Così si parlava a Roma prima di scrivere
Le leggi, la poesia e il dio Fabulinus
Eva Cantarella in questo articolo di “Repubblica”, del 3 luglio 2022, commenta il saggio con cui Maurizio Bettini ricostruisce la fase della civiltà latina fondata sulla trasmissione orale.
E’ davvero un libro diverso, quello di Maurizio Bettini dedicato a “Roma, città della parola” (Einaudi). Che sia nuovo e originale è cosa che non sorprende. L’ampiezza di vedute e di competenze fa del suo autore un protagonista a livello internazionale di un dibattito culturale che non coinvolge solo i classicisti, ma tutte le discipline che si interessano ai vari aspetti della vita pubblica e privata dei greci e dei romani. E non solo di questi: lo sguardo di Bettini giunge ben oltre i confini del nostro continente, e nel tempo raggiunge il presente: non a caso Bettini, nel 1986, è stato il fondatore in Italia di una disciplina a quei tempi non solo negletta, ma con rarissime eccezioni ignorata, qual era allora l’Antropologia del mondo antico. Come sorprendersi, alla luce di tutto questo, di fronte al fatto che Bettini, in questo libro, racconti la storia di Roma a partire da una caratteristica sulla quale nessuno aveva sinora appuntato l’attenzione?
Tutte le culture, ivi compresa quella romana, prima di lasciare testimonianze scritte, hanno attraversato una fase nella quale la trasmissione del loro patrimonio culturale era affidata alla parola. Basta pensare, per limitarci all’esempio più ovvio e più noto, alla trasmissione della cultura orale greca, affidata ai miti con i quali dei poeti vaganti intrattenevano il loro pubblico nelle strade, nelle piazze e, se fortunati, nei palazzi dei potenti: un patrimonio prezioso, parte del quale giunto a noi, dopo l’introduzione della scrittura, grazie all’Iliade e all’Odissea. E (al di là dell’eterno e mai chiuso dibattito sul momento nel quale queste furono messe per iscritto) a testimoniare la diffusione in ogni campo della parola scritta sta, ad esempio, la legge ateniese sull’omicidio del 621 a.C., attribuita a Draconte.
Ebbene: a Roma questo passaggio è avvenuto in modo molto diverso e in epoca così più tarda da far comprendere quanto la parola orale sia rimasta una caratteristica dominante di quella civiltà. Roma è la città della parola parlata sino almeno alla seconda metà del III secolo a.C. Solo a partire da quel momento apparve una cultura fondata sulla pratica della scrittura, e con essa degli autori e un corpus di testi destinati a essere letti individualmente o in pubblico, commentati nella scuola e rappresentati in teatro. E a partire da quel momento Bettini esamina una serie di produzioni culturali come la poesia, la religione e il diritto, mostrando come in esse il ruolo della parola parlata, avendo una vita sua propria, diversa da quella scritta, resista ai caratteri dell’alfabeto, rimanendo fondamentale ben oltre il momento dell’introduzione della scrittura.
La parola parlata infatti è prima di tutto un evento sonoro, del quale possiamo trovare traccia nella forma fonica della parola: quello che caratterizza la poesia romana arcaica è, accanto all’armonia, il gusto per le allitterazioni, testimoniato ad esempio dai versi a questo scopo opportunamente riportati da Bettini di un autore arcaico qual è Livio Andronico. Ma ancor più sorprendente di questo è forse il fatto che altrettante allitterazioni si trovino nel mondo del diritto, a partire dal testo messo per iscritto delle celebri XII Tavole, il primo codice romano, che questo espediente ha reso memorizzabile, sottraendo all’usura del discorso ordinario. E non si tratta certo di un caso isolato: molte delle parole e delle azioni che riguardano il mondo del diritto, infatti, hanno a che fare con l’attività del dire. Non solo l’amministrazione della giustizia si definisce con l’espressione “ius dicere”, “dire il diritto”, ma il nome di chi giudicava è “iu-dex”, colui che dice lo ius. Come scrive Bettini, “è prima di tutto la parola che “fa” il diritto, ristabilendo l’ordine e l’equilibrio sociale che rischiava di essere turbato”. Ed è sempre la parola parlata che produce gli effetti contrattuali nelle attività dei privati. Contrariamente a quanto dichiara il noto adagio, “verba volant, scripta manent”, a Roma un simile detto non avrebbe avuto senso: esso, infatti, non è nato a Roma, ma in età medievale.
Tali e talmente vari sono i contenuti di questo libro che non è facile decidere quali privilegiare: ma per darne almeno un’idea –dovendo inevitabilmente scegliere- merita qualche riga il gran numero degli dei detti dai romani minuti, una pletora di divinità utilizzate per rappresentare praticamente ogni genere di azioni, dalla più peregrina alla più rilevante: se tra essi non vi è traccia di una dea Scribina o di un dio Scriptor, sono invece numerose le divinità legate alla parola parlata, come la dea Fata, colei che parla, o Aius Locutiis o Loquens (da aio e loquor, parlare), il dio che aveva fatto sentire la sua voce una sola volta, per avvertire i romani del pericolo dell’imminente arrivo dei Galli. Ma i romani non lo avevano ascoltato e, dopo il saccheggio subito, gli avevano dedicato un altare a un’estremità del Palatino (al lato opposto del quale –difficile resistere alla tentazione di farlo notare- stava un altare dedicato a una dea non poco significativamente chiamata Tacita Muta). E per concludere come non fare un cenno a Fabulinus, il dio che proteggeva un momento significativo dell’infanzia dei neonati: proprio quello in cui il bambino pronunziava la sua prima parola.
Eva Cantarella