente sia portatore non di affermazioni dogmatiche ma di testimonianza, il non credente non si rinchiuda in un ateismo ironico-sarcastico ma tenti di spiegare la realtà alternativa a quella della fede religiosa con una visione seria e coraggiosa, ad esempio, nel considerare l’uomo solo nell’universo.
Tra il credere senza discutere delle fedi e il mettere sempre tutto in discussione della scienza può esserci una mediazione? Nella Bibbia ci sono tesi contrastanti. Da una parte si legge che Qoelet a proposito degli uomini scrive “che essi di per sé sono bestie, infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti (3, 18-19)”. Replica il Siracide che invece “Dio li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. In ogni vivente infuse il timore dell’uomo affinché dominasse sulle bestie e sugli uccelli (17, 3-4)”. Per un libro biblico non c’è nessuna legge della vita (nessuna bioetica), per un altro invece sì. Ora è lecito chiedersi: se persino la parola di Dio contiene la contraddizione, come può l’attuale bioetica della Chiesa cattolica proporsi come qualcosa di razionale e di universale? Un testo esigente non ti chiede di ascoltare e di obbedire ma di ascoltare e interpretare: e interpretare significa anche trasformare.
Anche Darwin scrisse nel 1870: “Non posso guardare all’universo come il risultato di un cieco caso. Tuttavia non posso vedere nessuna prova di un disegno benevolo”. Se la vita si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione mediante l’esercizio della libertà è il modo migliore di rispettare la vita. Anche da un punto di vista storico e filosofico la democrazia è plurale, non singolare e tantomeno unilaterale.
Gennaro Cucciniello