Che cosa vuole davvero dire la parola “immunità”
Roberto Esposito, in un suo articolo pubblicato nella “Repubblica” di domenica 24 maggio 2020, a pag. 33, commenta l’uscita alla stampa del suo libro “Immunitas”, Einaudi, pp. 184, euro 21.
Dall’inizio della pandemia del Covid-19 non si parla d’altro. Immunità personale o di gregge, naturale o indotta, temporanea o definitiva. Si aspettano test di massa per sapere se si è stati già immunizzati dal virus. Ci si chiede se il sangue di coloro che sono guariti possa essere iniettato nei malati per immunizzarli a loro volta. Si aspetta di vedere, in chi è guarito, quanto duri la sua immunità –augurandosi che duri per sempre.
Ma l’immunizzazione non riguarda solo la sfera medica. Tocca anche quella sociale e politica. Cosa sono chiusura, confinamento, distanziamento, se non dispositivi immunitari trasferiti dal corpo dell’individuo a quello della società? E la mascherina non è la metafora, incollata sul volto di tutti, dell’esigenza di immunità? Perfino l’app che molti aspettano, e che qualcuno teme, si chiama “Immuni”. Cosa è, da dove nasce, dove ci sta portando questa sindrome immunitaria che sembra unificare tutti i linguaggi del nostro tempo?
Per rispondere a tali domande bisogna arretrare lo sguardo a qualcosa che ci precede di molto, segnando profondamente quella che siamo abituati a chiamare modernità. Che può anche essere intesa come un lungo processo di immunizzazione dai conflitti e dai pericoli che caratterizzavano le comunità precedenti. Se si presta attenzione all’etimologia latina della parola, del resto, ci si accorge che immunitas è il contrario di communitas. Entrambe derivano dal termine munus, che significa ufficio, obbligo, dono nei confronti degli altri. Ma mentre i membri della communitas sono uniti da questo vincolo di donazione reciproca, chi è immune ne è esonerato. E dunque protetto dal rischio che ogni relazione sociale comporta nei confronti dell’identità personale. E’ così sul piano giuridico-politico, in cui l’immunità diplomatica o parlamentare esautora dagli obblighi della legge comune. Ed è così sul piano medico-biologico, in cui l’immunizzazione, naturale o acquisita, protegge dal rischio di contrarre la malattia. A un certo punto questa esigenza protettiva –che ha al centro la conservazione della vita- si generalizza a tutto il corpo sociale. Lo stesso Stato, come il sistema giuridico, sono dei grandi apparati di immunizzazione dai conflitti che minacciano l’esistenza della comunità.
Questa esigenza è dunque tutt’altro che recente. Ciò non toglie che si sia fatta sempre più urgente, per toccare l’apice nel nostro tempo. Globalizzazione, immigrazione, terrorismo –eventi molto diversi tra loro- potenziano al massimo l’ansia di immunizzazione delle società contemporanee, modificando alla radice i nostri comportamenti. Si pensi, per passare a un altro ambito, agli ingenti, e spesso inutili, sforzi volti a proteggere i sistemi informatici dai virus che li insidiano. O anche alle compagnie di assicurazione, che da sempre lavorano sull’immunizzazione dal rischio. Naturalmente la pandemia porta all’estremo questo bisogno immunitario, facendone l’epicentro reale e simbolico della nostra esperienza.
Mai come oggi –sotto l’attacco del coronovirus- il paradigma immunitario è divenuto la chiave di volta del sistema, il perno intorno al quale sembra ruotare l’intera esistenza. Da qualsiasi lato –biologico, sociale, politico- si interroghi la nostra vita, l’imperativo resta lo stesso: prevenire il contagio ovunque si annidi. Naturalmente si tratta di un’esigenza reale.
Mai come oggi –in attesa del vaccino, cioè di un’immunità indotta- l’immunizzazione per distanziamento è l’unica linea di resistenza dietro alla quale ci si può, e ci si deve, asserragliare. Almeno fino a quando la minaccia non si allenti. Come nessun corpo individuale, così nessun corpo sociale potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario. Ma non va ignorato il punto limite oltre il quale questo meccanismo può funzionare senza produrre guasti irreparabili. Non solo sul piano economico. Ma su quello antropologico.
L’immunità è una protezione, ma una protezione negativa – che ci allontana dal male maggiore attraverso un male minore. La stessa vaccinazione –speriamo arrivi al più presto- protegge immettendo nel nostro corpo un frammento, controllato e sostenibile, del male da cui ci si vuole difendere. Del resto il termine greco farmaco significa al contempo medicina e veleno. Ciò vale anche sul piano sociale. Tutto sta a rispettare le proporzioni – il delicato equilibrio tra comunità e immunità. La chiusura è necessaria. Ma fino al punto in cui la negazione non prevalga sulla protezione, minando lo stesso corpo che dovrebbe difendere. E’ quanto accade nelle malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario cresce al punto di autodistruggersi.
Attenzione – questa soglia potrebbe non essere lontana. Oggi, sotto la pressione del virus, l’unico modo per le nostre società di salvarsi passa per la de-socializzazione. E anche per il sacrificio di alcune libertà personali. Ma fino a quando ciò è possibile senza smarrire il significato più intenso della nostra esistenza, che è la vita di relazione? La stessa immunità che serve a salvare la vita potrebbe svuotarla di senso, sacrificando alla sopravvivenza ogni forma di vita.
Roberto Esposito