La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Tempo e natura. “La mammana in faccenne”, 31 gennaio 1837
E’ cosa nota che Belli, sperimentatore irrefrenabile in fatto di soluzioni linguistiche, andasse in giro per Roma munito di penna e foglietti, annotando con precisione di cronista esclamazioni, modi di dire, interi brani di dialoghi che sentiva dai suoi interlocutori popolari. E’ anche vero che il romanesco di allora non era una lingua molto omogenea. Per più ragioni. Nella prima metà dell’Ottocento l’antico dialetto romanesco –che era più simile al napoletano (come si può dedurre dalla trecentesca e bellissima “Vita di Cola di Rienzo”)- era quasi scomparso dalla città. Da una parte, infatti, il sacco dei lanzichenecchi del 1527 e le epidemie avevano quasi spopolato Roma dei suoi abitanti originari, dall’altra lo Stato Vaticano ha sempre avuto una classe dirigente non locale. I cardinali arrivavano qui dalla Lombardia, dall’Emilia come dalla Campania e dalla Sicilia. In particolare la Curia romana è stata soggetta a una forte toscanizzazione già dal ‘400, con il risultato che anche la borghesia aveva preso a sdegnare un dialetto col quale si esprimevano solo le classi popolari e che perciò immediatamente denunciava il basso livello sociale di chi lo parlava. Diventata la lingua dei miserabili e dei reietti (a differenza del milanese usato da Porta, che era parlato dal popolo ma anche dalla famiglia Manzoni), il dialetto romanesco acquista anche una sua grandiosa espressività, tragica e grottesca insieme: è un volgare duro, sguaiato, incazzoso e sfottente, la lingua del sesso, della violenza, della miseria estrema, dell’empietà, del ghigno beffardo e sarcastico con il quale l’oppresso reagisce ai soprusi.
A volte sembra che quei popolani non conoscano la differenza tra umano e disumano. Tutto ciò che accade confonde il loro agire con l’agire naturale degli elementi. La violenza di un temporale, il flagello del vento, l’implacabilità del sole, l’avarizia della terra, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non sono semplici dettagli atmosferici ma la culla di sordide e violente tragedie. A volte i personaggi non sanno neppure perché uccidono e se uccidono, a volte non ricordano neppure perché fuggono e da chi. C’è uno stordimento che confonde torti e colpe e allinea le loro azioni all’istinto degli animali braccati. E’ un’umanità minore e dannata che, inconsapevole, agisce fuori dalla storia. Non conoscono la trama della loro infelicità, non ne intuiscono le conseguenze: continuano a vivere dentro la sventura ignari del proprio destino. Ma così riescono ad assaporare anche tante gocce di breve contentezza.
“La coscienza che nulla può cambiare (nella mente del popolano le rovine della Roma antica testimoniano questo) accomuna tutti i personaggi. Allora unica difesa dei poveracci è il buon senso, la capacità di prendere la vita con filosofia; dalla descrizione di questo atteggiamento nascono parecchi sonetti nei quali donne e uomini, vecchi e disillusi, traggono le conclusioni della loro esperienza per trasmetterla a chi non sa ancora come vanno le cose del mondo. Sono questi i temi della meditazione sulla morte, sulla vecchiaia, sulla fugacità della bellezza, sull’illusorietà delle speranze in un domani migliore, risvolto amaro delle risate beffarde, degli insulti triviali e degli scherzi”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“La mammana in faccenne” 31 gennaio 1837
Chi ccercate, bber fijjo? –La mammana.
-Nun c’è: è ita a le Vergine a rriccojje.
-Dite, e quanto starà? perché a mi’ moje
je s’è rotta mo’ l’acqua giù in funtana. 4
-Uhm, fijo mio, quest’è ‘na sittimana
che je se sscioje a ttutte, je se scioje.
Tutte-quante in sti giorni hanno le doje:
la crasse arta, la bassa e la mezzana. 8
-E cche vor dì sta folla? – Fijo caro,
semo ar fin de novemmre; e carnovale
è venuto ar principio de frebbaro. 11
Le donne in zur calà la nona luna
doppo quer zanto tempo, o ben’ o male
qua d’oggni dua ne partorisce una. 14
“la levatrice affaccendata”
Chi cercate, bel figliolo? –La levatrice.- Non c’è: è andata in via delle Vergini, al convento delle monache, ad assistere una partoriente.- Dite, e quanto tempo starà via? Perché a mia moglie si sono appena rotte le acque (si allude alla perdita di liquido amniotico, che spesso precede le doglie). Uhm, figlio mio, questa è una settimana nella quale a tutte viene il prurito di fare la tale o tal’altra cosa (cioè, di partorire): a tutte, a qualsiasi classe sociale appartengano. E che vuol dire questa folla? Figlio caro, siamo alla fine di novembre; e carnevale c’è stato ai primi di febbraio. Le donne al calare della nona luna (dopo nove mesi), dopo quel santo periodo di bagordi, qua, o bene o male, partoriscono una su due.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
E’ la trascrizione fedele di uno scambio di battute: non c’è alcun commento o descrizione da parte dell’autore, tutto è affidato al dialogo tra i due interlocutori. Ma la straordinaria abilità di Belli nel dire molto con poche parole riesce comunque a produrre una grande quantità di effetti e di informazioni. Sul fatto specifico: una donna sta per partorire, il marito va in cerca della levatrice, quest’ultima è assente perché troppo impegnata. L’intonazione è lievemente comica: a parte la vivacità lessicale implicita nel dialetto, c’è un divertente contrasto tra l’ansiosa impazienza del futuro padre (v.3) e l’aria rassicurante e un po’ canzonatoria dell’altro personaggio, un vicino di casa della levatrice, evidentemente abituato a scene e richieste del genere. Lo scambio di battute sembra davvero un autentico frammento di conversazione registrato nei vicoli di Roma; il tono colloquiale nasce da una serie di espressioni e di costrutti sintattici tipici del parlato romanesco.
Efficacissima e davvero geniale è la trovata di far scomparire del tutto la levatrice. In teoria la mammana è la protagonista del sonetto; nella realtà non c’è, è completamente assente. E’ difficile pensare a una strategia narrativa che riesca a rendere in modo altrettanto efficace il suo essere sovraccarica di lavoro, per l’appunto in faccenne. Nessun pennacchio, nessuna belluria.
Non va trascurata, infine, l’informazione di carattere generale che il sonetto trasmette a noi lettori del XXI secolo: a novembre, a Roma, nascono molti bambini perché nove mesi prima c’è stato Carnevale, periodo in cui si hanno evidentemente molti rapporti sessuali, distribuiti equamente tra tutte le classi sociali, “la crasse arta, la bassa e la mezzana” (v. 8), curiosamente unite tutte e tre non solo dai costumi sessuali ma anche dall’assonanza in “a”.
Al tempo di Belli “il carnevale era il momento in cui la città tutta viveva un breve, entusiasmante e disperato attimo di follia atteso tutto l’anno, la festa dell’eccesso e della maschera, del disordine e della liberazione” (Teodonio).
Dieci giorni prima, il 20 gennaio 1837, Belli scrive proprio del Carnevale di quell’anno, proibito –a causa del colera- dalle autorità pontificie:
Er carnovale der 37 20 gennaio 1837
Oggi arfine per ordine papale
cor protesto e la scusa der collèra,
ma ppe un’antra raggione un po’ ppiù vera
er Governo ha inibbito er carnovale. 4
Dunque nun c’era d’arifrette ar male
de chi venne le maschere de cera?
Dunque nun c’era da penzà, nun c’era,
all’abbiti d’affitto, eh sor piviale? 8
E noantri che ffamo li confetti
e ttant’e ttanti che campeno un mese
cor trafico de lochi e moccoletti? 11
Ah! qui ppe lo scacarcio de sto santo
senza viggija né làmpene accese
Roma, pe dio, s’ha d’ariduce un pianto. 14
Oggi infine per ordine del papa col pretesto e la scusa del colera (in quell’anno l’epidemia mieté in città un numero altissimo di vittime), ma per un’altra ragione un po’ più vera (la paura del papa per i disordini politici), il Governo ha proibito i festeggiamenti del Carnevale. Dunque non c’era da riflettere al danno subìto da chi vende le maschere di cera? Dunque non si doveva pensare a chi affitta gli abiti per le mascherate, eh, Nostro Signore? E noi altri che facciamo i confetti (questi non sono, come si potrebbe facilmente pensare, i dolci ma sono i “confettacci”, pezzi di gesso che si usava lanciare durante le mascherate e i cortei), e tante altre persone che vivono un mese con l’affare dei posti a pagamento (per assistere alla festa sul Corso) e dei zoccoletti che si accendevano il Martedì grasso? Ah, qui per le paure di questo santo senza aureola, di questo re senza corona né lampade accese, Roma, per Dio, si deve ridurre a essere un pianto.
Gennaro Cucciniello