Che terribile umanità al banchetto di Erode
Donatello, “Il banchetto di Erode”, rilievo bronzeo
Siena, Battistero di San Giovanni, Fonte battesimale, 1423-1427
Dice la Bibbia che in sei giorni Dio creò il mondo, e fu nel sesto che fece l’uomo vivente. Per questo molti battisteri hanno sei lati: perché è dalla loro acqua che l’uomo rinasce. Ebbene, la vasca esagonale di quello di Siena è ornata di rilievi di bronzo così belli da far pensare che le creazioni dell’uomo non sono meno grandi di quelle di Dio stesso. L’artista, si diceva nel Rinascimento, è un alter Deus: un secondo Dio creatore, capace di proseguire per sempre l’opera di quei fatali sei giorni. Difficile pensare che si tratti di un’esagerazione, quando si guardano quei bronzi senesi, che raccontano le storie di Giovanni il Battista. Prendiamone uno: il banchetto d’Erode, di Donatello.
Siamo in un palazzo antico, un sontuoso palazzo reale. La scena si apre sulla sala da pranzo, gremita di personaggi: ma non è lì che inizia la storia. Una specie di cannocchiale prospettico permette di guardare anche oltre, nelle viscere del palazzo: tre arcate aprono su un’altra sala, dove si fa musica. E dietro ancora c’è un lungo corridoio, dove un gruppo di donne accoglie con incredulità un servitore che porta su un vassoio, terribile trofeo, una testa mozzata.
Insieme a Pippo Brunelleschi, Donatello aveva scoperto il segreto della prospettiva, diventando il signore dello spazio. Quei paletti di legno piantati nei pilastri, e che sembrano saltar fuori dal rilievo quasi volessero conficcarsi nella nostra vista, ci dicono con forza: questo spazio esiste, è credibile, è abitabile.
Non contento, Donatello usa lo spazio per dominare il tempo, e ci racconta una storia in tre episodi: al centro Salomè danza per il re Eriode, e sua madre Erodiade ottiene dal monarca un premio terribile, la testa del fastidioso Giovanni, predicatore controcorrente; in fondo, ecco la testa che incede verso la sala; e in primo piano ecco invece il momento fatale: quello in cui la testa arriva sul tavolo del re.
Da quella testa parte un’onda di orrore che sferza tutti i personaggi: un’idea di cui Leonardo si ricorderà nella sua Cena milanese. Un cortigiano si copre gli occhi, gli altri arretrano, ammassandosi alla nostra destra. Lo stesso Erode apre le braccia in un gesto d’orrore, pietrificato dalla sua stessa scelta: debole e succube sovrano, degno di un dramma di Shakespeare. Solo Erodiade appare sicura di sé, una mano poggiata sul tavolo, l’altra tesa a dominare Erode: è lei l’unica figura disumana in questa tempesta di terribile umanità.
Tomaso Montanari
(articolo pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 7 luglio 2017)
Fin qui le note attente di Montanari. Io aggiungerei qualche altra sottolineatura. Donatello deve inserire nel breve spazio a disposizione una storia complessa e articolata in diversi momenti cronologici, e raggiunge lo scopo con la prospettiva. Il pavimento è a scacchi e losanghe e determina quindi l’esatta collocazione di ciascun personaggio in primo piano, poi è la tavola che assume questa funzione, al di là dei commensali è una parete aperta da arcate. Queste, con l’intradosso, indicano lo spessore della parete mentre, nei pilastri che sostengono gli archi, sono infissi dei pali, la cui funzione spaziale è di grande importanza. Occorre infatti tener presente che la prospettiva lineare dà l’esatta distanza solo quando (come nel pavimento) vi sono precise forme geometriche misurabili, oppure quando vi sono (come la tavola) dei punti di riferimento. Se questi mancano, perché non è considerata la presenza dell’aria (solo con Leonardo ci sarà la prospettiva atmosferica) si rischia di perdere il senso della distanza: ecco perché lo scultore, rifuggendo dall’astrattezza, misura anche in alto lo spazio con quei pali posti lungo le grandi direttrici prospettiche. Al di là delle arcate è un altro ambiente, in cui un suonatore accompagna lo svolgersi del banchetto e, più oltre, un terzo luogo dove vediamo passare, su un vassoio, la testa del Battista, che poi rivediamo in primo piano a sinistra.
Ancora: vediamo la sala regale del banchetto e, dietro, la tribuna dei musicanti (con un suonatore di viola) e una fuga di stanze e scale. Il carnefice, appena entrato, s’è inginocchiato dinanzi al re cui offre sopra un piatto la testa del santo. Il re si ritrae levando le mani inorridito, i bimbi piangono e fuggono, Erodiade, istigatrice del delitto, sta parlando al re per spiegargli l’accaduto. Gli ospiti, indietreggiando, le fanno un grande vuoto d’intorno. Uno di essi si copre gli occhi con una mano, altri circondano Salomé che sembra avere appena interrotto la sua danza. Tutto è nuovo. Chi era abituato alle narrazioni chiare ed aggraziate dell’arte gotica dovette restare colpito da un simile stile narrativo che non ricorreva a uno schema nitido e piacevole ma piuttosto a un effetto di caos improvviso. Come le figure di Masaccio, quelle di Donatello sono dure e angolose nei loro movimenti. I gesti sono violenti e non v’è alcun tentativo di mitigare l’orrore della storia. Ai contemporanei la scena dovette sembrare di una vivacità quasi incredibile. La nuova arte della prospettiva accresceva ancora di più l’illusione della realtà. Donatello ha dovuto certo cominciare col domandarsi: “Come sarà stata la scena quando la testa del Battista venne portata nella sala?”.
La storia così si attua nel tempo attraverso la lettura prospettica della scena in una unità che solo lui ha saputo realizzare: basterebbe il paragone con le formelle ghibertiane della Porta del Paradiso del Battistero fiorentino dove gli episodi biblici si affollano, dentro lo spazio quadrato, secondo un criterio puramente additivo. L’unico confronto possibile è col “Tributo” di Masaccio nella Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine, sempre a Firenze, dove i tre tempi di svolgimento dell’episodio sono unificati dalla figura di Cristo al centro del gruppo circolare degli apostoli e dal paesaggio sullo sfondo.
Gennaro Cucciniello