La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La religione cristiana e la Chiesa cattolica. “L’inferno”, 29 gennaio 1833.
E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.
Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.
Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Gennaro Cucciniello
L’inferno 29 gennaio 1833
Cristiani indilettissimi, l’inferno
è una locanna senza letto e coco,
ch’er bon Iddio la frabbicò abbeterno
perché sse popolassi appoco appoco. 4
Quanti Santi, in inzoggno la vederno,
dicheno che ssibbè ppiena de foco,
nun c’è un’ombra de luce in gnisun loco,
e ce se trema ppiù che ffussi inverno. 8
Sur porton de sta casa de li guai
ce sta a lettre da cuppola un avviso,
che ffora dice “sempre”, e drento “mai”. 11
Gesù mio battezzato e circonciso,
arberghece li turchi e badanai,
e a noi dacce l’alloggio in paradiso.
Metro: sonetto (ABAB, ABBA, CDC, DCD).
Cristiani dilettissimi, l’inferno è una locanda senza letto e senza cuoco, che il buon Dio creò “ab aeterno” perché si popolasse poco a poco. Tutti i santi che in sogno la videro ci dicono che sebbene è piena di fuoco non c’è nemmeno l’ombra di una luce in alcun suo luogo, e vi si trema più che fosse inverno. Sul portone di questa casa dei guai ci sta, scritto a lettere enormi, un avviso che al di fuori dice sempre e al di dentro mai. Gesù mio battezzato e circonciso, mettici dentro i turchi e gli ebrei e a noi alloggiaci in paradiso.
Immaginiamo di stare in una chiesa, ci sediamo in un banco delle ultime file e ascoltiamo di buon grado l’omelia del prete. Il buon uomo sa il fatto suo, sa parlare ai suoi fedeli, usa un linguaggio semplice, i riferimenti sono concreti e legati alle esperienze quotidiane dei suoi parrocchiani. Anche Belli, pensiamo, è in un angolo, col suo calepino, intento a prendere appunti. L’incipit, “Cristiani indilettissimi”, è un evidente replay, amabilmente ironico, di tanti discorsi tenuti dai parroci nelle chiese di Roma. Ma il poeta sa costruire una struttura sofisticata: si veda il gioco di antitesi “inferno-inverno” nella rima in A (vv. 1, 8) e –ancora più interessante- la ripresa ad anello “inferno-paradiso” dell’intero sonetto (fine dei versi 1, 14). Non mancano gli accostamenti scherzosi e insieme inquietanti come quell’ombra di luce al v. 7.
Il racconto prosegue in falsariga popolare citando proverbi conosciuti, la scritta sul portone d’ingresso, il fora “sempre” e drento “mai”. Poi, d’improvviso, un’unghiata sanguinosa: Gesù è un ebreo circonciso, battezzato da Giovanni il Battista, ma lo stesso Gesù dovrà darsi da fare per riempire l’inferno di ebrei. Non ci stupiamo: l’antisemitismo della Chiesa cattolica nel primo Ottocento era diffuso nel clero e tra i fedeli e poi non è la prima volta che il nostro poeta prende a bersaglio la boria dei cattolici.
Infine, questo inferno ultraterreno –descritto con un modo di raccontare conciso, senza iperboli- sembra rivelarci che tutto a Roma segnala la lieta e lieve ambiguità dell’esistenza, un inferno-paradiso sospeso nel tempo.
Il giorno prima, il 28 gennaio, Belli si era divertito a ironizzare sulla borghesia papalina romana:
Un tant’a ttesta
Giacubbinacci che covate in petto
l’arbaggìa de sfreggnà la Santa Chiesa
senza volé che lei facci un fischietto
pe chiamà Gesucristo in zu’ difesa, 4
l’editto de Papà l’avete letto?
La scummunica sua l’avet’intesa?
Conzolateve dunque coll’ajetto
c’avete fatto una gran bell’impresa! 8
La Chiesa fischia, Cristo nun è ssordo,
li Romani so ttutti papalini,
e la Santità Ssua nun fa er balordo. 11
E ppe ffotte voantri giacubbini,
già er Zanto-padre e noi semo d’accordo:
lui dà indurgenze e noi dàmo quadrini. 14
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
Giacobinacci che covate in petto l’albagia di voler distruggere la Santa Chiesa senza volere che lei con un fischio chiami Gesù in sua difesa (forse Belli allude all’invocazione consueta di aiuti militari dalle potenze straniere), l’editto di Papà (altra ironia) l’avete letto? La sua scomunica l’avete sentita? (Si fa riferimento alla scomunica scagliata nel 1832 contro i ribelli liberali rifugiati ad Ancona). Consolatevi dunque con queste piccole speranze, perché avete fatto una grande impresa! La Chiesa fischia, Cristo non è sordo, i Romani sono tutti papalini e la Santità Sua non fa il balordo. E per rovinare voi altri giacobini, già il Santo Padre e noi papalini siamo d’accordo: lui dà indulgenze e noi diamo i quattrini.
Gennaro Cucciniello