Complessa, coraggiosa, italiana. La stagione del Rinascimento.
Recentemente un politico italiano ha vagheggiato l’alba di un nuovo Rinascimento in uno Stato arabo lontano dall’Europa, suscitando discussione e ironia. Tuttavia, al di là della inevitabile e vuota invettiva politica, l’annuncio ha lasciato affiorare miti, stereotipi e immagini di una stagione culturale che fiorì nella penisola italiana e diede inizio alla modernità. A pungolare curiosità e a illustrare protagonisti e temi con precisione, “Nella terra del genio. Il Rinascimento, un fenomeno italiano”, il nuovo libro (Salerno Editrice) di Marco Pellegrini, attento a far scorrere idee e azioni di “un gruppo di spiriti colti e visionari, attivi nell’Italia del primo ‘400” per chiudere un’epoca e farne nascere una nuova.
Inquietudine e insoddisfazione trovarono nel genio trasformatore italiano quello slancio creativo, che segnò una cesura della storia. Sebbene pure nel Medioevo l’antichità fosse stata compagna amata e saccheggiata, la tensione tra antico e nuovo innerva la riflessione rinascimentale, cambiando però questo rapporto: ben ancorati nel passato, di cui sapevano cogliere e sfruttare al meglio l’eredità, questi pescatori di perle riuscirono a imprimere una svolta in grado di sormontare qualsiasi inverno dello spirito.
Perché in Italia? Innanzi tutto, per la presenza di una considerevole mole di tesori, patrimoni dell’umanità, che sollecitava la creatività. Il processo di rinascita fu indubbiamente favorito dalle ambizioni politiche delle corti italiane, che diventarono officine del bello per legittimare le loro recenti origini, spesso controverse. Perseguendo il bene della comunità e, al contempo, l’autocelebrazione, signori come Federico da Montefeltro o Lorenzo de’ Medici investirono in imprese di vario genere, dalla costruzione di imponenti palazzi all’istituzione di biblioteche, che poi li avrebbero consegnati alla storia. Passo dopo passo, attraverso un itinerario variegato e seducente, si pongono in luce il furore creativo di personaggi leggendari come Giovanni Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e la lettura del Rinascimento dalla metà dell’Ottocento a oggi, da Jacob Burkhardt a Eugenio Garin fino a Jean-Marie Le Gall, autore di un’apologia del Rinascimento pubblicata qualche anno fa in Francia. Che sia un mito costruito ad hoc, uno dei tanti per affermare la supremazia europea o uno dei frutti dell’Illuminismo contro il Medioevo, il Rinascimento agita da più di un secolo il dibattito storiografico con interpretazioni, ricostruzioni e polemiche ricorrenti che però celano un rischio enorme, quello di indurre a ignorare e a far ignorare una stagione complessa con tutti i suoi chiaroscuri.
Nel Rinascimento si restaurò il passato e si orientarono il presente e il futuro, abbandonando la vana rassegnazione fatalistica: si coltivava una visione del futuro e la speranza di un salto verso un’età aurea, innesto felice del profetismo ebraico, stimolava gli ingegni. Sotto le ceneri della crisi germogliarono entusiasmi e fermenti novatori per riscoprire e andare avanti, intrecciando e valorizzando tradizioni diverse.
Provocatoriamente, Pellegrini avanza quindi argute considerazioni sull’utilità della storia e sulla perdita di senso che la cultura sta scontando a vantaggio di interessi speculatori e di un progressivo impoverimento morale. Trascurare e distruggere il tesoro che ci è giunto rivela ignoranza di sé e a poco servono gli imbarazzi rispetto a responsabilità di gravi mali e danni perpetrati, se non sono accompagnati da consapevolezza critica.
C’è spazio anche per una proposta. Dalla crisi si può tentare di uscire riscoprendo le glorie (e gli errori) dei nostri avi, lasciandoci contagiare dalla loro audacia intellettuale che traeva forza da un profondo e assiduo impegno per ricomporre il bagaglio delle cognizioni ereditate.
Michaela Valente
Questo articolo, non molto illuminante, è stato pubblicato nel Corriere della Sera del 2 gennaio 2022, a pag. 35.