Cenerentola, Biancaneve: ogni cultura ha le sue.

Cenerentola, Biancaneve: ogni cultura ha le sue.

Lo spiega un libro che fa il giro del mondo delle fiabe.

 

Questo articolo di Marino Niola è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 3 marzo 2023, alle pp. 91-93.

 

Le fiabe servono per insegnare agli esseri sensibili a dubitare di quella che chiamiamo realtà e ad augurarsi che sia falsa. Servono cioè a vedere l’invisibile e a sperare l’insperabile. Se la pensate così avete trovato il libro che fa al caso vostro. Si intitola “I raccontastorie”, lo ha scritto Nicholas Jubber e lo pubblica Bompiani nella traduzione di Andrea Asioli.

L’autore ha viaggiato il mondo in lungo e in largo. Dall’Oriente all’Africa, dall’Asia centrale all’Europa. Lungo la strada ha fatto l’insegnante, il pulitore di tappeti e il conciatore di pelli. Ma a dispetto delle sue peregrinazioni, non è uno scrittore di viaggio. Intanto perché i viaggi che racconta non sono suoi. Ma sono quelli delle fiabe di tutti i continenti. Di cui Jubber ricostruisce percorsi, scambi, contaminazioni, trasformazioni, attualizzazioni. In realtà la tesi del libro è che le fiabe costituiscano una rete di narrazioni fitta e interconnessa. Come dire che una Cenerentola, una Bella Addormentata, una Prezzemolina, un Alì Babà esistono dovunque, ma in ogni luogo assumono una veste locale. Cambiano i nomi dei personaggi, le loro fattezze, il loro modo di esprimersi, ma non il loro identikit profondo. Perché la trama e la struttura narrativa si assomigliano in maniera impressionante. Insomma, la storia è sempre la stessa e sempre diversa. Come diceva Italo Calvino, le fiabe nella loro “sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane” sono una spiegazione generale della vita.

E forse non è un caso che le grandi protagoniste di questi racconti che incantano i bambini e reincantano gli adulti sensibili come Jubber siano proprio le fate, che il destino lo portano scritto nel nome. La parola fata, infatti, è il plurale del latino fatum, cioè la sorte. E visto che le fiabe sono un catalogo generale dei destini, è quasi scontato che queste signore generose e permalose, capricciose e vanitose ne siano le prime attrici. Al punto che il nome francese della fiaba è conte de fées, e quello inglese fairy tale, che significano entrambi racconto di fate. Insomma, no fata no fiaba.

Mille e più notti.

Altre lingue, invece, danno a questi racconti nomi che esplorano diversi sentieri dell’immaginazione. I danesi, che hanno dalla loro un pezzo da novanta della fiabistica come Hans Christian Andersen, usano il termine eventyr, parente stretto dell’inglese adventure, avventura. Gli arabi, che hanno donato al mondo un capolavoro come le “Mille e una notte”, adoperano l’espressione “hikayak al-khayaliyeh, vale a dire racconti fantastici, per sottolinearne il ruolo della magia. Mentre i tedeschi li chiamano Marchen, cioè storielle. Da cui il titolo del bestseller assoluto del genere fiabesco, le Kinder und Hausmarchen (Fiabe del focolare) dei fratelli Jacob Ludwig e Wilhelm Karl Grimm. Che nel 1812 danno il via a quella sagra di streghe, fatine, orchi, elfi, goblin, troll e lupi destinata a viralizzare l’immaginario infantile e non solo. Al punto da diventare essi stessi delle icone dello star system contemporaneo. Grazie anche all’incantevole fantasy di Terry Gilliam, “I fratelli Grimm”, in cui Jacob e Wilhelm, interpretati rispettivamente da Heath Ledger e Matt Damon, devono vedersela con la perfida Regina, alias Monica Bellucci, che si mantiene giovane bevendo sangue di ragazzini.

Ma non tutto quello che è uscito dalla penna dei fratelli germanici è farina del loro sacco. Cenerentola e la Bella Addormentata nel bosco compaiono ben due secoli prima nel “Cunto de li cunti”, il Racconto dei racconti del napoletano Giambattista Basile, conosciuto anche come “Pentamerone”, perché le storie sono divise in cinque giornate. Ed è proprio con una zoomata su questo scrittore funambolico e immaginifico che inizia il viaggio di Jubber alla ricerca degli autori delle fiabe. O meglio, di quelli che le hanno scritte, raccolte, trascritte dando forma letteraria a un patrimonio di narrazioni trasmesse oralmente.

Per cominciare l’autore si cala nel crogiuolo linguistico e umano da cui prende forma il Cunto. E cioè il paesaggio teatralissimo e concitatissimo della Napoli barocca, lo stesso in cui Caravaggio dipinge le Sette opere di misericordia. Basile trasferisce sulla pagina gli umori vitali e crudeli di quella città-mondo popolata di principesse e di orchi, di lazzaroni e di serve astutissime. Il libro è scritto in un napoletano barocco e sontuoso che riproduce le cadenze e i ritmi della parlata di strada. E l’umanità che popola i racconti è un catalogo di destini in mutazione. Dove la magia riveste fantasticamente qualcosa che nella realtà storica e sociale si sta producendo per davvero. Le donne di Basile sono artefici della loro fortuna e sfortuna. Come Zoza, la principessa che non ride mai e che rovescia con pazienza e intraprendenza una sorte che la vede perdente. O come Porziella, protagonista del racconto La pulce, che osa ribellarsi a un padre padrone. O ancora come Cenerentola, che sia pur con l’aiuto dei due topolini magici, riesce a far girare a suo favore la ruota del destino.

Queste figure femminili sono in anticipo sul loro tempo e perfino su quello futuro. Perché vanno controcorrente rispetto alla successiva tradizione fiabesca, con la sua prevalenza di dolci e docili principessine. Tanto che Jubber arriva a dire che la storia della fiaba non sarebbe la stessa se a dominarla “fossero state le eroine di Giambattista –contestatrici, furbe soggiogatrici, urlatrici, interruttrici- e non, invece, le bambole di carta più tardi uscite dalla penna di autori quali Charles Perrault e i fratelli Grimm”.

La sirenetta di Posillipo.

In questo femminismo fiabesco, l’autore vede inoltre l’influenza di figure come la bella Adriana, sorella di Basile, vera star del teatro seicentesco, musa ispiratrice di poeti, nonché amante di re e potenti. La sirena di Posillipo, come la chiamavano, fu la potente promoter di suo fratello e la grande artefice dei suoi successi. Il viceré di Spagna gli diede un’importante carica politica solo per far contenta l’irresistibile ma poco casta diva.

Dalla sirena di Posillipo alla Sirenetta di Copenaghen il passo è breve, anzi brevissimo. Visto che Andersen, altri autore cui Jubber dedica un cammeo, passò un lungo periodo a Napoli. In realtà, il racconto di Andersen, in questo abissalmente distante dalla versione edulcorata e ottimistica che ne ha dato il film di Disney, sostiene che non si può andare al di là dei confini imposti dal proprio ruolo e dalla propria natura. Chi è diverso, come la Sirenetta, è destinato all’infelicità. Non c’è spazio per il lieto fine. Il principe sposa la principessa, una sua pari. E nemmeno si accorge dell’amore infinito e altruistico della creatura marina. Che per lui è disposta a rinunciare perfino alla sua voce. Un sacrificio supremo per un essere fatto di canto come una sirena. Ma di tutto questo l’ottuso ed egocentrico maschietto di sangue blu nemmeno si accorge.

Se l’infelice Ariel (questo il nome della sirenetta nel cartoon) fosse andata a scuola dalla sirena di Posillipo, che a cantare non avrebbe rinunciato per niente e per nessuno, forse la fiaba avrebbe avuto un finale diverso. E ai bambini avrebbe regalato un po’ di speranza. In ogni caso, a Napoli lo scrittore danese il fascino di una sirena l’aveva subìto eccome. Si trattava di Partenope, la fondatrice mitica di Napoli. Non a caso scrisse la sua fiaba subito dopo il soggiorno partenopeo.

Belle e bestie.

Ogni cultura costruisce le sue immagini fiabesche a propria immagine e somiglianza. Ci si riflette come in uno specchio fantastico, deformante, qualche volta rovesciato, ma inesorabilmente fedele. E’ questa la morale della favola narrata da Jubber, che a suo modo scrive una fiaba delle fiabe, dopo aver viaggiato in compagnia di scrittori che agli orchi e alle fate, alle principesse e agli animali parlanti davano del tu. Come Hanna Diyab, lo scrittore siriano cui si devono le versioni più note di Aladino e di Alì Babà. O come l’aristocratica settecentesca Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, autrice di “La Bella e la Bestia”. Ma la schiera di scrittori visitati da Jubber comprende anche Battha Somadeva, che intorno all’anno Mille scrive il “Kathasaritsagara”, cioè “L’oceano dei fiumi dei racconti”, un monumento della fiabistica indiana. Nonché Marie-Catherine, baronessa d’Aulnoy, autrice di “Il principe ranocchio”, paradigma delle fiabe di trasformazione, dove basta un bacio a rivelare la bellezza che si nasconde sotto le apparenze.

In realtà le fiabe nel loro insieme formano una rete fatta di analogie e differenze, somiglianze e ricorrenze. Cambiano i tempi e le culture, ma ci sono elementi che non possono mancare. La magia, che rende naturale il soprannaturale e fa sembrare possibile l’impossibile. L’oralità, cioè il mormorio ininterrotto, il passaparola millenario che ha fatto arrivare queste storie fino a noi. E infine, lo stupore infantile. Che non ha nulla a che fare con l’infanzia anagrafica, ma con una primavera dell’anima. Il risultato è una bellezza visibile solo a chi sia capace di vedere ciò che non si vede e di non vedere ciò che si vede.

 

                                                                  Marino Niola