Caravaggio. Roma. San Luigi dei Francesi. Cappella Contarelli. “San Matteo e l’angelo”. 1599-1600.
La committenza.
Non ripeto qui le notazioni riportate nell’articolo sulla “Vocazione di Matteo”, già postato nel Sito, categoria Letture di arte. Aggiungo le indicazioni precise lasciate dal card. Contarelli anche a proposito di questa ultima tela: “Matteo seduto con un libro o volume, intento a comporre il vangelo, et a canto a lui l’angelo in piedi, maggior del naturale, in atto che paia di ragionare o in altra attitudine”.
Descrizione dell’opera. Prima versione.
La prima versione sarà rifiutata dalla congregazione del clero della chiesa. In primo piano c’è l’apostolo Matteo nell’atto di scrivere il Vangelo mentre riceve diretta ispirazione da un angelo apparso alle sue spalle. Il santo non è raffigurato nei panni di un dotto ma di un popolano semianalfabeta, e l’angelo guida la sua mano nella materiale redazione del codice. L’opera aveva avuto un immediato impatto emozionale per larghe fasce di spettatori e non rispondeva assolutamente ai principi di decoro ai quali le storie sacre dovevano conformarsi. Dopo il rifiuto la tela fu immediatamente acquistata da Vincenzo Giustiniani. Poi passò, molto tempo dopo e per vie traverse, al Museo di Berlino e fu malauguratamente distrutta da un bombardamento nel 1945 negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale.
Nel 1672 il Bellori scriverà che “il quadro, pagato 150 scudi, fu tolto via dai preti con dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di santo, stando a sedere con le gambe incavalcate et co’ piedi rozzamente esposti al popolo”. La frase del Bellori, per spiegare il rifiuto, è indicativa: Matteo non aveva aspetto di santo, non era abbellito, non aveva decoro contegno atteggiamento devozionale, era addirittura volgare mostrando in primo piano i grossi piedi nudi ed appariva un povero vecchio rozzo e analfabeta, al quale l’angelo doveva guidare la mano nella faticosa scrittura del vangelo. Il contrasto tra il santo, figura terrestre al massimo, e l’angelo, dolcemente manieristico nello stile, assume un significato ideologico. Matteo è un uomo come Caravaggio ne vede e frequenta per le vie e le osterie di Roma mentre l’angelo, femmineo, gli si mette a fianco e fa scivolare il suo bel braccio a guidare la grossa mano contadina, che sembra non quella di uno che non sappia cosa scrivere, ma di un vero analfabeta. Da questo contrasto di dichiarazioni, terrestre e celeste, da questo allacciarsi e intersecarsi di forme eterogenee, nasce un’ambigua violenza, un fascino nuovo.
In questo testo, sottolineano concordemente i critici, c’è grande ricchezza di riferimenti culturali, un rapporto in tensione tra tradizione e ribellione: la testa del santo è ispirata a busti antichi di Socrate, l’atteggiamento con le gambe accavallate (oggetto di tanto scandalo) deriva da una figura di Raffaello nella loggia della Farnesina a Roma, ma ricorda anche il Matteo dipinto dal Romanino a Brescia. La plastica figura del santo suggerisce reminiscenze del Savoldo e del Moretto, la bianca chiarità dell’angelo rimanda al Lotto. Ma proprio qui sta la novità e l’importanza della composizione che rifiuta la tradizionale identificazione di bello con buono, di brutto con cattivo. Anzi è probabile che spunti in questo Caravaggio un atteggiamento lombardo venato di luteranesimo: la grazia di Dio può toccare chiunque, non solo il meritevole (ricordate, nel Martirio, il fascio di luce che colpisce –insieme- il santo riverso e il carnefice nell’atto di colpire?). Nessuno può pretendere la salvezza in cambio delle opere compiute, come uno scambio di merci, o peggio, con delle indulgenze comprate; Dio solo, a giudizio del pittore, può salvare o condannare. L’esattore delle tasse, ritenuto infame dagli ebrei perché collaboratore dei conquistatori romani, è santificato dalla fede nella chiamata di Gesù; è la fede (l’angelo) che gli permette di scrivere il vangelo, testimoniando la venuta in terra del Redentore. Tutto questo è espresso benissimo dalla figurazione aerea dell’angelo luminosissimo, a contrasto con la greve e pesante struttura fisica di Matteo, l’uno e l’altro fermati dalla luce contro il fondo scuro. L’ideale dunque non spinge a superare ma ad entrare più profondamente nella realtà, a capire più duramente i suoi contrasti: l’ombra e la luce, il vecchio apostolo analfabeta e l’angelo giovanetto che gli guida la mano; i grossi piedi terrosi in primo piano e le ali luminose nel fondo.
Seconda versione.
Il pittore risolve in un impianto compositivo molto originale il rapporto tra il santo –colto in un atteggiamento dinamico- e l’angelo splendente che cala dall’alto e gli detta la genealogia di Cristo con la quale ha inizio il suo vangelo. Questa volta le due figure, di Matteo e dell’angelo, sono collocate lungo un piano rialzato alla base della composizione il cui volume è percettibile solo perché lo sgabello traballante su cui il vecchio poggia il ginocchio è in bilico di traverso, rivolto verso l’esterno. Il santo non è più un contadino, ma una figura ammantata dalla saggezza dell’età e l’angelo giunge in volo dall’alto, si ferma e il gesto delle sue dita suggerisce che sta spiegando con precise argomentazioni il vangelo. Lo sgabello e il tavolo su cui poggia l’apostolo sono decisamente rustici: sembrano ricordare il mobilio modesto di un ufficio piuttosto che lo scrittoio di un dotto, alludendo così alla precedente attività di Matteo esattore delle imposte. Nella ricercatezza quasi manierista delle due figure io comunque avverto una minore efficacia drammatica, da parte del messaggero, nella comunicazione all’apostolo della parola di Dio.
Gennaro Cucciniello