Apoteosi , rovina e morte di Robespierre
Un saggio ricostruisce le ultime 24 ore del rivoluzionario. Leader enigmatico su cui ancora si accapigliano gli storici divisi su tutto.
L’articolo di Marco Cicala è pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 10 marzo 2023, alle pp. 88-91.
Una fasciatura gli avvolgeva la mascella frantumata da un colpo di pistola. Sul volto sfigurato il sangue rappreso saldava la benda alla ferita in una scorza. E quando il boia Sanson strappò via tutto, Maximilien Robespierre lanciò un urlo animalesco, lacerante che raggelò la folla eccitata. Solo l’abbattersi della lama della ghigliottina mise fine ai lamenti. Su Place de la Concorde –in quei giorni Place de la Révolution- scendeva la famosa sera del 10 termidoro, 28 luglio 1794. Prima di Robespierre, 36 anni, era toccato ai suoi fedelissimi, alcuni dei quali conciati giusto un po’ meno peggio di lui. Il fratello Augustin aveva le gambe spezzate dopo aver tentato il suicidio lanciandosi da una finestra dell’Hotel de Ville. Francois Hanriot si ritrovava un occhio divelto da una baionettata. Quanto a Georges Couthon, era paraplegico dall’infanzia e aveva attraversato l’intera Rivoluzione spostandosi su una sedia a rotelle. Durante il tumulto all’Hotel de Ville, provando a fuggire o perché spinto da qualcuno, era ruzzolato giù da uno scalone con tutta la carrozzella e l’avevano raccolto più morto che vivo. Stavano per buttarlo nella Senna e tanti saluti, ma poi decisero che meritava la stessa fine degli altri. Il giacobino paralitico fu issato sul patibolo in barella, poi trasferito su una tavola. Ma aveva le gambe talmente contorte che non ci fu modo di allungarlo a pancia sotto. Venne decapitato steso di fianco.
Nel cerchio magico dei robespierristi Saint-Just fu l’unico a lasciarsi arrestare senza un gesto né una parola. Magari non si sarà presentato all’appuntamento in gilet e cravatta, come pretende una leggenda dandistica, ma affrontò la ghigliottina sigillato in una flemma stoica. “Alle 22 esecuzioni di quel 28 luglio ne seguirono 71 il 29 e 12 il 30. Tenendo conto di altre esecuzioni avvenute in ritardo, in tutto furono eseguite 108 sentenze capitali” riferisce lo storico Colin Jones in “La caduta di Robespierre” (Neri Pozza). E’ il racconto polifonico delle 24 ore fatali che cambiarono il corso della Grande Révolution. L’autore esordisce con una citazione dello scrittore Louis-Sébastien Mercier (1740-1814): “Osservate da vicino, le cose appaiono ben diverse da come le si giudica da lontano. Le crisi rivoluzionarie si compongono di episodi infinitamente piccoli che costituiscono la base d’appoggio di tutti gli avvenimenti”. Mercier sapeva di che cosa parlava: sebbene in posizione collaterale, aveva preso parte alla Rivoluzione da giacobino moderato rischiando di rimetterci il collo. Le sue considerazioni sono preziose. Colin Jones, professore alla Queen Mary University di Londra, se ne ispira per addentrarsi nell’infinitamente piccolo di una Parigi in fibrillazione, percorrendone come un reporter le strade, gli uffici, i tribunali, le prigioni, i mercati, gli alloggi; spulciandone i pubblici documenti e le scritture private (lettere, diari).
Tempi convulsi.
Una sola giornata, si potrebbe eccepire, è spioncino troppo angusto per restituire appieno l’entità di quel cataclisma che fu la caduta di Robespierre. Forse. E’ pur vero però che nelle rapide dei momenti emergenziali il tempo subisce brusche contrazioni, e nello spazio di poche ore possono giocarsi più svolte, decisioni, destini che in una settimana o in un mese. D’altronde, specialmente nel primo quinquennio (1789-1794), il processo rivoluzionario fu un eccezionale affastellarsi di eventi sismici compressi in un arco temporale tutto sommato ristretto. La stessa parabola di Robespierre si consuma a passo di carica. Frutto di un’abile ascesa e di una popolarità dilagante, la sua vera leadership durerà appena un anno: dal 27 luglio 1793, quando l’Incorruttibile entra a far parte del Comitato di salute pubblica, l’onnipotente esecutivo della neonata Repubblica, al 27 luglio 1794, quando viene dichiarato fuorilegge e liquidato assieme alla sua garde rapprochée. Una traiettoria balenante che ha contribuito non poco a rendere Robespierre –il rivoluzionario, il politico, l’uomo- uno straordinario geroglifico.
Di lui ci restano 11 volumi di discorsi, ma elementi privati scarsissimi, apocrifi quando non manipolati. Riaggiustati tanto dagli odiatori, che nella posterità avrebbero confezionato la leggenda nera del mostro, la tigre, il vampiro, l’epitome del Terrore, quanto dai tifosi, che a lungo ne fecero un santino repubblicano e/o populista. Benché gli siano state dedicate 1200 monografie, l’enigmatico Maximilien rimane la disperazione dei biografi. “Robespierristi, anti-robespierristi, fateci la grazia: diteci semplicemente chi fu Robespierre”, implorava, intorno al 1940, il grande storico Marc Bloch. Quell’invocazione venata di ironia non ha ancora trovato una risposta nemmeno minimamente condivisa. Cosa buona e giusta nel libero dibattito storiografico. Sennonché, in Francia, è soprattutto nella memoria nazionale che l’Incorruttibile resta figura altamente divisiva. Emblema di una rivoluzione mai digerita. A riprova, le polemiche ravvivate in tempi recenti da Jean-Luc Mélenchon, il tonitruante leader dell’ultra-gauche che è tornato a sbandierare Robespierre come una sorta di patrono. Su un terreno così irto di tagliole lo studio di Colin Jones si inoltra con piglio narrativo, senza però esimersi da una rilettura politica degli accadimenti.
Domanda delle cento pistole: perché, in quel fatidico termidoro, al culmine del potere e del consenso, Robespierre e compagni vennero disarcionati? Furono fatti fuori da un colpo di Stato mentre si preparavano a sferrarne un altro, magari con Maximilien a timoniere? L’autore tende ad escluderlo, derubricando a mito tanto il golpe in fieri quanto il contro-golpe preventivo. In effetti è difficile immaginare che, dopo essersi gettato a corpo morto –perinde ac cadaver direbbero i gesuiti da cui aveva studiato- nella causa collettiva, un monaco della rivoluzione, un rigorista della collegialità quale Monsieur de Robespierre possa aver maturato all’improvviso ambizioni di tipo dittatoriale. Tutto sembra indicare invece che nel timore –reale o gonfiato a bella posta- di una sterzata tirannico-oligarchica, la caduta dei robespierristi sia stata l’esito non tanto di una macchinazione premeditata quanto d’una convergenza d’interessi e forze ostili; un’alleanza di nemici vecchi e nuovi che in tre giorni (8-10 termidoro) riuscirono a coagularsi per defenestrare un gruppo dirigente ritenuto pericoloso, in odore di golpismo, e svergognato come tale di fronte alla pubblica opinione parigina.
Torpore depressivo.
Ma sull’ingranaggio che lo avrebbe stritolato pesarono parecchio anche gli errori dello stesso Robespierre. A riflesso di una rivoluzione che –tra guerre alle frontiere, rivolte nelle province, detenzioni di massa- sembra incartarsi, il crepuscolo dell’Incorruttibile è quello di un uomo in crisi di lucidità. Il 20 pratile (8 giugno), la Festa dell’Essere Supremo, il nuovo culto deistico-civile di cui è stato demiurgo, gli è valsa un trionfo di piazza, un’apoteosi. Ma attirandogli le antipatie degli scristianizzatori. Laica finché si vuole, la giovane religione robespierriana, che assicura l’immortalità dell’anima e promette un aldilà dove verranno riparate le ingiustizie terrene, è vista come un tradimento dell’ateismo rivoluzionario. Sommo sacerdote della nuova fede, Robespierre sta forse tramando contro la secolarizzazione? Mentre su di lui si addensano i sospetti, l’Incorruttibile commette lo sbaglio di allontanarsi dall’attività politica. Per settimane, precipitato in un misterioso torpore malinconico-depressivo, non si fa vedere ai dibattiti della Convenzione né alle riunioni del Comitato di salute pubblica. Dov’è? Che cosa starà ruminando, architettando? Di sicuro, eclissandosi, si espone a grossi rischi. La storia insegna infatti che se nel vivo delle rivoluzioni ti estranei dalla lotta, qualcun altro deciderà al posto tuo, e volentieri sulla tua pelle.
Però quell’assenteismo ha radici profonde. Robespierre ha sempre snobbato la politica spicciola. Il disbrigo degli affari concreti lo disgusta. Poeta frustrato, d’indole religiosa, si considera investito d’una più elevata missione. Non è mai stato uomo di governo né demagogo da strada. Populista smisurato, ritiene il popolo depositario di ogni virtù, ma è allergico alla folla, ne schiva il contatto, gli sguardi, gli afrori. Ha modi sfuggenti, prelatizi. Ai grandi momenti insurrezionali della Révolution ha partecipato di sguincio. E’ un animale da assemblea, uno che scatena tutto se stesso nella parola, nel discorso: dalla tribuna della Convenzione o del Club dei giacobini.
Ma, nonostante uno storico del calibro di Albert Mathiez scorgesse in lui la reincarnazione settecentesca del “vir bonus dicendi peritus di ciceroniana memoria”, Maximilien non è neppure un oratore memorabile. Non ha l’ironia di un Mirabeau né l’irruenza taurina di un Danton o il genio dello slogan di un Saint-Just. E allora perché strega l’uditorio? Perché, con la sua vocina in falsetto, il piccolo (neanche un metro e 60 di statura) miope avvocato di Arras sprigiona l’appeal del moralista. Con retorica d’impianto binario (Noi-Loro; Puri-Impuri…) martella sui princìpi fino ad ammantarli di un’evidenza quasi euclidea. Asessuato (non gli si conoscono amori), sempre impeccabile e civettuolo nel look (ciprie, redingote, parrucca), anche l’audience femminile lo venera. Poco importa che lui non le vorrebbe mai coinvolte in politica: le donne della Rivoluzione riconoscono nell’Incorruttibile l’antitesi rassicurante e vindice dei sordidi libertini ancien régime.
Il discorso-testamento.
Robespierre non bara, non bluffa. E’ il rivoluzionario in purezza. Lo hanno definito ideocrata, cioè uno che vive la politica nell’orbita disincarnata delle idee. Idee che traducendosi in realtà, prassi, risultano ai suoi occhi sempre tradite, corrotte dalla malafede e dall’egoismo dei mortali. I germi della paranoia ci sono tutti. Con virulenza terminale, esploderanno nell’ultima orazione davanti alla Convenzione. Maximilien ha lavorato al testo come un matto, ritirandosi nella campagna rousseauiana di Montmorency, scrivendo e correggendo in una specie di delirio. Eppure quel discorso-testamento sarà un fiasco micidiale.
In due ore e rotte di predica, l’Incorruttibile denuncia complotti, minaccia orrendi castighi. Ma –errore fatale- non pronuncia i nomi dei presunti cospiratori. Nell’assemblea brucia ancora il ricordo delle grandi purghe che hanno portato all’eliminazione fisica dei girondini, degli hébertisti, dei dantonisti. Tra i deputati monta il panico: ci sarò anch’io nella lista? Fare i nomi può essere pericoloso. Ma, in certi casi, non farli può essere perfino di più. E così, nel terrore di ritrovarsi sotto accusa, che si fabbrica l’opposizione termidoriana a Robespierre. E si innesca la sua rovina.
Ad andare in pezzi, sostiene Jones, è l’operazione per la quale l’Incorruttibile si era speso fino allo stremo: mantenere compatte le anime della Rivoluzione. La rappresentanza e la base. Da un lato la Convenzione, dall’altro il movimento popolare e la municipalità parigina che ne raccoglieva le istanze. La tesi del libro è che dovendo schierarsi di colpo tra un’assemblea sotto minaccia autocratica (vera o artata che fosse) e la Commune controllata dai robespierristi, il popolo di Parigi abbia fatto emotivamente quadrato intorno alla prima. Lanciando però la volata a una nuova casta rivoluzionaria costituita da personaggi non meno spregiudicati e sinistri (i Fouché, i Tallien, i Barras), che presto avrebbero mandato al macero ogni promessa di democratizzazione e di riforme.
Per il resto, la fine è nota. Dall’assalto all’Hotel de Ville, dove si è rifugiato insieme ai suoi discepoli, Robespierre esce col volto ferito da una pistolettata. Voleva farla finita oppure a sparargli è stato il leggendario, ma solo per il cognome, gendarme Charles-André Merda. Va’ a sapere.
Di Maximilien non sappiamo che aspetto avesse. Il corpo decapitato fu gettato in una fossa comune. Ma la testa venne conservata a reliquia? Improbabile. Le maschere mortuarie spuntate qua e là nei secoli sanno di patacca. Per quanto suggestiva, anche la ricostruzione in 3D realizzata una decina di anni fa non ha convinto gli specialisti. Smontando l’immagine angelicata da damerino dell’iconografia tradizionale, ci presentava un ceffo butterato dal vaiolo. Una faccia da guappo. Non priva di un suo fascino. Fascino dark, beninteso.
Marco Cicala Colin Jones