Ansie, compromessi e burle nelle lettere di Machiavelli
Francesco Bausi ha coordinato la pubblicazione dell’epistolario
La stima nei confronti di Machiavelli, in vita, era dovuta anche al suo talento epistolare, al punto che un corrispondente gli scrisse di desiderare tanto le sue lettere considerandole in luogo di oraculi. Diversamente da tanti letterati precedenti e successivi che vollero edificare da vivi la propria statua a futura memoria, l’autore del Principe non si preoccupò mai di sistemare le sue carte, né quelle relative alle opere maggiori né, tantomeno, quelle private. Dunque, mentre buona parte delle lettere in risposta rimasero nel suo archivio, quelle scritte di suo pugno, non conservate in copia, hanno subìto un destino di dispersione tale da far impazzire storici e filologi di buona volontà e spesso di grande ingegno.
C’è chi ha definito quella dispersione “uno dei più disgraziati naufragi archivistici di cui si ha notizia”: ed è vero, visto che le epistole autografe sopravvissute sono ad oggi solo 37. Quasi mezzo secolo dopo la sua morte, toccò ai nipoti di Machiavelli, Giuliano de’ Ricci (figlio della figlia Baccia) e Niccolò junior (figlio del primogenito Bartolomeo), preoccuparsi di raccogliere i materiali perduti del nonno: il risultato è un codice oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze e ritenuto fondamentale per chiunque voglia dedicarsi allo studio delle sue opere.
Si tratta del cosiddetto Apografo Ricci, che contiene la trascrizione di testi e documenti inediti machiavelliani altrimenti destinati a rimanere ignoti. Tra questi, le lettere ufficiali e private. Soprattutto queste ultime, che si affollano nella seconda fase della vita di Machiavelli, a partire dal 1512, anno di svolta in cui il Segretario della Seconda Cancelleria fiorentina, dopo un quindicennio quasi, fu licenziato da Palazzo Vecchio in seguito al ribaltone politico che vide la caduta della Repubblica con la fuga di Pier Soderini e il ritorno dei Medici in città.
Ora che arrivano le “Lettere” nell’Edizione Nazionale delle “Opere” di Machiavelli, pubblicate da Salerno Editrice sotto la direzione di Francesco Bausi, disponiamo finalmente di una raccolta quanto più completa, organica, affidabile sul piano filologico e accuratamente commentata, visto che ciascuna delle 354 lettere complessive, tra le 82 machiavelliane e quelle dei corrispondenti, è preceduta da un cappello che illustra la storia, il contesto, i contenuti del documento, corredato altresì da puntuali e ricche note esplicative. Senza dimenticare che i tre tomi si chiudono con un’analisi linguistica. E’ però l’Introduzione di Bausi a metterci sulla giusta via per affrontare quest’opera colossale e complessa di 2mila pagine.
Si individua intanto una prima fase, risalente agli albori della carriera cancelleresca di Machiavelli, a partire da un frammento in latino del 1497, dove si trattano questioni familiari, per proseguire con documenti più strettamente politici, come quello che il 9 marzo 1498 racconta il contenuto di due prediche tenute da Savonarola in San Marco con giudizi perplessi sull’audacia o sulla sfacciataggine con cui il frate domenicano pronunciava le sue minacce terribili: convincenti solo, commenta Machiavelli, per chi non le considerasse con attenzione. Procedendo, nel momento di massima centralità del Segretario nella cancelleria, si può gustare il repertorio cameratesco tra il comico e l’osceno, con il racconto di beffe e di scherzi da osteria in un contesto professionale: si veda per esempio la lettera inviata al nostro il 18 ottobre 1502 da colleghi in vena di ammiccamenti e doppi sensi sessuali. A un incipit alquanto esplicito (“Cazzo, Niccolò mio…”) fa seguito una ricca serie di aneddoti su certi approcci ravvicinati con madonna Lessandra e con madonna Gostanza, incontri favoriti da ricette pre-Viagra, capaci di accrescere la gagliardia erotica, con tanto di metafore belliche, archi e frecce e rimpennamenti. Il commento ci illustra puntualmente le gergalità oscene e goliardiche, come quel cazzovi’nculo che vale andate a farvi fottere. Due mesi dopo è sempre Biagio a riferire la vicenda di un cancelliere che, sospettando non suo il figlio di cui la moglie è incinta, si affida al giudizio dei frati di San Felice lasciando che l’abate, per dirimere la questione, palpi il ventre della donna. Esercizi stilistici che torneranno utili al Machiavelli comico futuro (in particolare all’autore della Mandragola), queste prove burlesche e triviali in contesto diplomatico non piacquero, in passato, a tanti editori timorati che optarono per tagli e censure.
Il punto primario su cui il curatore insiste è il contributo delle lettere nel contrastare “la violenza (infinita) delle convinzioni acquisite” a cui accennò un grande studioso, Mario Martelli, a proposito della vita pubblica e dell’opera di Machiavelli. Il riferimento è all’immagine romantica di un uomo ridotto all’esilio e alla miseria dalla propria onestà e dall’irriducibilità al compromesso nel nome dei suoi alti ideali. Al ritratto edificante che disegnò il mito del combattente contro l’arroganza dei Medici, rimasto tenacemente fedele alla causa repubblicana scegliendo una sdegnosa solitudine dopo il licenziamento, il carteggio familiare oppone una prospettiva perlomeno più sfumata, resa libera da alcuni pregiudizi inveterati, a cominciare dalla lettura tutta virata in chiave teorico-filosofica e come depurata degli aspetti più umani.
Fan dal Cinquecento, osserva Bausi, due elementi non tornavano: da una parte la spregiudicatezza dei comportamenti, dei giudizi e del linguaggio che trasparivano dalle lettere e contrastavano con il ritratto-cliché di superiorità religioso-morale; dall’altra l’aspetto politico per l’insistenza con cui Machiavelli, dal 1513, esprimeva il desiderio di accedere al cospetto dei Medici mettendo in atto tutte le possibili manovre pur di ottenere il suo obiettivo. Altro che ferma ostilità ai tiranni, altro che estrema fedeltà ai propri princìpi. Dopo l’uscita di prigione (13 marzo 1513), a rivelare i risvolti finora tenuti in ombra, sono le lettere indirizzate a Francesco Vettori, ambasciatore presso la corte pontificia, al quale l’amico Niccolò chiede di intercedere affinché Leone X gli procuri un impiego al servizio suo o dei Medici.
La celebre missiva del 10 dicembre 1513 al Vettori ha creato parecchi imbarazzi agli agiografi, tanto da essere esclusa per lungo tempo dalle edizioni epistolari: è una lettera scomoda, che non lascia alcun dubbio sulla disponibilità del Machiavelli a essere adoperato dai Medici anche per incarichi molto umili, fino ad accettare di voltolare un sasso come Sisifo pur di entrare alle dipendenze dei signori fiorentini. E’ un punto di vista che smentisce, tra l’altro, le tradizionali letture oblique del “Principe”: che tendevano a interpretare la dedica a Giuliano come una sorta di trappola tesa ai Medici per spingerli alla rovina; quelle che intravedevano nel trattato un escamotage per svelare ai popoli il carattere violento del potere assoluto e offrire loro gli strumenti per reagire; quelle che puntavano sulla natura esclusivamente teorica del libro. Spesso un po’ tutte queste insieme, miscelate tra loro in vario modo.
Esce insomma dalle lettere un Machiavelli normalizzato, per non dire umanizzato. Bausi sottolinea come le missive private, per la loro sincerità, possiedano un’attendibilità superiore alle epistole ufficiali e dunque, lette spassionatamente, possano gettare un po’ di luce su aspetti controversi della vita e della cultura del nostro autore. Per esempio, si troverà alquanto deluso colui il quale si ostina a cercare l’umanista, classicista e filologo, in relazione di intimità con le lingue e le letterature antiche; se è vero che in tutto il carteggio le citazioni classiche si riducono a sparuti passi ovidiani e virgiliani, mentre si affollano i riferimenti a Dante, Petrarca, Boccaccio, Burchiello, Pulci, Poliziano, oltre che all’Orlando furioso citato quand’era appena un vient-de-paraitre già molto apprezzato. Ugualmente deluso si ritroverà colui il quale pretenda si scorgere in Machiavelli un frequentatore accanito dei filosofi antichi e moderni.
Nella seconda fase epistolare, che arriva al 1525 (non ci sono lettere dei due anni che precedono la morte), compare il nipote Giovanni Vernacci, di fronte al quale troviamo il Machiavelli più franco e immediato, privo di coperture (letterarie, sociali, psicologiche), tuttavia regolarmente teso a esprimere, pur senza accenti bacchettoni, uno spirito religioso che smentisce l’idea di un moderno più o meno velatamente anticristiano. Ma sono due le figure che svettano: quella di Vettori e quella di Francesco Guicciardini. La penna e la vena del primo “spingono Machiavelli a confezionare pagine tra le più alte della sua prosa d’arte”. Ne emergono trasfigurazioni letterarie, per esempio nella citata lettera del dicembre 1513, la più artisticamente elaborata, dove Machiavelli veste l’abito dell’Ovidio ingiustamente condannato all’esilio, non più circondato da cardinali e ambasciatori, ma sprofondato in una rustica dimora alle prese con l’uccellagione dei tordi, in compagnia di taglialegna, beccai, mugnai, ingaglioffito in osteria a giocare a cricca, a tricche-tracche, tra contese e dispetti. C’è poi lo scrittoio, dove l’ex segretario annuncia all’amico di aver composto un opuscolo De principatibus. Secondo bausi, è proprio il lungo scambio con Vettori a configurarsi quale autentico laboratorio di metodi analitici e di riflessioni che verranno sviluppate nelle opere maggiori.
Se il rapporto con Vettori fu sempre a distanza, con Guicciardini gli incontri furono diversi, sia in piacevoli occasioni di svago sia per ragioni di collaborazione professionale: ma la confidenza con il sussiegoso luogotenente pontificio, che nel carteggio giganteggia dal 1521, pur toccando qua e là spunti ludici, non arriva mai a invadere i territori dell’equivoco di stampo erotico. Più che intendersi nello scherzo o nel racconto delle rispettive quotidianità, Francesco e Niccolò si ritrovano nella comune visione pessimistica del destino dell’Italia e nei sentimenti di sfiducia sulla storia e sulla natura umana.
Su un’altra figura Bausi richiama la nostra attenzione, ed è quella del capitano della flotta pontificia Paolo Vettori, più dinamico del fratello maggiore Francesco e dunque più capace di soddisfare le richieste di aiuto dell’ex segretario caduto in disgrazia: ne è testimone un dossier (risalente al giugno 1516) che contiene le direttive di Paolo sulla lotta contro i corsari berberi e turchi che infestavano allora le coste tirreniche. Machiavelli era stato ingaggiato informalmente come factotum in ambito di logistica marinaresca. Un’iniziativa forse poco gradita alla Curia romana ma che preludeva alla reintegrazione nella corte medicea a partire dal 1520, sia pure per incarichi di rilievo minore. Non era proprio voltolare un sasso, ma quasi. Machiavelli da tempo aveva sperimentato quanto l’uomo saggio debba saper alternare lo scrittoio con l’osteria, saper attraversare anche le sfere infime e vili senza perdere dignità. E se il tragico e il comico, il sublime e l’osceno si mescolano nella vita, ciò deve valere anche per la scrittura: e questo modo di procedere nelle lettere, tra toni gravi e accenti leggeri e persino lascivi, “se a qualcuno pare sie vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; e chi imita quella non può essere ripreso”.
Paolo Di Stefano
Questo articolo è del 10 luglio 2022, pubblicato ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera.