Belli. Sonetti. “L’avaro”, 13 settembre 1835

Belli. Sonetti.  “L’avaro”, 13/09/1835

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

 

 

                    “L’avaro” (1)          13 settembre 1835

 

E’ ttant’avaro quer vecchio assassino

Che schiatterebbe pe nun dà una spilla,

E ppe nun spenne l’arma d’un quadrino

Nun ze farebbe dì mmezza diasilla.                                           4

 

La matina, in ner batte l’acciarino

Pe ppreparasse er tè de capomilla,

Pijja un pezzo de lesco piccinino

Piccinino ppiù assai de la favilla.                                      8

 

La bbarba se la fa ssenza sapone,

E ‘r zu’ rasore nu l’affila mai

Pe ppavura che vvadi in cunzunzione.                                      11

 

E ar tempo de li frutti fa er mistiere

D’ariccojje ossi, e cquanno sce n’ha assai

Ne va a vvenne le mmannole ar drughiere.                   14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

                                               L’avaro

 

E’ tanto avaro quel vecchio assassino che schiatterebbe pur di non dare una spilla, e per non spendere neppure un quattrino non si farebbe dire mezza Diessilla. La mattina, nello sfregare l’acciarino per accendere il fuoco e prepararsi il tè di camomilla, piglia un pezzo di esca piccolissimo, piccolissimo molto più della fiammella. La barba se la fa senza sapone, e non affila mai il suo rasoio per paura che vada in consunzione. E nella stagione della frutta fa il mestiere di raccogliere i noccioli dei frutti, e quando ce ne ha abbastanza va a vendere le mandorle al droghiere.

Viene presentato il protagonista con toni tanto grotteschi che lo deformano in caricatura. Il vizio è diventato patologia.

 

Otto giorni dopo, il 21 settembre, Belli scrive la continuazione:

 

                                               L’avaro (2)

 

Quer vecchio che vvenneva ar zor Balestra

Le mmànnole dell’ossi de li frutti

Pe ccrompacce li stinchi de presciutti

Da fà er brodo a un baiocco de minestra,                      4

 

Ha llassato morenno una canestra

De zecchini, pesati e ggiusti tutti,

Acciò er fijjo li sporveri e li bbutti

A bber commido suo da la finestra.                                  8

 

Lui defatti in teatri, in pupe, in gioco,

In leggni, in mode, in viaggi, e in maggnà e beve

N’ha sfranti ggià che jje ne resta poco.                                     11

 

La fine poi la sentirete in breve;

Perché cquello è ggruggnetto de dà ffoco

Inzinenta a li pozzi de la neve.                                           14

 

Quel vecchio, che vendeva al zor Balestra le mandorle degli ossi della frutta per comperarci gli stinchi dei prosciutti da fare un brodo pessimo, ha lasciato morendo una canestra di zecchini, tutti pesati e giusti, affinché il figlio li dissipi e li butti a suo bel comodo dalla finestra. Lui infatti in teatri, in femmine, nel gioco, in carrozze, in mode, in viaggi, e nel mangiare e bere, ne ha dispersi tanti che ormai gli resta ben poco. Il finale lo sentirete in breve: perché quello è una persona tanto imbecille, capace persino di dare fuoco ai pozzi di neve. (L’antitesi fuoco/neve, di lunga ascendenza letteraria, è passata ormai anche nella poesia popolare).

 

                                                                  Gennaro  Cucciniello