Baldassarre Castiglione. Il Rinascimento e la sua Apocalisse.
Nell’epistolario dell’autore del “Cortegiano” l’immagine di un’Italia in cui alle meraviglie letterarie e artistiche si accompagna la decadenza politica.
Nella “Repubblica” di venerdì 21 ottobre 2016, alle pp. 38-39, è apparso un articolo di Alberto Asor Rosa che prende spunto dalla pubblicazione dell’epistolario di Baldassarre Castiglione per sviluppare un’analisi molto interessante sulle caratteristiche, letterarie artistiche e culturali, dei ceti intellettuali nel momento della grande catastrofe politica italiana: il dominio straniero sul territorio della penisola, l’asfissia delle rotte commerciali, la cappa censoria dell’Inquisizione. “Il libro del Cortegiano”, scritto tra il 1513 e il 1518, stampato –dopo un’attenta revisione- da Aldo Manuzio a Venezia nell’aprile del 1528, proiettava idealmente nella figura del “perfetto cortegiano” il simbolo di una civiltà colta e raffinatissima che il presente rischiava di travolgere: quella dei piccoli Stati italiani di fronte alle grandi monarchie unitarie europee. Nel 1528 il “Cortegiano” sembra un libro superbamente aristocratico, divinamente scritto e insieme lacerato e disperato, già postumo: la crisi politica e militare degli Stati italiani, lo choc tremendo del Sacco di Roma, la precarietà stessa dello Stato della Chiesa e del suo satellite ducato di Urbino, hanno profondamente segnato la situazione di felicità che il libro descrive, con la sua alta datazione al 1506, al momento della visita di papa Giulio II ad Urbino, di ritorno da Bologna, riconquistata al suo potere. Alla cecità e ignoranza dei principi, i quali “perché credono che ‘l saper regnare sia facilissima cosa e per conseguirla non bisogni altr’arte o disciplina che la sola forza, voltan perciò l’animo e tutti i pensieri a mantenere quella potenzia che hanno, estimando che la vera felicità sia il poter ciò che si vole”, il nostro autore contrappone la funzione illuminata dei cortigiani, che hanno il compito di mostrare con abilità la verità ai potenti e di infondere loro con destrezza il senso della giustizia, la bontà, la continenza, la fortezza, la temperanza.
Castiglione coglie con acutezza i sintomi della crisi italiana, vede l’Italia entrare in un’età di asservimento politico e ideologico ai sovrani stranieri; è il momento della grande crisi italiana, un grande momento proprio perché c’è una grande crisi, in cui le energie migliori della cultura, dell’intellettualità e del professionismo politico convergono nel tentativo di porre un argine alla catastrofe incombente. Castiglione scrive in una sua lettera: “Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per italiano; ché, benché lo aver posto in usanza questi novi faccia parer quelli primi (usati in precedenza) goffissimi, pur quelli forse erano segno di libertà, come questi son stati augurio di servitù; (…) così l’aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse, tutti quelli, negli abiti de’ quali i nostri erano trasformati, dover venire a subiugarci (sottometterci); il che è stato troppo più che vero, ché ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda, tanto che poco più resta che predare e pur ancor di predar non si resta (si cessa)”. Il libro di Castiglione esce in versione definitiva nel 1528, un anno dopo il devastante sacco di Roma; il “Principe” di Machiavelli sarà pubblicato nel 1532. Entrambi gli scritti si occupano, ognuno a suo modo, del potere. Machiavelli suggerisce ai reggitori degli Stati come conquistare e mantenere il governo. Castiglione insegna a chi frequenta una Corte come comportarsi in società per mantenere il proprio posto. Sono non pochi i segni che rimandano al travaglio dei nostri complicatissimi giorni.
Machiavelli è morto nel giugno del 1527. Guicciardini seppellisce i suoi “Ricordi” nella cassaforte di famiglia. Castiglione perlomeno formula in pubblico la sua ricetta, impastata contraddittoriamente di lucidità, coraggio, senso della responsabilità e immedicabile disperazione. Baldassarre Castiglione morirà a Toledo nel 1529, durante un’epidemia, all’età di cinquantuno anni. Carlo V, nell’elogio funebre, lo definirà “ il miglior cavaliere del mondo”.
Gennaro Cucciniello
E’ uscito recentemente presso Einaudi, nella sempre più preziosa collana dei “Millenni”, un monumentale omaggio alla cultura del Rinascimento italiano: le “Lettere famigliari e diplomatiche” di Baldassarre Castiglione (1779 epistole, in tre volumi, per 3500 pagine), ad opera di un’équipe di studiosi capitanata da Angelo Stella e Umberto Morando, sulle orme di Guido La Rocca, scomparso anni fa (Introduzione, “Al limite della Corte”, di Stella).
Baldassarre Castiglione è universalmente noto (o almeno così dovrebbe essere) quale autore del “Libro del Cortegiano”, uno dei testi capitali di quella civiltà del Rinascimento, cui facevamo riferimento in precedenza. “Le Lettere famigliari e diplomatiche” svelano fino in fondo, oltre ai particolari più minuziosi della sua biografia, la trama eccezionalmente ricca delle relazioni personali, culturali, civili e professionali, che stanno dietro quel libro. Castiglione, nato a Mantova nel 1478, servì prima i Gonzaga, signori di quella città, poi i Della Rovere, duchi di Urbino (dove è ambientato il Cortegiano), infine i pontefici romani, in particolare Clemente VII, per il quale fu Nunzio pontificio in Spagna, presso la corte del potentissimo imperatore, e re cattolico, Carlo V.
In una miniera così vasta –trent’anni e più di corrispondenza, una miriade d’interlocutori, di situazioni e di funzioni diverse,- è difficile segnalare i tratti salienti. Alcuni, però, emergono e s’impongono di più alla nostra attenzione. Quello linguistico, ad esempio. Castiglione scrive le sue lettere, familiari o diplomatiche che siano, in un italiano colto, fluente ed elegante, non ancora intrappolato però nella norma toscana, che in quei medesimi anni veniva a poco a poco imponendosi nei ceti colti italiani e che di lì a poco il suo amico Pietro Bembo avrebbe codificato nelle “Prose della volgar lingua”, altro grande libro tipico del Rinascimento italiano.
Questa espressività è predominante, e persino talvolta appariscente, nelle lettere a carattere privato e familiare, ma non manca d’improntare anche quelle a carattere politico e civile. Ne forniamo, per motivi di necessità, solo alcuni limitatissimi esempi. Il primo riguarda la corrispondenza con la madre, Aloisia Gonzaga Castiglione, un vero e proprio filo rosso, che attraversa tutto il suo epistolario. Particolarmente commoventi le ultime lettere, scritte in limine, poche settimane o addirittura pochi giorni prima della sua morte. Attiro l’attenzione su quella spedita da Toledo il 27 dicembre 1528: spiega e giustifica la sua “absentia” accanto a lei, anziana e sola, con il suo dovere di compiere, sia pure in nome e per conto del principe, qualcosa per il bene comune. E, con un’impennata degna della migliore invenzione letteraria, conclude: “Delle cose d’Italia ancorch’io non le veda presentialmente con gli occhi, vedole, con l’animo in absentia, e tanto me ne dole quanto deve doler a un buon christiano e bon italiano”. Sottolineo l’importanza di questa auto definizione: “buon christiano” e “bon italiano”. Nel 1528, quando fu formulata, non era più, per motivi oggettivi e storici, di totale evidenza (tornerò su questo punto).
Nella sua corrispondenza diplomatica, per l’appunto, colpiscono gli echi di questa resistente e duplice autodefinizione (un riflesso, altresì, dei principi alti, non servili, della cortigianeria, come lui li teorizzò nel suo libro). Quando nel 1527 truppe mercenarie tedesche, a forte impronta luterana, al servizio di Carlo V, invadono e saccheggiano Roma, il papa Clemente VII accusa Castiglione di non aver saputo né prevedere né ostacolare tale infamia. Castiglione reagisce con forza dignitosa: “La conscientia mia mi sforza, tanto a disculparmi di quello che non solamente mi persuadeva esser disculpato per l’opere, ma meritarne laude e premio, che non posso resistergli… (9 novembre 1527; il Sacco di Roma era stato del maggio).
Ma veniamo ad alcune questioni di ordine più generale, senza le quali quanto siamo venuti finora scrivendo potrebbe essere inteso con qualche difficoltà. Dopo il congedo dalla machiavelliana democrazia fiorentina repubblicana (Machiavelli, autore e fautore del Principe, dalla parte della democrazia repubblicana? Sì, non v’è ombra di dubbio, ne parleremo un’altra volta), cultura e letteratura, in precedenza fondamentalmente fiorentine e toscane, si allargano a raggiera sull’intero territorio nazionale, con esiti estremamente rilevanti soprattutto nelle aree veneto-padane: Castiglione è di Mantova, Bembo di Venezia, Ariosto di Ferrara, Trissino di Vicenza… Contemporaneamente, al ceto comunale borghese subentra quello aristocratico (tutti i nomi qui sopra richiamati vi appartengono). E’ a questi nessi, e insieme al loro rapporto profondo e prioritario con la loro origine fiorentina e toscana (Bembo, le Prose; il Furioso dell’Ariosto del 1521 e del 1532), che si deve ciò che comunemente s’intende come l’apogeo del Rinascimento in Italia, il momento più alto ed entusiasmante che la civiltà umana abbia mai conosciuto (addirittura! Sì, anche in questo caso non v’è ombra di dubbio).
Contemporaneamente, e contestualmente, quello che s’intende come apogeo della civiltà del Rinascimento in Italia (naturalmente bisognerebbe comprendervi anche i grandi e numerosissimi protagonisti dell’arte e dell’architettura, da Raffaello a Michelangelo), e cioè, in sostanza i primi trent’anni del XVI secolo, sono gli stessi che danno inizio alla grande, e irrimediabile, catastrofe italiana: la perdita di qualsiasi autonomia statuale, la presenza dello straniero sul nostro territorio, la caduta verticale del prestigio e del potere pontificio (resta Venezia, ma ormai ristretta nella difficile difesa dello status quo). Il massimo dello splendore artistico e letterario, contraddistinto in quest’ultima fase da una forte ed esplicita connotazione italiana (“bon italiano…”), coincide con l’inizio della decadenza. Forse è per questo che Angelo Stella, nella sua bella introduzione, conclude che il messaggio del Cortegiano “doveva rimanere un’idea forse platonica, imposseduta, non formata con le parole ma figurata dalle parole” (del resto, anche Walter Barberis, introducendo una sua edizione del Cortegiano –Einaudi, 1998- accomunava Castiglione agli altri grandi sconfitti del Cinquecento: “La bella e astratta esemplarità del Cortegiano portava Castiglione nel pantheon dei grandi sconfitti dei primi del secolo, accanto a Machiavelli e Guicciardini…”). Insomma: il Rinascimento si conclude simultaneamente con un’apoteosi e con una catastrofe. Accade spesso in Italia.
Alberto Asor Rosa