Belli. Sonetti. La religione cristiana. “Er viaggio de l’apostoli”

Belli. Sonetti. La religione cristiana. Er viaggio de l’apostoli, 28 maggio 1833.

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                        Gennaro Cucciniello

 

 

 

Er viaggio de l’apostoli         28 maggio 1833

 

Morto er Ziggnor’Iddio da bon cristiano,

Oggni apostolo vivo, a ppiede a ppiede,

Se messe in giro a ppredicà la fede

Cor zacco in collo e cor bastone in mano.                      4

 

Uno aggnéde a la Storta, uno a Baccano,

Un antro a Monterosi, e un antro aggnéde

A Nepi; e in ner viaggià, come succede,

Véddeno tutto er monno sano sano.                                8

 

Naturarmente, ar monno, oggni paese

Aveva la su’ lingua, chi spaggnola,

Chi ttodesca, chi russia, e cchi ffrancese.                        11

 

Eppuro quelli co una lingua sola

Se feceno capì da chi l’intese,

Che nun ze ne spregò mezza parola.                               14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

                                      Il viaggio degli apostoli

Una volta morto Gesù, figlio di Dio, da buon cristiano, ogni apostolo vivo, a piedi piano piano, si mise in giro a predicare la nuova fede con un sacco in collo e con un bastone in mano. Uno andò alla Storta, uno a Baccano, un altro a Monterosi (tutte località vicino Roma, sulla via Cassia), e un altro ancora a Nepi (cittadina tra la Cassia e la Flaminia, non lontano da Civitacastellana); e nel viaggiare, come succede, videro tutto il mondo nella sua interezza. Naturalmente, nel mondo, ogni paese aveva la sua lingua, chi spagnola, chi tedesca, chi russa, chi francese. Eppure, gli apostoli parlando una sola lingua si fecero capire da chi li ascoltò, e non si sprecò nemmeno mezza parola.

 

Le quartine.

Bisogna fare una premessa indispensabile. Leggiamo insieme le fonti evangeliche che hanno ispirato questa creazione belliana. Matteo, 28, 16-20: “Quanto agli undici discepoli, essi andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro designato. E vedutolo, l’adorarono; alcuni però dubitarono. E Gesù accostatosi, parlò loro, dicendo: Ogni podestà m’è stata data in cielo e sulla terra. Andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro d’osservar tutte quante le cose che v’ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente”. Scritto intorno all’80 d.C.

Marco, 16, 14-20: “Di poi, apparve agli undici, mentre erano a tavola; e li rimproverò della loro incredulità e durezza di cuore, perché non avean creduto a quelli che l’avean veduto risuscitato. E disse loro: Andate per tutto il mondo e predicate l’evangelo ad ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato. Or questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto: nel nome mio cacceranno i demoni; parleranno in lingue nuove; prenderanno in mano dei serpenti; e se pur bevessero alcunché di mortifero, non ne avranno alcun male; imporranno le mani agli infermi ed essi guariranno. Il Signor Gesù dunque, dopo aver loro parlato, fu assunto nel cielo, e sedette alla destra di Dio. E quelli se ne andarono a predicare da per tutto, operando il Signore con essi e confermando la Parola coi segni che l’accompagnavano”. Scritto intorno al 70 d.C.

Nel nostro sonetto il poeta assume le vesti di un buon frate che parla in modo semplice ai suoi fedeli. Noterete la battuta felicemente umoristica ma felicissima di Gesù che muore “da bon cristiano” (v. 1) e degli apostoli vivi che si mettono in cammino a piedi per il mondo, “cor zacco in collo e cor bastone in mano” (v. 4), senza ricchezze e senza solennità. Nella seconda quartina il mondo vasto e misterioso, percorso dagli apostoli, si riduce a poche località intorno a Roma, perché così più facilmente gli ascoltatori –che mai forse si sono allontanati dal loro piccolo villaggio- possono intendere “tutto er monno sano sano” (v. 8).

Le terzine.

Ora la narrazione evangelica sviluppata in terra di Palestina si fa per incanto contemporanea, comprensibile all’orizzonte ottocentesco dell’uditorio. Centrale è quel “Naturarmente ar monno” (inizio del v. 9) che introduce il concetto della varietà delle lingue europee, sviluppato nell’Eppuro (inizio del v. 12) di quegli apostoli che “co una lingua sola” si fecero capire da tutti. L’artigliata finale del nostro poeta, “che nun ze ne spregò mezza parola” (v. 14), è un inno alla concisione e alla chiarezza del dettato apostolico, in polemica con le sottigliezze astruse e capziose del successivo eloquio clericale. E’ da ammirare la capacità del Belli di plasmare il linguaggio, facendo di ogni parola un insostituibile complemento del racconto. E’ l’intreccio tra la vita quotidiana dei romani e i lampi della storia con la maiuscola: e questo regala una dolce, profonda leggerezza.

Il giorno dopo, il 29 maggio, Belli scrive questo altro sonetto:

 

                                     

Er Giudizzio in particolare

 

Mentre in ne l’angonìa tira er fiatone,

Se vede er peccatore accant’ar letto

Er diavolo a man dritta co un libbrone,

E l’angiolo a man manca co un libbretto.                      4

 

Nell’uno e l’antro sta ttutto er guazzetto

De le cose cattive e de le bone

C’abbi fatto in zu’ vita er poveretto:

Penzieri, parole, opere, e omissione.                               8

 

Lui se vorìa scusà, ma Iddio non usa

De sentì le raggione de chi more,

E lo manna a l’inferno a bocca chiusa.                           11

 

Cusì in terra er Vicario der Ziggnore

Fa co li vivi; e nun intenne scusa

Da gnisuno, ossii giusto o peccatore.

 

Secondo la dottrina cattolica, il giudizio particolare è quello che segue la morte, l’universale è quello che avverrà alla fine dei tempi.

Mentre –in uno stato d’agonia- il peccatore respira con affanno, vede accanto al suo letto il diavolo a destra con un librone e l’angelo a sinistra con un libretto. Nell’uno e nell’altro sta la mescolanza delle buone e delle cattive azioni che quel poveretto abbia fatto nella sua vita: pensieri, parole, opere e omissioni (queste sono parole del catechismo). Quello vorrebbe scusarsi, ma Dio non è abituato a sentire le ragioni di chi muore, e lo manda all’inferno con la bocca chiusa. Così in questa terra il Papa (Vicario di Cristo) fa con i vivi, e non intende scusa da nessuno, giusto o peccatore che sia.

Tutta questa descrizione della morte ricorda quella degli scrittori e predicatori controriformisti del Seicento.

 

                                                        Gennaro Cucciniello