Antonio Fogazzaro. Così antico, così moderno.
Nel “Robinson di Repubblica” del 22 gennaio 2022 è pubblicato, a pag. 21, questo articolo di analisi di Filippo La Porta.
Perché leggere oggi Piccolo mondo antico” di Antonio Fogazzaro, romanzo patriottico, elegia bozzettistica e calligrafica, idolo della languida borghesia postunitaria (che si commuoveva con Puccini e andava dove la portava il cuore)? Provo ad elencare almeno tre o quattro ragioni di fondo.
Anzitutto si confronta con il tratto distintivo della identità italiana, il cattolicesimo (l’autore è un cattolico moderato ma aperto alla contemporaneità e al darwinismo). Un romanzo di idee –oltre che di paesaggi- come tutti gli altri di Fogazzaro, dal più decadente “Malombra” al “politico” “Daniele Cortis” e all’ultimo, “Leila”, che auspica una riforma religiosa. Può darsi che fosse un “letterato di periferia” ma rispetto al cosmopolita e parvenu della cultura D’Annunzio la sua provincia ci appare meno libresca. Assomiglia a quei formaggi alpini di cui parla il poeta Auden: prodotti localmente e proprio perciò apprezzati universalmente. Poi l’incanto della sua prosa: distesa, impressionistica (una linea contemplativa veneta), liricheggiante, a tratti ripetitiva, ma con un dominio assoluto, “manzoniano” –cui oggi non siamo avvezzi- sull’ampio periodare (Fogazzaro scrive sulla scia di Manzoni, benché nei “Promessi sposi” non troviamo atmosfere torbide da scapigliatura). Aggiungo che attraverso la lettura il nostro lessico potrebbe arricchirsi di vocaboli appena desueti e di accostamenti insoliti: “sperticatamente alto, pancia gloriosa, obliqua malevolenza”… Infine per la nota di umorismo –quasi commedia goldoniana- che attraversa anche le pagine più tragiche, con gustosi miniritratti, come quello del piccolo commissario (“aveva i capelli piantati così basso sulla fronte ch’era solito raderne una lista, restandogliene spesso un’ombra, quasi di bestialità”) o della perfida nonna reazionaria, una gelida marchesa degna di Crudelia De Mon.
Protagonisti del romanzo, che inaugura una trilogia –dopo usciranno Piccolo mondo nuovo e Il santo– sono Franco e Luisa, i loro sentimenti e i loro conflitti descritti con un acume psicologico che avvicina l’autore alla grande letteratura europea di fine secolo (nel 1906 venne candidato al Nobel, che mancò per il suo silenzio di fronte alla censura della Chiesa). Franco, di famiglia nobile, impetuoso e patriota, ma infantile e velleitario, cattolico dotato di una fede candida e piena ma senza conseguenze sulla sua vita. Luisa, di estrazione sociale bassa, orgogliosa e animata da una ragione altera, pacata e fredda, diffidente verso i velleitarismi del marito, e soprattutto a favore di un cattolicesimo pratico, fatto di atti concreti, ispirato solo dal senso della giustizia, senza il soprannaturale e senza speranza di premi futuri. Una figura che per la sua autonomia e libertà vissuta fino al rischio della pazzia si potrebbe accostare alla Tristana del romanzo di Perez Galdos o perfino alla Nora della ibseniana Casa di bambola (opere coeve). Limitiamoci a un solo prelievo: uno scambio tra i due, in cui Luisa “gli suggeriva delle idee senza averne l’aria, facendogli credere che venivan da lui, perché alla paternità delle idee Franco ci teneva molto”.
Il cattolicesimo dell’autore oscilla tra fedeltà alla tradizione e apertura al nuovo, tanto che l’adesione al modernismo gli costò scomuniche e condanne della Chiesa. Ora, nel nostro paese il cattolicesimo non ha prodotto una tradizione di scrittori davvero radicale, paragonabile a quella francese (i Peguy e Bernanos), benché una qualche sensibilità cattolica si possa ritrovare nell’atteggiamento di autori diversissimi tra loro, dal manzonismo erudito di Bacchelli alla acuminata fenomenologia del peccato in Piovene e Soldati, dagli esiti inquieti di Coccioli e Testori fino alla ruvida interrogazione del contemporaneo Doninelli. Forse è abusivo parlare di scrittori cattolici, eppure si potrebbe sottolineare un aspetto decisivo di quella sensibilità: un realismo consapevole della ambiguità irriducibile della vita morale. Vediamo come viene declinato in “Piccolo mondo antico”.
Lo zio ingegnere di Luisa, libero pensatore, esorta Franco a evitare infingimenti e a rivelare le “cose chiare e tonde” –cioè la notizia dell’imminente matrimonio- alla nonna filo-austriaca, anche se lo avrebbe disapprovato e diseredato, essendo Luisa di origine umile. Ma dissente da lui sua sorella Teresa (madre di Luisa) che “insieme a uno squisito sentimento della vita come dovrebbe essere, possedeva un senso acuto della vita com’è realmente”. Qui Fogazzaro ci consegna una verità antropologica che ci riguarda da vicino. Questo realistico senso della vita com’è –accorto e flessibile- contrapposto agli astratti furori di Franco rivela il suo limite morale e la sua forza attrattiva. Limite perché spinge a continui aggiustamenti con la coscienza in nome del male minore e della opacità delle cose, ma anche Forza perché rispetto a qualsiasi utopismo aderisce alle pieghe irregolari di quel legno storto che è l’umanità. Fortunatamente il sentimentalismo estenuato dell’autore, un attimo prima di scivolare in un morbido Kitsch lacustre – dove la luna scende rigando il lago di una lunga striscia dorata- trova sempre un prezioso antidoto nell’ironia, nella notazione divertita di costume.
Ma soprattutto nella sue pagine più alte Fogazzaro ci mostra una visione del mondo che va oltre qualsiasi consolazione, storicistica o religiosa. Nelle ville signorili che si sporgono sul lago sono caduti anche alberi secolari, i vecchi faggi e gelsi, insieme alle generazioni che li veneravano, “tante figure umane piene di rancori che si credevano eterni, di arguzie che parevano inesauribili, fedeli ad abitudini di cui si sarebbe detto che solo un cataclisma universale potesse interromperle”. In questa malinconica, disincantata epica dell’esistenza il piccolo mondo antico si svela anche come il nostro mondo, e Fogazzaro annuncia quel Novecento in cui il cataclisma avviene ogni giorno.
Filippo La Porta