Belli. Sonetti, “La mala stella” 19 gennaio 1832
Una “prospettiva plebea”, murata in un orizzonte di non storia.
“Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.
Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.
A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.
Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.
In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisce solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“La mala stella” 19 gennaio 1832
Lo vedete Gesù, sore madame?
Nascé come le bestie in ne la paja:
Doppo cor un martello e una tenaja
Je toccò a lavorà da falegname. 4
Da giuvenotto annò morto de fame
A ppredicà er Vangelio a la canaja:
Poi da omo je mésseno la taja
P’er carciofarzo de quer Giuda infame. 8
E li raschi, e le spine, e la condanna,
E li chiodi, e li schiaffi, e quella posca
Che je mannorno in bocca co la canna!… 11
Inzomma tutto su quell’ossi sagri:
Epperò c’è ‘r proverbio c’ogni mosca
Va ssempre addosso a li cavalli magri.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
La cattiva stella
Lo vedete Gesù, signore madame? Nacque come le bestie nella paglia: negli anni seguenti con un martello e una tenaglia gli toccò lavorare da falegname. Da giovanotto andò, morto di fame, a predicare il Vangelo alla canaglia: poi, da uomo, gli misero la taglia per il tradimento di quel Giuda infame. E gli sputi, e le spine, e la condanna, e i chiodi, e gli schiaffi, e quella miscela di aceto che gli spinsero in bocca con la canna!… Insomma, tutto su quelle ossa sacre: e perciò c’è il proverbio che dice che ogni mosca va sempre addosso ai cavalli smagriti.
Le quartine.
Questa volta a parlare è il poeta travestito da frate popolano, uno che non ha paura di rivolgersi con durezza alle signore che lo ascoltano. E la rima in B contrassegna subito questo Gesù poveraccio: paja (il suo giaciglio), tenaja (il suo attrezzo da lavoro), canaja (le masse alle quali predicare), la taja (messa sul suo capo dai sacerdoti del Tempio). E anche la rima in A bene si intona: lavorà da falegname, annò morto de fame, quer Giuda infame, e voi sore madame.
Le terzine.
La prima terzina (i versi 9-11) è mirabile per la sintesi e i dettagli. Le sei riprese della congiunzione “e” incalzano con la forza d’una inquadratura cinematografica: prima gli sputi, poi la corona di spine calata a forza, e la condanna della folla e di Pilato, le torture dei soldati romani, la crocifissione e la spugna d’aceto “che je mannorno in bocca co la canna”.
Con tenacia poetica e civile Belli spinge la sua poesia in un mistero doloroso, vicino alla solitudine inerme di quel Cristo tanto uguale agli esseri umani senza privilegi che il nostro autore incontrava tutti i giorni nelle strade di Roma. Sa rendere intensa e perfino straziante l’emozione della povera vita quotidiana.
Il 4 aprile 1834 Belli scrive questo sonetto, col popolano romano incantato dalla visione della cupola di San Pietro illuminata di notte, e con il nostro poeta che annota con stupore di ironia malinconica.
L’illuminazzion de la cuppola
Tutti li forestieri, oggni nazzione
De qualunque paese che sse sia,
Dicheno tutti-quanti: “A casa mia
Ce se fa gran bellissime funzione”. 4
E nun dico che dichino bucìa:
Forzi, chi ppiù, chi meno, hanno raggione.
Ma chiunque viè a Roma, in cuncrusione,
Mette la coda fra le gamme, e via. 8
Chi ppopolo po’ èsse, e chi ssovrano,
Che ciàbbi a casa sua ‘na cupoletta
Com’er nostro San Pietr’in Vaticano? 11
In qual antra città, in qual antro stato
C’è st’illuminazzione benedetta,
Che tt’intontisce e tte fa pperde er fiato? 14
L’illuminazione della cupola
Tutti i forestieri, ogni nazione di qualsiasi paese, dicono tutti quanti: “A casa mia si fanno delle funzioni bellissime”. E io non dico che dicono bugie: forse, chi più, chi meno, hanno tutti ragione. Ma chiunque viene a Roma, in conclusione, mette la coda fra le gambe e va via (perché non regge il confronto). Quale popolo può esserci, e quale re, che abbia a casa sua una cupoletta come il nostro San Pietro in Vaticano? In quale altra città, in quale altro Stato c’è questa illuminazione benedetta, che ti istupidisce e ti fa perdere il fiato? (L’illuminazione si faceva quando era ancora giorno, accendendo numerosissime padelle di sego sparse su tutti i punti della cupola. Man mano che avanzava la notte, lo splendore della cupola diventava sempre più intenso illuminando l’intera città immersa nel buio).
Gennaro Cucciniello