Blaise Pascal. Santa Ragione.

Blaise Pascal, Santa Ragione

Escono per la prima volta in italiano le Opere Complete del grande filosofo e scienziato francese. Un avversario dei Gesuiti che ora Bergoglio vorrebbe beatificare.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 27 novembre 2020, alle pp. 141-143, Marco Cicala scrive un articolo in occasione della pubblicazione per la prima volta in italiano delle “Opere complete” di Blaise Pascal. Ho spesso riflettuto su un pensiero pascaliano: “Questo è il nostro stato più vero, dal quale dipende il fatto che siamo incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e oscillanti, sospinti da un’estremità all’altra. Qualunque scoglio al quale pensiamo di attaccarci e di restare saldi, viene meno e ci abbandona, e se l’inseguiamo sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma”.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

Parigi, Rive gauche, 19 agosto 1662: Blaise Pascal muore nella notte a casa della sorella maggiore Gilberte. Ha trentanove anni. La stessa età a cui si fermarono Caravaggio, Leopardi, Chopin, Che Guevara. Ucciso presumibilmente da un tumore addominale, dopo una sequela di malattie, Pascal rende l’anima tra i conforti della religione. Ma le sue ultime parole sono un grido: “Che mai Dio mi abbandoni!”.

Nel 2017, quasi a rimuovere decrepite querelles, il gesuita Papa Bergoglio si era detto favorevole a un’eventuale beatificazione di Pascal, acuminato avversario dei gesuiti o quantomeno di certo gesuitismo seicentesco ritenuto degenere. Dopo quel vago nihil obstat pontificale, il dossier Pascal sembra però sparito dai radar. Se alla Congregazione per le Cause dei Santi ci stiano lavorando o meno non è dato sapere. Ma, religiosi o secolari che siano (ne esistono anche di laici, patriottici, civili), i processi di canonizzazione sempre  racchiudono un pericolo, che è quello di disincarnare l’uomo. Realizzando così un qualche imperscrutabile disegno –della Provvidenza o del Destino, dipende dai punti di vista- ma cancellando o minimizzando strappi e contraddizioni che sono il collante di una vita, fosse pure la più esemplare.

Bambino prodigio. Nel caso di Pascal –di cui escono adesso da Bompiani per la prima volta in italiano le Opere complete– la tentazione di ricomporre vita e opera in una specie di armonia prestabilita si fa particolarmente minacciosa. Innanzitutto perché Blaise fu, come si sa, un enfant prodige, e nella tradizione cristiano-occidentale il genio precoce assume immediatamente i tratti del profeta nato, del divino fanciullo che rivelerà al mondo cose inaudite. Poco importa se soavi o terribili: comunque strabilianti. A undici anni, pranzando, Pascal nota che, urtato da una posata, un piatto di porcellana emette un rumore che cessa appena ci posi sopra la mano. Risultato: l’adolescente redigerà in breve un Trattato sui suoni andato purtroppo perduto. Più tardi lo sorprendono a dimostrare da solo i teoremi di Euclide. Blaise è di quei ragazzini che martellano gli adulti chiedendo senza requie il perché di questo e di quello. Se la risposta è approssimativa o criptica, vedono arricciarsi sul suo volto una smorfia contrariata, diffidente, delusa. Tanto la curiosità quanto lo spontaneo scetticismo del rampollo verso tutto ciò che non gli appare evidente convincono il padre Etienne, magistrato, che suo figlio è un fuoriclasse. Un superdotato al quale andrà evitata un’educazione canonica che rischierebbe di corromperne gli innati talenti. Perciò, rimasto presto vedovo con altre due figlie a carico, Monsieur Pascal opta per un’istruzione casalinga, senza precettori né intrusioni didattiche esterne, che sarà egli stesso a impartire al ragazzo.

Pascal “cerca la verità sempre e in tutte le cose”, scrive nell’introduzione alle 3133 pagine dell’opera completa la curatrice e specialista Maria Vita Romeo. Ricordando come nella sua parabola filosofia, scienza, religione, vita mondana teoretica e devota si fondano nella corrente di una ripida impresa esistenziale e conoscitiva. Se a tre secoli e mezzo di distanza il pensiero di Pascal resta cosa viva è perché ancora frigge, scotta, trascina, non rassicura. Oltre che del divino, ci parla di noia, angoscia, terrore del nulla. Al solito, nessuno l’ha detto meglio di Baudelaire: “Pascal avait son gouffre, avec lui se mouvant, Pascal era un abisso ambulante”. Ma anche questa immagine del titanico ingegno lacerato andrebbe tenuta sotto controllo, perché tende a fossilizzare l’uomo in un santino martirologico o romantico.

Si è molto speculato sul cosiddetto Pascal mondano, cioè sugli anni che precedono la famosa conversione, la gioiosa e drammatica scoperta di Dio, avvenuta –è lui stesso a precisarlo- tra le dieci di sera e la mezzanotte del 23 novembre 1654. Fino ad allora, pur immerso nella sensibilità religiosa che gli deriva dall’ambiente familiare, Blaise ha viaggiato per la Francia, eseguito esperimenti scientifici in pubblico, brevettato e venduto le macchine calcolatrici di sua invenzione. Nonostante i malanni, ha pubblicato saggi, battagliato e conversato nei salotti. Se non altro per studiarli, ha frequentato libertini, non nel senso di debosciati bensì di atei. Ha investito soldi nell’immobiliare, in piani di bonifiche e canalizzazioni idriche. Ha bisticciato sulla ripartizione dell’eredità paterna con l’adorata sorella minore Jacqueline che, facendosi monaca, vorrebbe donare in blocco la sua dote al convento di Port-Royal.

Ma nemmeno la conversione farà di Pascal un eremita. Dopo quella notte fatale lo vediamo lanciarsi in un pioneristico progetto di trasporti pubblici a Parigi tramite carrozze. E soprattutto gettarsi nella saga polemica delle “Provinciali”: diciotto lettere e mezza (l’ultima rimase incompiuta) contro il “lassismo” teologico-morale della potente Compagnia di Gesù. Tra il 1656 e il ’57 Pascal fa uscire le missive al ritmo di una o due al mese, come un pamphlet in forma di feuilleton, ottenendo fragoroso successo, raggiungendo tirature record e finendo all’Indice. Per lingua e stile, “Les Provinciales” sono ormai annoverate tra i capolavori letterari del Grand Siècle. Ma Blaise non coltiva la religione della letteratura, coltiva la religione della religione. Per lui la scrittura non è fine ma mezzo, strumento militante nelle dispute di fede. Con toni che alternano l’indignazione all’ironia, il complottismo (i gesuiti vorrebbero dominare il mondo) a un sarcasmo affilato, nelle lettere esplode il Moi, il prorompente Ego pascaliano. Blaise sa di essere una mente fuori dal comune, e la sua lotta contro la hybris, l’arroganza di una Ragione che vorrebbe spiegare tutto, esistenza di Dio compresa, ma riesce a malapena a giustificare se stessa, può anche essere vista come una strategia di contenimento del proprio orgoglio personale; antidoto a un complesso di superiorità sempre strisciante.

Un’indole da duellante. In tempi di lockdown si torna a citare spesso, e a sproposito, la frase di Pascal secondo cui “tutta l’infelicità degli uomini deriva dal non saper stare tranquilli (demeurer en repos) in una stanza”. Virata a oggi a difesa del confinamento e dei suoi presunti benefici spirituali (quelli sanitari li diamo per scontati), la “massima” è normalmente considerata una sorta di slogan riassuntivo dell’ultimo Pascal e del suo rigorismo. Ma se è vero che quella stanza fa subito pensare alla cella monastica di un uomo che avvicinandosi alla morte si ritrae dal mondo consegnandosi a carità e penitenza, è altrettanto vero che se quello stesso uomo ha vivisezionato le umane passioni, chimere, distrazioni (il “divertissement”) con ineguagliato acume è perché non è rimasto a contemplarle da moralista-spettatore, ma le ha vissute, ci è affondato dentro fino a lasciarsene tentare. Benché non sia sfuggito neanche lui al gossip (scritti d’intento denigratorio gli hanno attribuito flirt e addirittura un figlio segreto), il Blaise mondano non è un gaudente –ruolo nel quale, del resto, fatichiamo parecchio a immaginarlo. Però il suo sguardo radiografico sul mondo è il frutto delle sue esperienze nel mondo. La stessa, celeberrima riflessione sulla fede come scommessa scaturisce dall’osservazione della realtà profana: dallo studio del gioco d’azzardo sui tavoli dei libertini.

Pascal non si è mai accontentato di inseguire la verità in libri e teorie, ma è andato sempre a cercarla fuori dalla stanza: nella natura come tra gli uomini. Malgrado la sua conversione abbia molto dell’esperienza mistica, non fu un mistico. Tanto per l’indole da panflettista, da duellante, quanto perché –in linea con i giansenisti di Port-Royal- fiutava nell’esaltazione mistica il pericolo di un accecamento tra i più perniciosi: quello dell’uomo che, ritenendo di potersi elevare fino a Dio, si auto- divinizza tradendo così la verità della propria condizione terrena. Che è miserrima, folle, mostruosa, sbarrata ovunque da limiti; alla fine riscattabile solo con le ragioni dell’amore e del cuore: non alati sentimenti, ma appunto ragioni, che umiliando la protervia dell’intelletto ne marcano l’impotenza, le frontiere. E dentro quei confini lo liberano dai suoi deliri di onnipotenza. Pascal identifica la Raison –della quale è un peso massimo- con la finitezza dell’essere umano, con la sua mortalità. Nessuno sa meglio di lui che, per sua stessa natura, la Ragione è condannata alla mitomania, continuamente spinta ad auto superarsi fino a prendersi per ciò che non è. Questo la rende un’avventura appassionante. Ma un crepaccio separerà sempre quanto è evidente da quanto è vero. Tra il rigore della certezza e il calore della verità intercorre un po’ la stessa differenza che tra il vincere e il convincere. Per vincere la Ragione basta a se stessa. Per (sperare di) convincere la fede deve invece ricorrere ad altri canali: contaminare la Ragione con la ragionevolezza del cuore. Per Pascal, credente torturato, la razionalità non porta a Dio, ma la fede non può prescinderne.

Appunti febbrili. In buona parte, gli scritti pascaliani sono un’opera postuma, raccolta e riaggiustata dagli accoliti a uso dei devoti, poi restituita all’autenticità originaria dopo un complicato lavoro filologico durato secoli. Letti ormai comunemente come aforismi –tipo quelli di Nietzsche o Karl Kraus- i suoi “Pensieri” sono in realtà tutt’altra cosa. Sono una massa di appunti (tra i 500 e i 1400, a seconda delle varie riorganizzazioni postume) che costituivano i materiali preparatori di un progetto incompiuto. Una monumentale “Apologia” della religione cristiana di cui Pascal rese edotti i suoi ammiratori presentandone il piano in una conferenza del 1658, ma che sarebbe rimasta allo stato di –seppur gigantesco- abbozzo. Ritrovati dopo la morte sotto forma di note suddivise in fascicoli, “Les Pensées” non erano qundi concepiti come massime a sé stanti, ma come mattoni di un magnum opus. Perciò fra gli esegeti rimangono terreno litigioso. C’è chi sostiene, ad esempio, che alcuni tra i pensieri più celebri (da “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” a “Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi atterrisce”) non siano attribuibili a Pascal. E non perché non li abbia scritti lui, ma perché nelle sue intenzioni avrebbero dovuto essere frasi pronunciate da personaggi, da antagonisti dell’autore in dialoghi teologico-filosofici che il prospetto della grande “Apologie” prevedeva.

Ma al di là dei cavilli eruditi, la domanda è sempre la stessa: che valore va riconosciuto a un abbozzo, a un frammento, a un inedito? Se, come raccontano, il Pascal che lavora all’Apologia è un grafomane febbrile, uno che sentendo avvicinarsi la fine appunta su fogli e foglietti riflessioni a lungo rimuginate ma ora accelerate dalla tachicardia dell’urgenza, quanti tra quei pensieri lo rappresentano davvero? Magari se fossero giunti a noi incorporati dentro un’opera conclusa, sarebbero stati formulati in altro modo, trasmettendo significati diversi, vuoi addirittura opposti a quelli che ora gli annettiamo. Forse l’esprit de système ne avrebbe smorzato se non cancellato molta della bellezza. La sfingea bellezza di tutto ciò che è classico, ossia eternamente inquieto.

 

                                                        Marco Cicala