Belli. Sonetti. “Il miracolo di San Gennaro”

“Er miracolo de San Gennaro”,  18 maggio 1834

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

“Er miracolo de San Gennaro”  18 maggio 1834

 

Come però er miracolo c’ho vvisto

Cor mi’ padrone a Nnapoli, dì ppuro

Che cquant’è ggranne er Monno, Mastro Sisto,

Nun ne ponno succede de sicuro.                                       4

 

Usscì un pretone da de-dietro un muro

Co un coso pieno de sanguaccio pisto,

E strillò fforte a ttante donne: “è dduro”,

E cquelle: “Sia laudato Ggesucristo”.                                8

 

E ddoppo, in ner frattempo ch’er pretone

Se smaneggiava er zangue in quer tar coso,

Le donne bbiastimaveno orazzione.                                11

 

Finché cco sto smaneggio e nninna-nanna

Er zangue diventò vvivo e bbrodoso

Com’er zangue d’un porco che sse scanna.                     14

 

Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, EDE).

 

                            Il miracolo di San Gennaro

 

Quanto al miracolo che ho visto, col mio padrone a Napoli, dì pure che per quanto è grande il mondo, mastro Sisto, non ne possono succedere di più sensazionali. Uscì un pretone da dietro l’altare col reliquiario in forma di lanterna di carrozza pieno di sangue pestato, e strillò con voce tonante a tante donne: “E’ duro”. E le donne rispondevano: “Sia lodato Gesucristo”. E dopo, mentre il pretone abbracciava tra le mani il reliquiario, e lo sfregava, e lo accarezzava, le donne bestemmiavano preghiere. Fino a che con questo maneggiare e queste cantilene il sangue diventò vivo e liquido, come il sangue di un maiale che viene scannato.

Analisi.

Parla un servitore che è stato a Napoli e ha potuto assistere a quel miracolo di devozione popolare che da secoli si ripete tre volte all’anno nella città partenopea. Il suo racconto, dettagliato nella cronaca, mette in luce particolari crudi e veritieri che offrono spunti succosi alla polemica del Belli contro il fanatismo religioso e le relative superstizioni. Si riporta nelle storie che la liquefazione del sangue del santo patrono è attestata per la prima volta in un “Chronicon Siculum” del 17 agosto 1389. Il rito tradizionalmente si svolge nella chiesa di Santa Chiara, dove le ampolle e il busto dorato e ingemmato (che racchiude il teschio) vengono trasportate dal duomo con una lunga e fastosa processione. Dicono le cronache che la mancata liquefazione è interpretata dal popolino come presagio di sventure, perciò il miracolo è implorato e addirittura reclamato con frasi pittoresche e con insulti (il più comune è “faccia gialluta!”, e ci si riferisce al colore della faccia dorata del santo), soprattutto dalle “parenti”, un gruppo di donne anziane che vantano la discendenza dal vescovo martire.

Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, alla data “Napoli, 17 marzo 1787”, riflette: “Qui (…) tutti scorrazzano in paradiso da mane a sera senza preoccuparsi troppo, e quando comincia a ribollire la vicina bocca d’inferno (il Vesuvio) chiedono aiuto al sangue di san Gennaro; e con che si difende, o cerca di difendersi tutto il resto del mondo dalla morte e dal diavolo, se non col sangue?”.

Il popolano è affascinato dalla rappresentazione che clero e popolo mettono in piedi e nel racconto mescola in modo ributtante sacro e profano. Dicono taluni che sembra un rito satanico dove emergono i simboli del sesso e del sangue, come spiegano le numerose espressioni a doppio senso e con indugio compiaciuto, (“un pretone… strillò fforte a ttante donne: è dduro” , v. 7), “sanguaccio pisto, zangue maneggiato in quer tar coso, zangue d’un porco che sse scanna”.

Si legge in una critica: “E il colmo del sacrilegio sta nel fatto che l’orgia sia officiata da un prete che, con il suo “smaneggio” e la sua “nninna-nanna” (l’orazione cantilenata del v. 12) addormenta e ipnotizza la folla degli invasati. Un’enorme bestemmia camuffata da preghiera, come già era stato messo a fuoco nell’ossimoro del v. 11: “le donne bbiastimaveno orazzione”.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello