Così l’Italia andava in fumo
Quella tra noi italiani e la sigaretta è una lunga storia: da oggetto di libertà, emancipazione e seduzione a tabù. L’americano Carl Ipsen la racconta in un libro, che parla molto di come eravamo.
“Nell’offerta di una sigaretta un invito all’amicizia”, recitava una promettente pubblicità delle sigarette Edelweiss sulle pagine della rivista Epoca nel maggio del 1954. La réclame esibiva una ragazza sorridente sorpresa, probabilmente, nella pausa di una scampagnata. A guardarla oggi, attraverso il lapin delle sigarette elettroniche e i divieti al fumo entrati sempre più a fondo nelle abitudini quotidiane, pare quasi che quella donna sia in gita sulla Luna, tanto la chiamata ci appare distante, irreale.
Eppure, racconta lo storico americano Carl Ipsen nel suo molto ben documentato “Fumo. La storia d’amore tra gli italiani e la sigaretta” (Le Monnier, pp. 300, euro 22), quell’immagine ci dice tanto della nostra storia, su come eravamo e come siamo diventati. La sigaretta, racconta Ipsen, ci permette di decifrare l’evoluzione sociale, economica, politica, i tic, le aspirazioni, talvolta il sapore di un’epoca.
Basta riandare ai nomi delle sigarette vendute dal Monopolio sotto il Fascismo, quando la produzione dei tabacchi pugliesi, campani e veneti esplose (nel 1918 erano 8 milioni di chili, mentre nel ’30 qualcosa come 50 milioni). Le più vendute erano ancora le Popolari, seguite dalle famigerate Nazionali, più diffuse delle Macedonia per via del prezzo. Nello stesso tempo erano state introdotte marche fascistissime come le Me Ne Frego (fatte però in Egitto), oppure le Eja, il cui pacchetto era decorato con il fascio littorio, e le AOI, che “rimandavano all’Africa Orientale Italiana” (c’erano pure le Eritrea, prodotte con tabacco delle colonie). A dispetto dei rimbrotti del regime, le sigarette però ci dicono un’altra verità, e cioè che gli italiani, ma solo quelli che avevano qualche lira in tasca, guardavano alle bionde americane Luchy Strike, Camel, Chesterfield, e così il Monopolio si inventò, strizzando l’occhio alla bandiera Usa, le costose Tre Stelle, con una combinazione di tabacchi greci e turchi, e il Virginia Bright, flue-cured all’americana.
La diffusione delle sigarette suggeriva inoltre che il fumo non era più affare di soli uomini, ma piano piano si faceva largo nelle abitudini femminili. Se nel 1890 la protagonista di “Il paese di cuccagna” di Matilde Serao era un’operaia della manifattura tabacchi di Napoli (ma il romanzo, scrive Ipsen, non prevede fumatrici), nel 1930 la Domenica del Corriere faceva la propaganda al Formitrol, prezioso presidio delle vie respiratorie usando la silhouette di una signora che sospira volute di fumo. Una diva come Isa Miranda faceva pubblicità alle Macedonia Extra, e le sigarette Regina si affidavano a un’immagine di sofisticata eleganza femminile. “La sigaretta, dice Carl Ipsen, era una tela bianca su cui scrivere le proprie fantasie: eleganti (Savoia), sexy (Eva), esotiche (Macedonia), decadenti (Sax), espressioni di identità nazionale (Nazionali ovviamente), classe operaia (il Toscano e di nuovo le Nazionali) e così via”. Per le donne, fin da subito, il fumo è visto come segno di indipendenza, di femminilità moderna e un po’ ribelle. Nel 1928 Daria Banfi Malaguzzi stampa una fumatrice sulla copertina del suo celebre manuale Femminilità contemporanea, ovviamente pettinata alla maschietta. A fumare sono coloro che il fascismo aveva bollato come donne crisi, maliarde che fumano, bevono, frequentano club e bar fino alle prime ore del mattino.
Il cinema aderisce al cliché, come mostra il personaggio di Mariuccia (Lya Franca) in Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini (1932): la sigaretta fa capolino quale gesto di sfida, di libertà, anche sessuale.
Riflette Ipsen: “Fin dalla “Carmen” di Prosper Mérimée, sigaraia, esiste oggetto più fallico della sigaretta? Oggetto che si manipola con le mani e poi si mette in bocca? E nel cinema quante volte la sigaretta ha sostituito l’atto sessuale?”. Fino a tutto il secondo dopoguerra, la sigaretta entra immancabilmente in scena a fare della donna la manipolatrice, la cattiva ragazza: Clara Calamai in Ossessione (1943), Lucia Bosè in Cronaca di un amore (1950), Dominique Sanda in Il giardino dei Finzi Contini che, sebbene girato negli anni Settanta, raccontava il fascismo e la guerra. Quando poi il consumo “va di pari passo col miracolo economico”, è la sigaretta a raccontarci che l’Italia non è più un Paese povero, e non solo: è un paese di fumatrici. Nel 1951 “Oggi”, in una delle primissime inchieste sul fumo, in copertina ci piazza Silvana Pampanini. E quando nel ’64 lo stesso settimanale si chiede se è possibile smettere col vizio, l’immagine è quella di un’altra grande fumatrice, Mina, all’apice del successo: “Persino nel fumare, dichiarava la cantante, mi dimostro molto sregolata e lunatica. E poi le sigarette fanno male davvero?”.
Gli italiani se lo domandavano poco, nonostante all’estero, già da tempo, gli studi avessero cominciato a svelare la scomoda verità. Forse una certa indifferenza al rischio, ipotizza l’autore, oppure la mai sopita affezione italica al motto “me ne frego”? Tra gli anni ’60 e ’70 il fumo è così pervasivo che le popolari MS, degne sostitute delle Nazionali, diventano le più vendute, anche tra le donne. A tal proposito, secondo Ipsen, il fumo è stato “una sorta di danno collaterale del femminismo poiché il tasso di fumatrici in Italia aumentò radicalmente dopo il 1968”. Da meno del 10% a oltre il 20% della popolazione femminile fumava (negli anni ’80 sarà il 30). Gli uomini fumano quasi tutti: operai, intellettuali, magnati, politici, attori, personaggi di fantasia: dal Bruno Cortona di Il Sorpasso in avanti, il Bel Paese è un’allegra ciminiera in cui le sigarette perdono qualunque connotazione sociale, tanto che, scrive Ipsen, un grande leader di massa come Enrico Berlinguer, segretario del Pci, “fumava le olandesi Turmac”. Qualche timido passo verso una regolamentazione si è intanto fatto: nel 1962 era entrato in vigore il divieto di fare pubblicità al tabacco, aggirato però dai grandi produttori associando i marchi a linee di abbigliamento. Del 1975 è la legge che vieta di fumare “in determinati locali e sui mezzi di trasporto pubblico. Una norma mai veramente applicata fino alla Legge Sirchia del 2005”, quando le cose cominciano veramente a cambiare.
Il processo era stato molto più lento che altrove: ancora negli anni ’90 un popolare conduttore televisivo come Gianfranco Funari fumava tranquillamente in diretta tv ogni pomeriggio, sebbene già nel 1985 un sondaggio aveva indicato che il 71% dei fumatori italiani voleva smettere. Un nuovo fronte dinanzi al quale l’industria aveva reagito proponendo massicciamente sigarette con il filtro, che ormai occupavano il 90% del mercato, e soprattutto le light con meno catrame e nicotina, anche se nessuno studio comprovava che facessero veramente meno danni.
Per altro in quegli anni, svela l’autore, ci fu il boom del contrabbando. “La gente, assuefatta, voleva fumare e molti preferivano immaginare che gli effetti non erano tanto gravi come dicevano i medici”.
Alberto Riva, in “il Venerdì di Repubblica”, 8 novembre 2019, pp. 82-5