Belli. Sonetti. “L’ora della scuola”

Belli. Sonetti.  “L’ora della scuola”

 

La “Commedia romana” di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.

Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.

Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992; Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018

 

“Vent’ora e un quarto”  15 gennaio 1835

 

Sù, cciocchi, monci, mascine da mola:

Lesti, ché ggià è ffinita la campana.

Ch’edè? Vv’amanca una facciata sana?

E’ ppoco male: la farete a scòla.                                4

 

Via, sbrigamose, alò, cch’er tempo vola;

Mommò ddiluvia e la scòla è llontana.

Nun è vvaganza, nò: sta sittimana

Don Pio nun dà cc’una vaganza sola.                     8

 

Dico, eh, nun zeminamo cartolari:

Nun c’incantamo pe le strade: annamo

Sodi, e a scòla nun famo li somari.                           11

 

Scòla santa! E cchi è cche tt’ha inventato!

Quadrini bbenedetti ch’io ve chiamo!

Che rriposo de ddio! che ggran rifiato!                           14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                      Venti ore e un quarto

(A partire dall’avemaria del giorno precedente, a gennaio circa le 14,15: è l’ora dell’inizio delle lezioni nel pomeriggio).

 

Su, pigri, pigroni, immobili come pezzi di legno, pesanti macine da mulino: lesti, fate presto, perché già ha finito di suonare la campana della chiesa. Che è? Vi manca una facciata intera di quaderno da scrivere? Poco male: lo farete a scuola. Via, sbrighiamoci, andiamo, che il tempo vola; adesso sta per diluviare e la scuola è lontana. Oggi non è vacanza, no: questa settimana Don Pio (il maestro prete) dà una vacanza sola. Ripeto, eh, non seminiamo quaderni per la strada: non ci attardiamo trastullandoci: andiamo di buon ritmo, dritti e decisi e a scuola non facciamo gli asini. Scuola santa! Chi è che ti ha inventato! Soldi benedetti io vi definisco! Che riposo mandato da Dio! Che gran ristoro!

 

I primi 11 versi.

E’ una scena vivacissima: l’interno di una casa popolare, con una madre che rimprovera con energia i suoi figlioli. Ogni giorno è la stessa storia. I bambini sono pigri, stentano ad alzarsi e lavarsi, a fare colazione, c’è qualcuno che addirittura prova a buttar giù qualche pagina di scrittura perché non ha finito i compiti. Credono di poter lucrare un giorno di vacanza, fuori piove, è difficile farsi venire voglia di uscire. Ma la madre incalza con le sue raccomandazioni: per strada state attenti, non giocate, non buttate per terra i quaderni. E una volta a scuola, fate attenzione alla lezione, imparate, “nun famo li somari” (v. 11).

L’ultima terzina.

Ora la casa è silenziosa. La donna, dopo tanto strillare ed esortare, è stanca ma sollevata. Ringrazia il cielo per questa benedetta invenzione della scuola, che riesce a darle qualche ora di libertà e di pace.

Nella stessa giornata, 15 gennaio, Belli aveva scritto:

 

                                               La fiaccona

 

Tutacciaccia, lavora: e cento mila!

Fa che tte movi ppiù; core mio bello,

Che tt’acchiappo p’er ciuffo e tte sfraggello

Quer gropponaccio inzin che tte se sfila.                        4

 

Inzomma, un po’ la scusa de la pila

Che va de fora, un po’ questo e un po’ quello,

‘Gni tantino se pianta er filarello,

Se spasseggia pe casa, e nun ze fila.                                 8

 

Come jeri: finì un pennecchio solo,

E ttutt’er zanto giorno a la finestra

A ffà la ciovettaccia sur mazzolo.                                      11

 

Che gran rare bellezze da mostralle!

Vorìa che tte piovessi una canestra

De furmini e ssaette su le spalle.                                        14

 

Avere nausea di ogni fatica      (La sfaticata)

 

Gertrudaccia, lavora: è centomila volte che te lo dico! Datti più da fare; cuore mio bello, che ti afferro per i capelli finché ti si staccano e ti sfracasso quella maledetta schiena. Insomma, un po’ la scusa della pentola che trabocca, un po’ questo e un po’ quello, ogni tanto si abbandona l’arcolaio, si passeggia per casa, e non si fila. Come ieri: finì una sola quantità di lana avvolta intorno alla rocca, e tutto il santo giorno alla finestra a fare la civettaccia sulla gruccia. Che gran rare bellezze hai da mostrare! Vorrei che ti piovesse sulle spalle una canestrata di fulmini e saette.

 

Questa volta non è una mamma che manda i figli a scuola; è una mamma furibonda che impreca contro una figlia svogliata e che non sembra voler ubbidire alle ingiunzioni materne. La ragazza resta muta ma è chiaro che la casa-lavoro le sembra una prigione: si aggira pigra tra il filatoio e la cucina (“se passeggia pec casa”, v.8), cerca di pavoneggiarsi alla finestra, mentre rimbomba la voce esasperata e insultante della madre.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello