Andiamo a lezione da Enea, l’anti-eroe
A differenza dei guerrieri omerici, il personaggio di Virgilio “fa sempre quello che non vuole” dice Guido Paduano, filologo. Spiegando perché, mode a parte, resta attuale.
Guido Paduano è un filologo classico di valore eccezionale. Normalista, docente a Siena e a Pisa, i suoi lavori rivelano un’ampiezza di interessi sconcertante, mentre le sue traduzioni di classici greci e latini affollano librerie e biblioteche. Un suo libro sulla figura dell’eroe (“La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale”, Bur, pp. 205, euro 10) è decisivo per seguire il ribaltamento dei ruoli da Omero a Virgilio, mentre la sua edizione completa delle opere di Virgilio –apparsa quattro anni fa- è il riferimento obbligato per chiunque in questi tempi voglia fare i conti con l’Eneide, il poema celeberrimo composto nell’arco del terzo decennio prima di Cristo per raccontare la nascita di Roma, glorificando Augusto. Nessuno come Paduano, dunque, può spiegare l’improvviso interesse nato in questi mesi attorno alla figura di Enea e divenuto manifesto con la pubblicazione quasi contemporanea di “Enea, lo straniero. Le origini di Roma” di Giulio Guidorizzi (Einaudi) e di La lezione di Enea” di Andrea Marcolongo (Laterza).
“Non ho letto i due libri, non posso essere d’aiuto”. Paduano è famoso per lo spirito bonario e caustico. Chi lo conosce anche poco sa che si apre in conversazioni che spaziano fra secoli, libri, storie tratte da ogni livello culturale senza alcuno snobismo e senza mai perdere il gusto per la battuta improvvisa, il giudizio tagliente e, soprattutto –dote rarissima fra quelli del suo stampo-, l’autoironia.
Un’idea generale però deve essersela fatta, professore. Intendo del fenomeno Enea, del ritorno di interesse.
Mah, guardi, mi pare che abbia successo tutto ciò che ha a che fare con il problema dell’immigrazione, in un senso o nell’altro. In generale, dunque –e ripeto che non ho letto questi libri- credo che prevalga un mero interesse sociopolitico, al di fuori della dimensione propria, che è quella letteraria. Si tratta di argomenti di moda.
Ma lei crede che la figura di Enea sia attuale, a prescindere dalle mode?
Certamente. Sa, Thomas Stearns Eliot sosteneva che Enea rappresenta l’eroe più classico per la sua obbedienza ai fata. Da gran bacchettone qual era, Eliot la individuava nell’adesione ai principi etico-religiosi. In realtà le cose stanno diversamente. Enea è un antieroe. Un uomo che non impone la sua fortissima volontà come l’eroe omerico, ma piuttosto fa sempre ciò che non vuole.
Sempre e solo ciò che non vuole?
Pensi al momento in cui si congeda da Didone. In mezzo verso c’è tutta la sua personalità: “Italiam non sponte sequor. Non è di mia volontà che cerco l’Italia”. La volontà di Enea dov’è? Nel momento in cui Troia brucia, Enea con riluttanza è costretto a salvarsi, ma sembra proprio che preferirebbe la morte. E’ costretto a vivere. Basta che il padre tentenni e lui si ferma. Basta che sua moglie Creusa si perda che lui s’immerge di nuovo nella distruzione e nella morte. Enea fa ogni cosa contro volontà. Fa la guerra in Italia ma non vorrebbe. Uccide Turno e preferirebbe non farlo. Eppure non è una marionetta. E’ semplicemente uno che con tristezza si adatta a un volere più alto.
Ossia, l’essere umano dei nostri anni?
Su questo non posso dire, ma certo ci si identifica facilmente. Soprattutto se pensiamo che appunto i fata non sono ciò che vuole Dio, non è la metafisica della Storia che sognava Eliot, bensì il potere imperiale di Augusto. I fata sono semplicemente i programmi di Augusto celebrati da Virgilio.
Enea è sottomesso a un potere assoluto dunque.
Enea non sa nulla e non capisce nulla e gli va bene così. Quando Vulcano gli fa pervenire l’armatura, lui si trova ad ammirare tutte le glorie della Repubblica Romana. E’ una scena che Virgilio, come spesso accade, confeziona ispirandosi a Omero, allo scudo di Achille. Bene: Enea, nonostante del futuro di Roma qualcosa abbia saputo da Anchise, non capisce. E’ interessantissimo perché in quel momento, ignaro di tutto, Enea si limita a godere dell’aspetto estetico. E in ciò rivela la sua natura e forse la natura degli esseri umani dei nostri tempi. Quel che l’uomo può recepire è l’estetica.
Questo siamo noi insomma?
Be’, Durrenmatt diceva: la nostra è l’epoca in cui è finita la responsabilizzazione dell’uomo. E in effetti il formalismo è ampiamente imperante.
Da Durrenmatt però di anni ne sono passati.
Non mi pare che nel XXI° secolo ci sia nulla di paragonabile al cataclisma del Novecento. Forse i nostri tempi sono semplicemente peggiori. Guerre mondiali e Shoah avevano formato un’autentica ripugnanza nei confronti della guerra. Il mito dell’Iliade era andato in malora. Non ne sono più tanto convinto adesso. Forme arcaiche di ostilità sono evidenti in molte parti del pianeta.
E il nostro Enea con questo cambiamento cosa ha a che fare?
Nulla. In fondo se esiste una volontà di Enea nel poema è solo quella di immolarsi a una sorta di devozione funeraria per il mito di Troia. Basti pensare alla piccola città di Butroto (oggi Butrinto, Albania) dove alcuni profughi troiani partiti prima di Enea hanno creato una specie di sacrario della città perduta. Dunque realizzando una città morta che vive di rievocazioni cerimoniali.
Ma i profughi hanno sempre cercato di ricreare città perdute.
Certo. Tuttavia i profughi dell’Eneide non hanno niente a che fare con i migranti attuali. Questi non percorrono rotte prefissate da un disegno superiore e se sbagliano strada non ci sono gli dèi a rimetterli a posto.
Quindi in quel senso non possiamo imparare nulla dagli antichi.
Ma sì invece. Adesso però stiamo parlando di Enea e dell’Eneide. Giunone, che ha in odio Enea, definisce quella migrazione come un’invasione. Si tratta di una posizione razzista, estremistica? Forse. Ma è un punto di vista presente nel poema. A me non importa nulla di ciò che potrebbe sostenere Salvini. Tanto Salvini approfitta di ogni cosa a modo suo. E non avrebbe senso ragionare.
Per questo si è dedicato alla narrativa ultimamente? Sta per uscire un suo romanzo per Pacini editore: “Il medico non curante”.
Ma guardi, quello è un romanzo filosofico nelle vesti di un giallo. Se volessi prendermi in giro, le direi che vendono solo i gialli ormai. Ma sbaglierei. In realtà, a quanto pare, con i tempi che corrono vende anche una certa filosofia.
Matteo Nucci
Questo articolo, scritto da Matteo Nucci, è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 30 ottobre 2020, alle pp. 108-109.