Belli. Sonetti. “La cagnola de Lei”

Belli. Sonetti.  “La cagnola de Lei”

 

Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.

Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.

A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.

Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.

In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisce solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.  Belli, “I Sonetti”, a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

         La caggnola de Lei            14 aprile 1834

 

La mi’ padrona? Eh chi nun j’arispetta

La su’ caggnola de razza martesa,

Sia puro chi sse sia, pò ffà la spesa

De quattro torce e dd’una cassa stretta.                         4

 

Lei? La caggnola? ce va a la toletta,

Se la tiè a letto, se la porta in chiesa…

Inzomma, via, chi incontra la Marchesa

E’ certo d’incontrà la caggnoletta.                                    8

 

Bbisoggna véde li bbasci, bbisoggna

Sentì le parolette che jje disce:

E la “ladra”, e la “bbirba, e la “caroggna”…                            11

 

Dove se pò ttrovà un amore come

Quel’amor che cce porta, sor Filisce,

A mmette a una bbestiola er nostro nome?                    14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE)

 

                            La cagnolina della Padrona

 

La mia padrona? Eh, chi non porta rispetto alla sua cagnolina di razza maltese, sia pure chi si voglia, può comprarsi quattro torce e una bara scadente (può prepararsi a morire perché si attirerà le sue vendette). Lei? La cagnolina? Se la porta alla toletta (il mobile con lo specchio davanti al quale le donne si acconciano e si truccano), la tiene con sé a letto, se la porta in chiesa alle funzioni religiose… Insomma, via, chi incontra la Marchesa è certo d’incontrare la cagnetta. Bisogna vedere i baci che le dà, bisogna sentire le parolette che le dice: e “ladra, e birba, e carogna”. Dove può trovarsi un amore come questo, un amore che ci porta, sor Felice, a mettere a una bestiola il proprio nome?

 

Analisi.

Sembra innegabile la derivazione dalla “vergine cuccia” del Parini, ma più convincente sembra lo spunto offerto da una nota poesia di Carlo Porta, “La nomina del cappellan”, in particolare dai vv. 7-12, dove compare anche l’aggettivo maltesa in rima con Marchesa: “L’eva la Lilla ona cagna maltesa / tutta goss, tutta pel e tutta lard,/ e in cà Cangiasa, dopo la Marchesa,/ l’eva la bestia de maggior riguard,/ de moeud che guaja al ciel falla sguagnì,/ guaja sbeffalla, guaja a dagh del tì”.

Ma c’è una forte differenza tra i due testi e i due autori. La satira del Porta è illuministica, pariniana, di polemica morale e sociale: la Marchesa, per la scelta del nuovo cappellano di famiglia, nominerà il prete che avrà dimostrato ossequio e amore verso l’orribile e ringhiosa cagna, simbolo del capriccio e della superficialità della classe aristocratica. Belli, invece, accenna sì en passant alla cassa e ai ceri, al funerale e alla morte, ma sembra tutto teso solo alla descrizione della donna che vezzeggia la cagnetta, a rappresentare il processo di identificazione della marchesa con la cagnoletta. L’arguzia del poeta è surreale: quando la padrona, per trasporto affettuoso, chiama la bestia con nomi insultanti è come se chiamasse se stessa, “ladra, bbirba e caroggna”.

 

Il giorno seguente, il 15 aprile 1834, Belli scrive il sonetto:

 

                                               Er dottore somaro

 

Còrpa sua. E pperché lui nun ze spiega?

Pe che raggione l’antra sittimana

Rispose ar mi’ discorzo in lingu’indiana

Quanno me venne a visità in bottega?                             4

 

Dico: “Diteme un po’, sor dottor Bréga,

Pò ffà male er cenà co la terzana?”

Dice: “Abbasta sii robba tutta sana,

Tu ppòi puro cenà: chi tte lo nega?”                                 8

 

Me maggnai dunque sano un paggnottone

Casareccio, un zalame, ‘na gallina,

‘Na caciotta, un cocommero e un melone.                      11

 

Lui, cazzo, aveva da parlà itajano,

E risponneme a me quela matina:

Maggna robba inzalubbra, e vàcce piano.                    14

 

Colpa sua. E perché non si spiega bene? Per quale ragione l’altra settimana rispose al mio discorso in una lingua incomprensibile quando venne a farmi visita in bottega? Io dissi: “ditemi un po’, signor dottore dei miei stivali, può far male cenare quando si ha la febbre malarica?”. Lui rispose: “basta che sia tutta roba sana, tu puoi pure cenare, chi te lo nega?”. Dunque mi mangiai tutto intero un pagnottone casareccio, un salame, una gallina, una caciotta, un cocomero e un melone. Lui, cazzo, doveva parlare in italiano e rispondermi quella mattina: “mangia roba salubre e in poca quantità”.

Tutto l’equivoco si basa sull’interpretazione della parola “sana” (v. 7) equivocata dal bottegaio nel v. 9.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello