Attila Jòzsef (1905-1937), “Bilancio”, 1933
Ho mangiato-bevuto nera, schifosa
sporcizia, acre liquame della concimaia;
uno non può essere più temerario.
Eppure mai, finora, sono stato felice. 4
In questo mondo redento
non ho avuto un attimo di elevatezza;
né di tepore, dolcezza o piacere-
ce l’ha il maiale nella pozzanghera. 8
La morale mi insegna a essere furbo
(così credo che capiti anche a te).
Da ventott’anni patisco la fame.
Solo un’arma può risolvere il mio caso. 12
Per questo pesano tante cose oscure,
tante ossessioni sul mio cuore,
che la mia amata dal tenero viso si angoscia
se la guardo; benché io sorrida. 16
Sto seduto sotto un cielo severo,
come un senzatetto sotto il ponte.
Assolvo me stesso da tutto
perché il giudizio universale non ci sarà. 20
da “Poesie complete”
”, II, 1955-1958
Quando Jòzsef scrive “da ventott’anni patisco la fame” (v. 11), la biografia ce lo conferma: rimasto prestissimo senza padre, allevato da una madre lavandaia che morirà quando lui è appena adolescente, si è mantenuto facendo lavori disparati e precari: guardiano di porci, mozzo su un rimorchiatore fluviale. Studi seri ma mai finiti, studente indebitato a Vienna e a Parigi, sottopagato dalle riviste letterarie; criticato e censurato dal governo contro-rivoluzionario di Horthy ma anche dal partito comunista clandestino (che lo accusa di pessimismo e di radicalismo), è il prototipo del poeta vagabondo e controcorrente. Quando scrive sulla miseria degli operai si sente che la sua è fratellanza vera, corroborata da comunanza di abitudini e sacrifici; nei momenti di esaltazione non è immune dalla retorica ribellistica (“alla mia nascita avevo un coltello in mano / ma ho preso la penna perché il coltello era poco”). Ha una vitalità debordante, ai suoi vent’anni la rivoluzione in Europa era ancora pensabile; c’era la fiducia nell’Uomo con la maiuscola, nel mondo a venire come liberazione dallo sfruttamento, nell’uguaglianza come creatività e lotta. Jòzsef sa essere poeta proletario di ballate violentissime, usa un linguaggio espressionista e futurista per rinnovare i ritmi delle canzoni popolari ungheresi (ammira la musica di Bartòk) –ma c’è sempre una parte nera che lo segue, l’ombra di una condanna sconosciuta.
In questo desolato e sarcastico Bilancio non c’è bisogno di ricorrere alla biografia per essere sicuri dell’autenticità di chi scrive: basta la forza inconsueta delle immagini, l’impertinenza spiazzante dei ragionamenti. Il doppio passato “ettem-ittam” (ho mangiato-bevuto, v. 1) è un’invenzione verbale densa di materia, che fa groppo mentre si pronuncia e dà il senso del soffocamento; il “liquame della concimaia” (v. 2) è metaforico ma brutale di odori e concretezza. La traduzione non rende lo scontro di suoni dell’originale, né l’equilibrio tra un lessico estremamente semplice (“non sono mai stato felice”, v. 4) e una metrica colta, disciplinatrice (quartine a rima incrociata). Il “maiale” del v. 8 è un ribaldo simbolo di benessere; in un’altra poesia Jòzsef identifica la felicità con una scrofa da un quintale e mezzo (“bionda, tenera”), distesa nel brago mentre la luce gioca tra i suoi peli. L’onestà indefettibile lo isola dalla morale comune, che tutti invita al compromesso; l’accenno all’”arma” del v. 12 si riferisce ai ricorrenti pensieri di suicidio ma è anche l’eco che rintocca di un’invocazione collettiva alle armi –cioè all’azione rivoluzionaria che per il momento è abortita.
Dal 1931 Jòzsef era in analisi e l’analista si dichiarava sconcertato dalla sua forma di grave nevrastenia, incerto se attribuirla a traumi infantili o alle perenni ristrettezze economiche; per il poeta non c’è dubbio, alla base ci sono le condizioni materiali. Al v. 13 non dice “sono psicotico e per questo non riesco a integrarmi nella società trovando un lavoro soddisfacente”, ma “da ventott’anni patisco la fame e per questo sono psicotico”; usa la parola vaga (“dolgok”, cosa) di chi non vuole approfondire, e traduce immediatamente la psicosi in una scena familiare quasi diabolica. A quel tempo conviveva con Judit Szàntò, un’operaia che fu l’unica relazione duratura della sua vita; in altri testi non nasconde l’insofferenza e il disamore suscitati in entrambi dalla povertà –qui però la responsabilità del disagio è tutta a carico suo: lui sorride ma il sorriso è così inquietante che alla ragazza vengono i brividi. “Kedvesem” (mia cara, mia amata) al plurale può significare “parenti” (come in italiano “i miei cari”); sotto l’erotismo gioca un più profondo ricordo della madre. Jòzsef sembra uno di quei pazienti già perduti a cui la psicanalisi non può che fare del male riattivando sopiti sensi di colpa. Il cielo severo è un tribunale, la stessa semi-volontaria derelizione è una prova contro di lui, da cui si sgancia con una botta di arrogante strafottenza: mi assolvo perché tanto il giudizio “utolsò” (ultimo, estremo) non ci sarà. Il che significa però, purtroppo, che non ci sarà giustizia.
Dio è sempre stato per lui solo un padre terreno, da chiamare a soccorso o con cui litigare; se pensa al dopo-morte, sogna di vagare negli spazi cosmici come quando navigava sul Danubio, salutando stelle e nebulose come allora vedeva cocomeri e peperoni galleggiare sulla corrente. “Per questo”, conclude in quella poesia, “la mia anima è un bene comune”. Jòzsef non distingue tra armonia interna ed esterna –la liberazione dell’Uomo è la sua liberazione. “Mi sei necessaria”, scrive all’ultima donna unilateralmente e disperatamente amata, “come ai borghi la luce elettrica, / come ai lavoratori la coscienza umana”. La sua paranoia lo fa più grande di altri poeti comunisti militanti. “Megvàltott” del v. 5 è un participio che significa “mutato, salvato” –è la redenzione dovuta a Cristo o al socialismo? In ogni caso, in quel mondo non c’è posto per lui. Solo nell’ultima poesia, dicembre 1937, accetterà l’esclusione senza più lottare (“l’inverno / è la stagione più bella per chi solo per gli altri / sogna una famiglia, un focolare”). Ma la mattina dopo si butta sotto il treno.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 21 settembre 2014, p. 62