Belli. Sonetti. “La nipote pizzuta”, 1 marzo 1837

Belli. Sonetti. “La nipote pizzuta”, 1 marzo 1837

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, Edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

                   “La nipote pizzuta”          1 marzo 1837

 

Ma ssentitela lì quela merdosa

Si come ce protenne e ffa la donna!

E’ un baiocco, pe dio!, tra cacio e ffronna

E vò mette er zu’ becco in oggni cosa.                              4

 

Ce parte cor parlà de fasse sposa…

Dà ssu la voce a la madre, a la nonna…

Sputa sentenze… E indove se la fonna

Tanta cacca e arbaggia sta mocciolosa?                        8

E nun zerve co me che ve vortate

Tutt’impipirizzita e barbottanno,

Ch’io, be’ che zia, ve pijo a sculacciate.                                     11

 

Che ne so! si ve fussivo mai creso…

A voi ve tocca de discorre quanno

Pisceno le galline: avet’inteso?                                           14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                               La nipote saccente

 

Ma sentitela quella personcina di pochissima età e di nessun conto come fa la pretenziosa e si atteggia a donna! E’ un soldo di cacio, per Dio, pesato con tutta la foglia e vuole interloquire su ogni cosa. Comincia col dire che vuole sposarsi… Litiga con la madre, con la nonna… Sputa sentenze… E su cosa fonda tanta vanità e presunzione questa mocciosa? E non serve che con me vi atteggiate tutta stizzita e borbottando, che io, benché zia, vi piglio a sculacciate. Che ne so! Se vi foste mai creduta… A voi tocca parlare quando pisciano le galline: avete capito?

 

Le quartine.

Siamo in una casa romana, una fra le tante. Il cronista Belli sorprende una discussione accesa fra zia e nipote. I rapporti fra le due donne sono difficili, lo si capisce facilmente dal tono stizzito e dalle parole anche ingiuriose che la donna più anziana usa senza molta diplomazia. E’ la solita questione dello scontro generazionale e del fastidio che la zia nutre e dimostra verso le eccessive pretese della fanciulla, verso la quale usa la terza persona in segno di distacco e di rimprovero. Al riguardo sono interessanti le rime in A, dedicate alla ragazzina: “merdosa (v. 1), mocciolosa” (v. 8); e, in sovrappiù, altre definizioni: “E’ un baiocco (v. 3), Vò mette er zu’ becco (v. 4), “E indove se la fonna / tanta cacca e arbaggia” (vv. 7-8).

Le terzine.

I toni si alzano ancora. Sembra che la ragazzina voglia rispondere per le rime, ribellarsi e far valere le sue ragioni; ma la vecchia zia prima dà ironicamente del voi alla nipote contestatrice, poi passa alle maniere forti, minaccia sculacciate e chiude con un motto proverbiale e idiomatico di sicuro effetto, diffuso in varie parlate. La voce che si sente, forte e chiara, è solo quella della zia, mentre della nipote, insubordinata e petulante, oltremodo vanitosa, si avverte solo un indistinto e arrabbiato borbottio.

 

Due giorni prima, il 27 febbraio 1837, Belli scrive:

 

                                      Li gatti dell’appiggionante

 

Ma davero davero, eh sora Nina,   

Nun volemo finilla co sti gatti?

Jerzera me sfasciorno quattro piatti:

Oggi m’hanno scocciato una terrina:                               4

 

Uno me te dà addosso a la gallina:

L’antro me sporca li letti arifatti…

E oggni sempre bisogna che commatti

A caccialli a scopate da cucina.                                          8

 

Ecco, er pupo oggi ha er gruggno sgraffignato.

E pperché ho da soffrì ttutti sti guasti?

P’er vostro lucernario spalancato?                                   11

 

Quanno le cose sò dette una, dua,

Tre e quattro vorte me pare c’abbasti.

Lei se tienghi li gatti a casa sua.                                       14

 

                                      I gatti della coinquilina

 

Ma davvero davvero, eh signora Caterina, non vogliamo farla finita con questi gatti? Ieri sera mi ruppero quattro piatti: oggi m’hanno sbrecciato una zuppiera. Uno di loro mi assalta la gallina: un altro mi sporca i letti appena rifatti… E sempre c’è bisogno che io mi affanni a cacciarli a colpi di scopa dalla cucina. Ecco, il bambino oggi ha il viso tutto graffiato. E perché io devo sopportare e soffrire tutto questo? Per il vostro abbaino spalancato? Quando le cose sono dette una, due, tre e quattro volte mi pare che basti. Lei si tenga i gatti a casa sua.

 

                                                                  Gennaro  Cucciniello