Cracovia, 1941. Polanski e Horowitz ricordano.
Riparare la memoria. Una straordinaria testimonianza.
Claudio Magris, ne “La Lettura” del 22 gennaio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 2 e 3, scrive un commento illuminante ai ricordi di due grandi artisti.
A Firenze esiste, da parecchi anni, l’Associazione “Per non dimenticare”, diretta da Anna Benedetti, sorta per impedire che il male –il male per eccellenza, la Shoah- cerchi di annientare un’altra volta ogni senso dell’umano, anche grazie al turbinio delle vicende politiche e sociali, che sembra rendere obsoleto tutto ciò che accade ogni giorno già mentre sta calando la sua sera. La musa della storia non sembra più Clio che la narra tessendo la tela, ma assomiglia a Penelope che di notte disfa e cancella ciò che ha tessuto e narrato durante il giorno.
Questa cancellazione della storia nella mente e nella visione del mondo delle generazioni che si susseguono sgretola il ricordo di tanti eventi, tempi ed eventi che hanno contribuito a fare di noi quello che siamo divenuti e in parte siamo. I miei figli ovviamente non possono avere esperienze e ricordi della Seconda guerra mondiale, ma quello che ne sanno –attraverso memorie vive di famiglia, racconti che hanno ascoltato, integrandoli nel proprio rapporto con il mondo- è diverso qualitativamente, nella formazione della loro persona, da quello che sanno della Prima guerra mondiale o di tempi ancor più lontani, anche se pur essi anelli della catena che arriva fino a loro.
Forse è questo il sentimento profondo che si prova vedendo il film “Polanski Horowitz. Hometown. La strada dei ricordi”, diretto da Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, la cui definizione di docufilm pare inadeguata e che riesce a mostrare, forse più indirettamente che direttamente, la Shoah. Compito che sembra tecnicamente facile e ripetibile ma che ogni volta deve essere rinnovato e vissuto come fosse la prima volta nella sua realtà irrappresentabile.
E’ un racconto semplice e impensabile, il vagabondare dei due amici per le strade di Cracovia, sentieri della loro vita e di tante tragedie delle loro vite, che essi ritrovano nelle tracce o nella cancellazione di ciò che hanno vissuto –la famiglia, l’infanzia, i resti di qualche edificio sbriciolato. Frammenti che riaffiorano, quelle cose che vivendo si perdono continuamente e mai definitivamente, un dolce kosher, una retata delle SS, qualche volto nella folla dei prigionieri mai più rivisto, i bambini e quel bambino sempre nascosto in ogni adulto, la morte o la salvezza, che sembra incomprensibile.
Mentre guardavo il film, mi è tornato in mente uno di quei milioni divenuti cenere, un ebreo olandese. Catturato dalle SS, viene messo su un treno che, come egli sa bene, lo porterà ad Auschwitz. Riesce a consegnare fortunosamente un biglietto a un conoscente, con la preghiera di recapitarlo ai suoi due figli, una ragazza e un ragazzo. “In estate –dice il biglietto- ricordatevi, se siete sudati, di non bere bibite ghiacciate”. Fa quasi ridere che Hitler contasse di poter vincere contro persone di questo stampo.
I due amici, interpretando senz’alcuna finzione sé stessi, girano, l’uno da caporione l’altro più timidamente, per le strade e nei dintorni di Cracovia, le strade della loro infanzia e giovinezza, della loro vita familiare; strade delle deportazioni e della morte, ma per loro, nonostante l’orrore, anche dell’incanto e dell’ironia quotidiana. Nel ricordo –che non ha nulla di sentimentale e di proustiano, ma è una realtà concreta e visibile per i raggi infrarossi del loro cuore- un ricordo legato alla morte del padre li fa ridere. In quel riso c’è la forza del legame familiare ebraico, indistruttibile anche nella tragedia e nel dolore, ingrediente essenziale del buon bicchiere che –suggerisce un proverbiale detto jiddish- allieta il breve tempo dell’esistenza tra la polvere da cui si proviene e la polvere cui si ritorna.
Così come, in un film amato, si ammira l’attore protagonista ma si ama il personaggio che egli interpreta e il paesaggio in cui si muove, in questo film l’eccezionale bravura dei protagonisti fa dimenticare che si tratta di attori, delle loro vite, in cui ci possono anche essere zone d’ombra e di colpa; ciò che conta è la verità delle persone e delle cose, come in una fotografia, dove non importa chi l’ha scattata. Un film contro l’oblio, in cui essi vanno alla ricerca non soltanto del male ma della vita stessa.
Claudio Magris
I sopravvissuti del ghetto di Cracovia
Sull’acciottolato di piazze e vicoli antichi i passi risuonano come allora, leggeri e impazienti. Che uno abbia 89 anni e l’altro 83 poco conta, Roman Polanski e Ryszard Horowitz restano quel che erano, due ragazzi del ghetto di Cracovia. Il regista geniale con il naso a punta e il fotografo pioniere che ha immortalato i grandi del jazz, si ritrovano dopo quasi 70 anni nella loro città natale. Quella Hometown che dà il titolo a un film imperdibile, viaggio sulle tracce di un destino e di un trauma ineludibili.
Due amici d’infanzia. Se infanzia si può chiamare quella di chi, come Roman, a sei anni vede il suo Paese invaso dai nazisti, il padre deportato a Mauthausen, la madre ad Auschwitz. Dove finisce anche Ryszard, anni 5, con i genitori. Il piccolo Polanski se la caverà sgusciando sotto il filo spinato del ghetto e trovando rifugio presso alcuni contadini cattolici, pronti a dividere le poche patate fra tre figli e lo scricciolo ebreo.
Quanto al piccolo Horowitz, a salvarlo con il resto della famiglia sarà Oskar Schindler, alla cui lista Steven Spielberg ha dedicato un memorabile film. Due sopravvissuti traslocati in terre più ospitali –Polanski a Parigi, Horowitz a New York- ma inseguiti dal tormento della memoria. “Un fardello che ho dovuto portare per tutta la vita”, confessa Polanski all’amico ritrovato addentrandosi nei meandri di quella città dove ogni pietra ricorda qualcosa ma del passato sono rimasti i fantasmi.
E allora tanto vale cominciare dal cimitero. Ma poiché l’umorismo si manifesta nei momenti più impensati, sulla tomba del padre Roman racconta il più assurdo dei funerali: la salma trasferita da Parigi a Cracovia da un’agenzia di pompe funebri surreale fin dal nome, Bongo, la bara che nel volo s’incastra nella stiva, becchini ubriachi, lui che con gli amici, tra cui il regista Andrzei Wajda, porta il feretro a spalla ma, essendo il più piccolo, il peso finisce su di lui… “Temevo di non farcela, ma l’abbiamo sepolto”, commenta tra le risate. Perché, lo dimostra il suo cinema, niente è più agghiacciante dell’orrore con un tocco di humour. La sinagoga nel quartiere a luci rosse, che quando si diceva “vado in via Miodowa” tutti si davano di gomito. Il professor Licht, che insegnava canzoni su Stalin in ebraico, la lampadina che, a detta del padre, era un rilevatore di bugie… Insieme salgono scale logore, il palazzo dove abitavano, lo scantinato dove Ryszard stampa le prime foto immergendole in un bidet, la scuola che Roman marinava per qualche cinema pulcioso: come in una poesia di Konstanty Galczynski, “niente di meglio dei piccoli cinema dove dimentichi tutto / che ospitano i poveri che hanno avuto una pessima giornata”.
Insieme, ricordano la morsa di un ghetto che si fa sempre più stretta via via che i 70mila ebrei di Cracovia vengono inghiottiti dai campi. “Ci stavano murando vivi. Prima le finestre, poi il portone, poi il ragazzo del piano di sopra scomparso d’improvviso e nessuno ne sapeva niente”. E gli zii costretti a suonare dai nazisti per qualche avanzo di cibo gettato come fossero cani. E una vecchia caduta, freddata a carponi da un colpo di pistola, il sangue che zampilla dappertutto. “La mia prima esperienza macabra”. Il tempo non stinge l’orrore. “Non voglio cancellare niente, sono ricordi importanti per me. La storia non insegna nulla, tutto si ripete, le persone sono sempre crudeli”. Ma alla fine, quando Ryszard gli chiede: “Se ti dicessero che puoi rivivere la tua vita così com’è stata, accetteresti o no?”, la risposta di Roman è senz’appello: “No, io vorrei essere nato alle Hawaii”.
Giuseppina Manin