Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Quindicesima puntata. 4 – 10 Aprile 1799. “Altre dimissioni nel Governo Provvisorio. A Procida, ripresa dagli inglesi, è restaurato il governo borbonico. Scoperta e sventata la congiura filorealista dei Baccher. Riprende la discussione sull’abolizione della feudalità con un orientamento più radicale. Il “Catechismo repubblicano” del vescovo di Vico Equense.
Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.
Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.
Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.
“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.
Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.
Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.
Gennaro Cucciniello
4 Aprile. Giovedì. Napoli. Ci sono altre dimissioni nel Governo Provvisorio. Contrasti tra Lauberg e il generale francese MacDonald.
“La rinuncia dei sei rappresentanti del Provisorio, cioè Pignatelli, Vaglio, Riario, Doria, De Gennaro, Bruno, è stata accettata, si dice che non saranno rimpiazzati, non erano certamente i più cattivi, anzi Doria, De Gennaro, Bruno, erano dei migliori (…) Tra le insinuazioni che il nostro ministro dell’Interno, Francesco Conforti, ha dirette ai predicatori, vi è quella di far sentire dal pulpito, che Gesù Cristo nel vangelo comandò la democrazia. Il Governo Provisorio, si dice, che abbia spedita una deputazione al generale MacDonald per la dichiarazione da costui fatta de’ beni appartenenti alla Corona da doversi addire alla Nazione francese. E si soggiunge che avendo il Generale detto, cioè averlo fatto perché Napoli lo considerava come conquistato, il deputato Laubert gli avesse rinfacciato che in Napoli erano essi entrati perché chiamati e soccorsi dal partito interno; né la resistenza dei lazzari dovea importare conquista. Ed avesse soggiunto: “uscite dalle porta di Napoli, restituite i castelli a chi ve li diede, e venite a conquistare Napoli se vi fidate”. Si pensa di mandare una Deputazione a Parigi” (De Nicola, pp. 124-5).
La Commissione Ecclesiastica della Repubblica scrive una lettera al card. Zurlo, arcivescovo di Napoli: “Cittadino Arcivescovo, non è più tempo di mascherarsi. La Patria è in pericolo, la libertà può vacillare, e questi sacri nomi sono al di sopra di tutti i doveri. La religione cristiana, che è il culto più ragionevole ed il vero culto delle nazioni, è discesa dal cielo tra gli uomini per essere la norma delle loro azioni. Le azioni degli uomini si passano nella società, e quindi ogni atto di religione al bene di questa società si dirige. Quando la società è in pericolo, sono i ministri del culto i primi obbligati con la voce della religione ad apprestarvi aiuti e rimedi. Il fanatismo ha tentato sconvolgere la nostra società, in vostre mani solo è il rimedio; e voi ricusate di oprarlo?… Il governo non vieta che voi vestiate la porpora. Vi tratta per Cardinale, ma forse siete nato prima Cardinale che cittadino, avete prima giurato sull’ostro cardinalizio che sull’altare della Patria? Avete prima ricevuto il nascimento da quello che da questa? Da chi ricevete i benefici? Togliete di mezzo ogni scusa”. Si volle che l’arcivescovo sottoscrivesse un ordine ai confessori e ai Vescovi di tutta la Diocesi per il quale era loro tolta la facoltà di assolvere penitenti “cospirationem contra Rempublicam sollicitantes”. Tale facoltà era riservata al solo Arcivescovo metropolita il quale ne sarebbe stato responsabile di fronte al governo. Un termine di 24 ore era concesso all’Arcivescovo perché sottoscrivesse quell’ordine; in caso di rifiuto egli sarebbe stato dichiarato ribelle di Stato. Il povero uomo ricorse ad un mezzo termine, radunò il Capitolo; e la pubblicazione fu fatta a nome del vicario generale” (Rodolico, pp. 156-7).
Procida. Restaurato il governo borbonico nell’isola. “Una flotta composta da navi inglesi, portoghesi e napoletane, comandata dal Trowbridge, luogotenente di Nelson, si impossessa di Procida e Ischia” (Sani, p. 44).
5 Aprile. Venerdì. Napoli. Ciaja, Lauberg e Paribelli minacciano le dimissioni in blocco dell’intero Governo Provvisorio. Sarebbe stata compilata la Costituzione.
“Il nostro stato è di vera fermentazione. Il popolo esulta perché crede vicina la mutazione di Governo. Le navi inglesi apparse sotto Procida si vuole che siano avanguardia di numerosa flotta che si aspetta. Si dice che abbiano sbarcati 300 uomini armati di truppa di linea ad Ischia e Procida, e cento forzati. Quest’oggi poi si è veduto venire su di una lancia un ammiraglio Inglese che è sbarcato al castello dell’Ovo, dove si è portato da MacDonald, e hanno avuto insieme un congresso. Vi è chi crede che siasi intimato ai Francesi di evacuar Napoli, e che la flotta aspetti l’arrivo della truppa che viene per terra dalle Calabrie e dalla Puglia. Intanto il fermento interno sempre più cresce, ed i Francesi stanno in molta soggezione, e tal’uno degli uffiziali ha detto che hanno essi l’ordine di chiudersi nei castelli ad ogni rumore, ma non di far fuoco. Sicuramente la nostra posizione non è delle più felici. Non manca chi crede, che vi sia qualche trattato con i Francesi stessi di restituire Napoli al Re. Da un giorno all’altro saremo in mezzo ai torbidi e alle stragi di nuovo. Il Governo Provisorio si dice che abbia interamente rinunziato a causa della dichiarazione dei beni appropriati alla Nazione francese. Si sente che forse si farà un Direttorio provisorio di 7 membri. Questa mattina ha publicato ordine che i militari alloggiati per le case dei particolari non abbiano tavola (…) Dicesi che siasi distesa una scellerata Costituzione. Dirò sempre lo stesso: il Governo ed i Francesi non sanno far amare la rivoluzione, e cercano i mezzi di sempre più far crescere il malcontento. E la vera figura è: nel Governo non vi è chi sappia di politica e di buon governo, si manca di prudenza, di condotta e di religione. Tra i Francesi vi è mala fede e desiderio di rapina” (De Nicola, 125-6).
Palermo. Acton scrive al card. Ruffo: “Prevengo intanto V. Em. che S. M. fissa i punti generali per considerare i ribelli e distinguere il delitto di coloro in più classi, da ciò che i deboli, i sedotti o stupidi hanno adottato. Trattandosi di riacquistare presto, come si spera, quella capitale, credono i reali padroni do dovere stabilire basi sopra questo assunto. La clemenza certamente è propria e naturale del Re, come è troppo noto; ma li governanti repubblicani, i noti traditori, e quelli che con effetto hanno seguitato in uffici quell’infame ribellione ed insultati i propri Sovrani con tante ed orrende scelleratezze nei fatti e nei proclami, dovranno essere distinti da quelli, che come ho detto sono stati o sedotti o strascinati ad aderire, ma senza divenire membri dirigenti nell’empia forma di quel governo distruttore e scellerato nell’immortalità come nell’irreligione e dilapidazione. I baroni non presenti nei feudi e che si trovano nel centro della ribellione devono certamente soffrire il giusto sequestro. I felloni, la perpetua confiscazione. Desidera S. M. che V. Em. voglia proporle un piano sul castigo da stabilirsi per base ai cittadini ribelli, che con impieghi nella repubblica usurparono la Sovranità, e per quelli che tra questi erano già al real servizio S. M. desidererebbe che le pene fossero o la morte o la deportazione fuori dai regni, senza condannarsi alla prigionia o relegazione nelle isole” (Croce, “La riconquista..”, pp. 102-3).
Il card. Ruffo è a Fasana. Guadato il fiume Neto, arriva a Capo d’Alici.
6 Aprile. Sabato. Napoli. “Questa mattina sono uscite le barche cannoniere comandate da Caracciolo per mettersi in osservazione. Con proclama si è fatto sentire a tutti gli ufficiali delle truppe dell’ex Re che vogliono servire nel corpo di volontari, che si formerà di loro stessi, avranno mezzo il soldo che godevano, ed una razione al giorno. L’oggetto di fare questa legione di ufficiali volontari è per unirli al corpo d’armata che sotto il comando di Francesco Pignatelli, il giovane ex principe di Strongoli, dovrà marciare per la Calabria. Questa spedizione dev’essere di tremila uomini, fin’ora se ne sono arrolati 1900, per gli altri 1100 si avrebbero tai volontarii. Per Calabria vi è questo aneddoto, Pignatelli non vuole compagnia di truppa francese, ed il Generale non ha intenzione di mandarcene. Si è qui intanto formata una deputazione di Calabresi, la quale progetta una grande operazione, cioè di mandare una spedizione in Calabria di truppa nazionale regolata, unirla ivi con la truppa insorgente, organizzarla, quietare le Calabrie, e tornare in Napoli con una forza imponente, e dare la legge ai Francesi, dei quali tutta la Nazione è malcontenta. Mandare poi una deputazione a Parigi, e chiedere che si sostenga la promessa indipendenza, e lasci alla Repubblica Napoletana organizzarsi da sé, portandole le giuste querele contro i Generali qui presenti. Le dame che vanno in giro pel dono patriottico, il primo giorno unirono ducati mille di contanti, e il secondo cinquecento; e tal dono è destinato ad organizzare la truppa che va in Calabria” (De Nicola, p. 127).
“Nella notte truppe francesi e della Guardia nazionale scoprono una congiura presso la casa del negoziante Vincenzo Baccher e dei suoi cinque figli. Il piano, architettato in particolare da Gherardo e Gennaro Baccher, prevede la presa di Castel Sant’Elmo con l’aiuto di un buon numero di lazzari prezzolati, e la liberazione di tutti i prigionieri di fede borbonica dalle carceri cittadine. Fissata per il giorno 8 aprile e comprendente circa 200 persone tra ex ufficiali dell’esercito e nobili fedeli alla monarchia, la congiura viene sventata grazie alla collaborazione di Luisa Molino Sanfelice, una nobildonna amata da Gherardo Baccher ma a sua volta amante del milite della Guardia nazionale Agostino Calò. Avvisata dal Baccher dell’azione sanguinosa e munita da questi di un “biglietto di assicurazione”, Luisa non esita a informare Calò, il quale denuncia il fatto alle autorità di polizia con la collaborazione di Vincenzo Cuoco” (Sani, pp. 44-5).
“Sul “Monitore” Eleonora Pimentel esprimeva il suo orrore per le stragi di Andria e di Trani: “E’ pur troppo vero l’eccidio che i ribelli Tranesi han fatto de’ patrioti il giorno innanzi della loro resa. Non vi sono parole, né lagrime sufficienti a descrivere e piangere o i delitti degli insorgenti prima di esser vinti, o i delitti dei vincitori in Trani e in Andria dopo averle prese. Tiriamo un pietoso velo su tutto (…)”. Le sue proposte e polemiche dovettero fare qualche impressione e il Cuoco le ricorderà poi nel suo “Saggio”. Ma, se contengono molti elementi assai giusti, -specialmente per ciò che concerne le crudeltà militari e le minacce alla proprietà, e nell’insistere sull’utile che si sarebbe avuto dall’effettiva abolizione della feudalità-, non si può dire che rivelino un’analisi troppo penetrante dei molteplici fattori concorrenti in quelle insurrezioni: moti proletari, irritazione per le contribuzioni minacciate e levate dai francesi, la dissoluzione dell’esercito regio che aveva sparso per le campagne i disoccupati, le mene dei feudatari; e, in aggiunta a ciò, i Borboni in Sicilia, il cardinal Ruffo con un’armata di riconquista, e gli inglesi sul mare, che davano unità di direzione al movimento delle insurrezioni. Il che le rendeva, per la debole Repubblica, quasi invincibili” (Croce, p. 52-4).
Palermo. La regina scrive a Ruffo: “Con somma consolazione sento sempre i felici successi che ha V. E. Certo che il suo coraggio, energia ed attività salveranno, spero, e ci restituiranno i due regni, mentre già ci ha fatto riacquistare e mettere all’ubbidienza le due Calabrie, che a parer mio erano di tutte le provincie le più guastate e contaminate, con dare incoraggiamento alle altre ben pensanti ed allontanare il pericolo vicino della Sicilia” (Croce, “La riconquista…”, p. 103).
7 Aprile. Domenica. Napoli. “Nei primi giorni di aprile nel Comitato Legislativo si discusse il diritto feudale de’ Baroni. Vari variamente opinarono. Albanese fu di un parere, Cestari di un altro, opinò diversamente Mario Pagano, si unì di sentimento Giuseppe Logoteta ad Albanese, e più moderato nella sua opinione fu Nicola Fasulo” (Marinelli, p. 69). “Due giorni dopo, nel Monitore del 9 aprile la Pimentel nel dare notizia della discussione sulla legge, dopo di aver detto che sin dai primi giorni della Repubblica l’Albanese aveva proposto un progetto di legge per l’abolizione dei feudi e dopo aver soggiunto che nella discussione si opposero due gruppi, l’uno estremista capeggiato dal Cestari e l’altro moderato capeggiato dal Pagano, conclude riportando il voto del Rappresentante Logoteta, che trasse seco quello degli altri e che era per la legge nel modo che si trova distesa dal Cittadino Albanese. Il giornale conferma perciò la nota del Marinelli e riferisce questa discussione, questa fase della discussione: la concordanza tra il giornale della Pimentel e le note del Marinelli per quanto riguarda la distribuzione delle opinioni è fin troppo evidente per poter essere ulteriormente discussa. Il giornale, infine, esponendo il succo dei più moderati avvisi emersi nel corso della discussione, concludeva: “è noto che siasi preso per base della legge: che la nazione rinunzia al diritto di devoluzione ed a qualunque altro diritto essa possa rappresentare su tali beni; ritengono i dianzi baroni un quarto solo dei così detti fondi feudali, da possederli in perfetta e libera proprietà”. Queste espressioni sembrano chiaramente indicare che in questa discussione dei primi di aprile si trovavano di fronte il testo più moderato non approvato dal MacDonald ma prevalso nel Governo Provvisorio ai primi di marzo (e ispirato dal Pagano), e il testo inizialmente affacciato dall’Albanese (si noti che il giornale parla di quest’ultimo come “membro allora del Comitato di Legislazione”, ed egli era infatti uscito dal Comitato di Legislazione il 18 marzo, quando vi fu il rinnovo dei Comitati) e che, pur essendo stato respinto allora dalla maggioranza del Comitato, rimaneva come espressione dell’indirizzo di una forte minoranza e poteva quindi essere richiamato e fatto approvare dal Logoteta ora che gli umori prevalenti nel Governo Provvisorio erano mutati. Giustamente osservava il Galanti che il MacDonald non approvando, per favorire i baroni, la legge moderata del 7 marzo ne aveva provocato, ai primi di aprile, una redazione più dannosa per i suoi protetti. Si pone perciò la questione: la necessità di spiegare quale sia stata l’evoluzione politica che nel giro di un paio di mesi, e mentre ancora era a Napoli il MacDonald, spostò l’opinione prevalente nel governo e nelle assemblee della Repubblica in senso nettamente più radicale. Quando ai primi di aprile a Napoli era sopravvenuto l’Abrial, questi dovette prendere atto che la situazione era tale da richiedere la massima comprensione per l’aspirazione dei patrioti napoletani ad uscire dalla condizione di minorità e di costrizione in cui il MacDonald li aveva tenuti. Il commissario francese non rifiutò di trarne le conseguenze. L’avvio all’ultima discussione della legge feudale prese le mosse da questo importante mutamento nell’atteggiamento dei rappresentanti della potenza occupante” (Galasso, pp. 519-27, passim).
8 Aprile. Lunedì. Napoli. Caracciolo entra a far parte del Governo Provvisorio come Ministro della Marina. Il Commissario Faypoult lascia definitivamente Napoli ed è sostituito da Nicola Bodard de Tezay.
Ignazio Ciaja, membro del Governo Provvisorio, scrive al fratello a Parigi: “Dovrei avere lo spirito estremamente abbattuto, se l’estremo dei mali non mi fosse motivo da sviluppare quel coraggio, che le circostanze esigono. Non è già ch’io paventi il risultato delle cose, ma le vie per le quali si passa sono sì aspre che manca spesse volte la lena da sormontarle (…) Giunse qui, son già molti giorni, Abrial, il Commissario politico, che tu conoscesti a Torino. Nient’egli ancora ha cangiato alla forma del Governo; ma le sue istruzioni e noi stessi esigiamo, che presto si metta una mano d’ordine e di stabilità a tutto ciò che la cattiva organizzazione reca di danno al pubblico bene e alla nostra pace. Sento susurrare come d’idea che parte sin dal Direttorio esecutivo, che vi sono fra noi persone malvedute dal medesimo, e tinte di non so qual macchia, che han molti in Italia contro i Francesi. Io non so comprendere come si possa dar per vero un partito contro la Nazione in massa, e quella Nazione che va prodigando il suo sangue per la causa dell’Uomo. Debbo solamente credere che si voglia così, dai pochi che la disonorano, salvar loro stessi, facendo passar per generale un odio, che si ha solo contro i dilapidatori e i concussionari. Questa piccola digressione mi rimena a dirti che ogni prevenzione contro i membri, che compongono l’attual governo, è ingiusta. Intanto noi siam ridotti a pochi, perché sei dei nostri colleghi han data la dimissione. Posso però dirti che lo spirito, che gli ha guidati, è stato non l’amor della Patria ma il presentimento che in un altro Governo non sarebbero stati considerati. Han colta dunque un’occasione fuor di tempo, e si sono dimessi. La legge dei Feudi non è stata ancora sanzionata, e ciò reca al Popolo il maggior disturbo. Spero che Abrial voglia presto farla passare, e tanto più facilmente quanto che è senza paragone più dolce di quella portata in Piemonte. Gli ex-nobili però fan troppo male il loro conto, perché, se riescono ad allacciare la podestà legislativa, saran presto più fortemente battuti dalla giudiziaria, che si organizza, e che li colpirà uno dopo l’altro in dettaglio (…) Non entro a dipingerti gli orrori commessi nelle provincie. La mancanza di truppe opportune e la comunicazione mancata colla capitale le ha messe sotto il soffio degli assassini, che hanno tutto divorato” (Croce, pp. 301-3).
9 Aprile. Martedì. Il card. Zurlo, arcivescovo di Napoli, dà notizia della voce secondo la quale il card. Ruffo avrebbe assunto la qualifica di pontefice col nome di Urbano IX.
“Paribelli si dimette dal Governo Provvisorio per dirigersi a Parigi in soccorso degli amici della Deputazione Napoletana presso il Direttorio” (Sani, p. 41).
“In città vi è fermento. Il peso insopportabile degli alloggi militari, le contribuzioni, la scarsezza del numerario, non possono certo produrre i migliori effetti” (De Nicola, p. 130).
“All’arrivo dell’Abrial Francesco Saverio Salfi fonda una Sala Patriottica e ne diventa presidente. Il Nardini lo ricorda come grande partigiano di Robespierre e che sembrava voler rinnovare a Napoli le tragedie sanguinose delle quali la capitale francese è stata per così tanto tempo testimone. Certo molto vi fu nell’azione dei robespierristi napoletani di demagogia verbalistica, ma si dovette anche alla loro azione se la breve storia della repubblica meridionale ebbe caratteri propri ed originali. Poiché come dalle idee e dall’azione dei moderati la repubblica ebbe una Costituzione che meno di tutte le altre italiane coeve ripeteva le forme e gli istituti di quella francese dell’anno III e annunciava per tal modo i futuri indirizzi costituzionalistici che saranno propri alla massima parte dei patrioti napoletani durante tutti i primi due o tre decenni del secolo XIX; così dalle idee e dall’azione dei giacobini fu imposta ad essa una particolare considerazione di quei problemi della terra e della connessa proprietà intorno ai quali la classe politica napoletana continuerà a travagliarsi ancora per molto tempo dopo la stessa soppressione del regime feudale nel 1806. Il Cuoco, dunque, polemizzando nel suo Saggio sulla valutazione di Robespierre, continuava il dibattito politico che a Napoli si era aperto durante la repubblica; ed è estremamente significativo che egli concentri la discussione esclusivamente sui problemi di ordine costituzionale e di libertà. Per quanto riguardava la terra anche egli avrebbe voluto, e subito, l’integrale soppressione del regime feudale, al pari dei giacobini, e deprecava così l’ostilità aristocratica al progetto come le esitazioni della parte moderata nel dare ad esso il più sollecito avvio di realizzazione. A ciò lo spingeva, tuttavia, non già la viva preoccupazione dei problemi di eguaglianza o il mito del popolo (specialmente quello delle campagne) tutto naturalmente “saggio e buono” o l’ossessione dei ricordi rivoluzionari francesi, come avveniva nei suoi amici giacobini, ma invece la percezione dell’importanza decisiva che per il consolidamento della rivoluzione una mossa del genere poteva avere nel Napoletano, dove quello della terra (e la letteratura riformistica della seconda metà del ‘700 ne aveva resi tutti ben avvertiti) era veramente il problema dei problemi. Anche qui insomma operava nel Cuoco la sua preoccupazione più vera e profonda, la preoccupazione dell’autonomia storica e politica del rinnovamento napoletano, risolta in una serie di problemi generali concernenti i fondamenti etici e sociali dello Stato e del movimento storico. Si illudeva allora il Cuoco che, se i moderati italiani e la politica del Direttorio non vi si fossero frapposti, i rivoluzionari del ’96-’99 avrebbero potuto decidere a loro favore la partita giocando la carta di radicali riforme agrarie? Così non è di certo. Il Saggio è, dopo tutto, più volto al futuro che al passato, è più opera programmatica e pedagogica che di mera ricostruzione storica. “Senza pretendere di scrivere la storia della rivoluzione di Napoli”, -dice il suo stesso autore nel I capitolo-, “mi sia permesso di trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa mi sembrano più importanti, ad indicare ciò che nei medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da biasimare”. E l’autore voleva soprattutto dimostrare come “la sorte degli Stati dipende da leggi certe, immutabili, eterne”, contro le quali i repubblicani di Napoli –“colle più pure intenzioni, col più caldo amor della patria, non mancando di coraggio”,- avevano di certo peccato, perdendo loro stessi e la Repubblica ma cadendo, in definitiva, “colla patria vittime di quell’ordine di cose a cui tentarono di resistere, ma a cui nulla più si poteva fare che cedere”. E in ultima analisi conviene, quindi, ravvisare nel passo del Cuoco sul Robespierre qui discusso, e nei modi in cui il Cuoco conduce la discussione, la spia per cogliere nella loro stessa genesi alcune costanti del dibattito politico e ideologico che, a partire appunto dal ’99, opporrà su temi concreti di vita napoletana e internazionale i gruppi moderati e quelli estremisti della classe politica napoletana venuta a conflitto coi Borboni” (Galasso, “Mezzogiorno..”, pp. 286-8).
10 Aprile. Mercoledì. Napoli. Domenico Cirillo, membro del Governo Provvisorio, pubblica un suo progetto per la pubblica beneficenza.
Monsignor Michele Natale, Vescovo di Vico Equense, scrive un “Catechismo repubblicano per l’istruzione del popolo e la rovina dei tiranni”. “Fu costante caratteristica dei repubblicani di Napoli un’aspirazione a rompere l’isolamento del loro gruppo, a stabilire un contatto permanente coi ceti popolari, aprendosi nel colloquio. Si sentiva l’esigenza di diffondere quanto più largamente fosse possibile i principi della nuova concezione dell’uomo e della società. Uno degli strumenti preferiti furono i cosiddetti “catechismi” nei quali le idee democratiche e repubblicane venivano divulgate secondo i metodi della didattica popolare del cattolicesimo. Si mirava a preparare –è scritto in uno di questi opuscoli- l’animo dei giovanetti “ad essere fedeli cittadini… ad adempiere con decoro tutti i principi del sistema sociale relativamente all’Uomo, al Cittadino, alla Nazione”. L’autore sarà impiccato al ritorno dei Borboni.
D. Tutti dunque dovrebbero essere contenti del Governo Democratico?
R. Tutti quelli che amano il buon ordine, la tranquillità e la felicità del Popolo devono amare questo Governo. Ma quelli che amano di dominare sugli altri, che vogliono arricchirsi coi beni altrui, non sono certamente contenti del Governo Democratico.
D. I Nobili amano il Governo Democratico?
R. Tutti quegli uomini, che vogliono distinguersi per la loro nascita e per le loro ricchezze, e che vogliono primeggiare sugli altri, non sono amici dell’eguaglianza repubblicana. Ma quei nobili, che hanno bruciato i loro titoli, cioè le loro usurpazioni sul popolo, che s’interessano pel pubblico bene e si confondono cogli altri Cittadini, questi amano il governo popolare e meritano di essere tanto più stimati, quanto è maggiore il sacrificio che hanno fatto per lo bene comune.
D. Dunque i Nobili non sono più Nobili?
R. I Nobili nel Governo del Popolo sono solamente quelli, che si distinguono per le loro virtù patriottiche, cioè per i servizi che prestano al Popolo. I veri Nobili sono dunque gli Agricoltori, gli Artigiani, i Difensori della Patria, e non già gli oziosi ed i prepotenti, che ne sono i nemici.
D. E i Preti possono amare questo Governo?
R. Tutti quei Preti, che vivono secondo lo spirito dell’Evangelio, devono amarlo. Infatti la Religione è tanto più pura, quanto più si avvicina alla sua sorgente. Ora i primi Discepoli di Cristo avevano la perfetta comunione dei beni, cioè il Governo Democratico il più puro. I soli Preti dunque, che non possono amarlo, sono quelli che vogliono dei ricchi benefizj, senza interessarsi del bene delle anime, che vogliono essere assediati dai servitori, e di dominare sugli altri come altrettanti Tiranni contro lo spirito dell’Evangelio, il quale c’insegna che Cristo disse ai suoi Discepoli, che colui il quale vorrebbe dominare gli altri, sarebbe l’ultimo fra di loro.
D. Dunque la Democrazia non è contraria alla Legge di Cristo?
R. No, anzi la Legge di Cristo è la base della Democrazia. La Religione cristiana è fondata su due principi, cioè l’amore di Dio e quello del prossimo. La Democrazia toglie tutte le usurpazioni, le oppressioni, le violenze; essa fa riguardare tutti gli uomini come fratelli: essa propaga dunque mirabilmente l’amore del prossimo. Ora i fratelli si possono amare fra di loro senza amare il loro Padre comune, il loro comune benefattore? Dunque la Democrazia è fondata sugli stessi principi della religione cristiana. Un buon Cristiano dev’essere dunque un buon Democratico” (Battaglini, pp. 95-6).
“Undici cittadini, accusati di complicità nel complotto filorealista dei Baccher, sono fucilati in piazza Mercato. Il sostegno popolare al governo va intanto sempre più scemando, come testimoniato da queste canzoni allora in voga tra i lazzari: “Libertà ed Uguaglianza / Li denari vanno in Franza / E ‘ntri ‘ntri nce fa la panza”. “E’ venuto lu francese / cu ‘nu mazzo de carte ‘nmano / Liberté Egalité Fraternité / tu rubbe a me, io rubbo a te” (Sani, p. 45).
Nota bibliografica
- M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
- B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
- B. Croce, “La rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
- G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
- Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
- G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno”, Einaudi, Torino, 1975
- G. Galasso, “La legge feudale napoletana del 1799”
- D. Marinelli, “Giornali”, a cura di A. Fiordelisi, Napoli, 1901
- V. Sani, “La Repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997