Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ventiduesima puntata. 21 – 26 Maggio 1799. “Tra i patrioti repubblicani: una rinvigorita energia ma anche maggiori dissidi interni. Le insorgenze sono sottovalutate. Le rapine dei francesi, le illusioni dei democratici. Ruffo ipotizza una via di fuga per i giacobini”.
Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.
Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.
Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.
“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.
Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.
Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.
Gennaro Cucciniello
21 Maggio. Martedì. Napoli. Riapertura dei Tribunali. “Questa mattina si è publicata la legge per la organizzazione dei nuovi Tribunali repubblicani che descriverò quando saranno istallati. Segue la barbarie di togliere le memorie per la città e deturparla. Quest’oggi per togliere gli emblema aristocratici che stavano intorno alla statua di S. Gaetano, che è al largo di S. Paolo, hanno spezzate le braccia ai puttini che li sostenevano. Fu fatta una Commissione per togliere tali emblema, ed è ben fatto, perché questa gli avrebbe tolti senza guastare i monumenti e le opere dell’arte; ma non ha avuto effetto, perché come viene in testa a qualche civico, così unisce il popolo, gli dà qualche carlino, e corre a rompere ed a spezzare senza sapere quello che fanno” (De Nicola, p. 185).
Partiti i Francesi, un’energia insperata anima i patrioti napoletani. S’infittiscono, però, anche i dissidi interni. “L’attività militare, nel frattempo, ferve intensamente. Organizzate nuove coscrizioni, le milizie nazionali vengono raccolte il legioni, tra le quali spicca per numero la Calabra, composta da circa 3000 calabresi rifugiatisi a Napoli dopo la sconfitta patita ad opera degli uomini di Ruffo. Gabriele Manthoné viene dichiarato capo supremo dell’esercito rivoluzionario scavalcando di fatto il governo nella gestione delle operazioni. L’anomala situazione suscita l’opposizione della Commissione Legislativa, mentre sempre più consistenti si fanno le critiche da parte delle sale patriottiche cittadine” (Sani, pp. 48-9).
Le insorgenze sono sottovalutate. “Si era esposto mille volte al ministro della guerra tutto il pericolo che si correva per le insorgenze troppo trascurate; ma egli credeva ed avea fatto credere al governo non esser ciò altro che voci di allarmisti. Si giunse a promulgare una legge severissima contro i medesimi; ma la legge dovea farsi perché gli allarmisti non ingannassero il popolo, e non già perché il governo fosse ingannato dagli adulatori. Il governo era su questo oggetto molto mal servito da’ suoi agenti tanto interni che esterni, poiché per lo più eransi affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano che l’entusiasmo; ed essi più del pericolo temevano la fatica di doverlo prevedere. I popoli non erano creduti. Si chiesero dei soccorsi al governo per frenare l’insorgenza scoppiata nel Cilento. Si proponeva al ministro che s’inviassero i francesi. I francesi –si rispondeva- non sono buoni a frenare l’insorgenza; e si diceva il vero (contro gli insorgenti poco vale l’armata, ma si richiedono le piccole forze e permanenti). Vi anderanno dunque i patrioti? I patrioti faranno peggio. Ma intanto il pessimo di tutti i partiti fu quello di non prenderne alcuno; ed il più funesto degli errori fu quello di credere che il tempo avesse potuto giovare e distruggere l’insorgenza. Il ministro della guerra diceva sempre al governo che egli si occupava a formare un piano, che avrebbe riparato a tutto. Prima parte però di ogni piano avrebbe dovuto essere quella di far presto. Si disse al ministro che avesse occupata Ariano, e non curò di farlo; se gli disse che avesse occupata Monteforte, e non curò di farlo. Manthoné credeva che il nemico non fosse da temersi. Fino agli ultimi momenti ei lusingò se stesso ed il governo: credeva che i russi, i quali erano sbarcati in Puglia, non fossero veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli avea spediti abbigliati alla russa” (Cuoco, 184-5).
22 Maggio. Mercoledì. Napoli. Le riflessioni di Eleonora Fonseca Pimentel. “Nonostante tutto, nonostante il governo repubblicano abbia abolito le gabelle sul pesce, sulla farina, sulla frutta, nonostante i patrioti vadano in giro a piantare alberi della libertà invitando la plebe a ballarci attorno, nonostante il “Monitore” scriva i suoi begli e inutili articoli educativi, i lazzari, il popolo basso, non ci stanno. Continuano a ricordare con affetto un miserabile come re Ferdinando, a seguire quei mascalzoni dei preti, e applaudiranno, quando arriverà, un furbo sanguinario come Fabrizio Ruffo. Si batteranno da belve, come già hanno fatto, per cacciar da Napoli Francesi e Giacobini, estranei, scocciatori emeriti, fastidiosi perturbatori d’un mondo quieto, fantastico, bene ordinato secondo i primordiali principi della vita: padre Dio, padre re comandano, provvedono alle cose grandi e noiose. Per il resto, li han sempre lasciati fare a modo loro, a celebrare i riti fanciulleschi, nell’esistenza indipendente e saggia. Voglion essere lasciati in pace nella loro grande, bella città di giardini, cupole, spiagge. Nel sicuro protettivo dei vicoli, dei bassi, del tempo. Resteranno così? Com’essi vogliono? Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo sia felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto di imporli a chi pensa che non valga la pena di farli? Mettetevi le scarpe, imparate il gergo repubblicano, fatevi ammazzare per cacciare i Borboni, Ruffo, i preti, l’ignoranza (e così regalare alla Gran Repubblica Madre di Francia i palazzi del re, Capodimonte, Ercolano), studiate, diventate colti. Leggete Genovesi, Filangieri, distruggete Pulcinella, S. Gennaro, vicoli, bassi, la vostra vita randagia, priva di padrone. Forse bisognerà aspettare che queste generazioni di Napoletani man mano s’estinguano, carpire ad esse i giovanissimi, quelli che cedono, come il lavorante riccio senza un dito al piede. Col tempo le impenitenti legioni s’assottiglieranno, si dilegueranno nel Mito: Napoli diventerà una città come tant’altre, civili, della Terra, abitata da un popolo istruito, educato, ragionevole, pronto a seguire quanto gli verrà intimato dai filosofi, da tutti quelli che vogliono dargli felicità” (Striano, pp. 323-4).
23 Maggio. Giovedì. Napoli. “Allo sparo del cannone, che solo è servito ad annunziare che partiva da Palazzo la Commissione Esecutiva, come facevasi all’uscita dell’ex Re, è cominciata la festa di questa mattina. La processione ha fatto il solito giro del catafalco a S. Chiara e all’Arcivescovado (…) Chiudeva la fila l’alta Commissione di Polizia, i di cui membri con l’uniforme civica. Fra questi si distinguevano, Vincenzo Lupo, che colla testa alla Bruto faceva un’orrorosa figura, e Timoleone Bianchi in abito all’ussara, anche pettinato alla Bruto, pareva che incutesse terrore. Avvertirò a questo luogo, che la testa alla Bruto non è altro che portare i capelli neri ricci e con zazzera, come si dipinge e scolpisce la testa di Bruto che restituì la libertà a Roma. Alle magistrature seguivano le municipalità tutte in abito civico, con fascia tricolore a traverso. Fra queste vi era il municipalista Crisanti, frate di S. Maria la Nova, che sopra l’abito di Francescano portava la fascia. Immediatamente appresso al Santissimo seguiva il Corpo Legislativo, situati a due a due, la prima riga la componeva il generale di brigata Gerardon e a sinistra il presidente dell’Esecutivo. Seguivano i quattro ministri del governo, tutti con abito riccamente ricamato, e colla banda tricolore. La parata si è fatta dalla Guardia Nazionale divisa in plutoni, come dicesi, cioè posta a squadroni nei larghi. Il popolo che vi è concorso è stato numerosissimo, la sola gala e sfoggio di ricchezze di abiti e livree che vi era a tempo della Monarchia è mancata. Infine vi è stata una lautissima tavola nel Palazzo nazionale, nella sala detta dei Vicerè. V’intervennero ancora delle donne, tra queste talune della plebe, e molti uomini della stessa. La tavola fu sontuosissima del numero di 108 coverti, ma tutti i circostanti ne furono a parte, anco i domestici che la servirono mangiarono le stesse pietanze. Ci fu il noto capo Lazzaro, oggi capo di Legione, Michele, che si pose a ballare, e con lui gli altri del popolo, gridando “viva la Libertà, viva la Repubblica” (De Nicola, pp. 184-5).
Altamura. Una via di fuga per i giacobini napoletani. Il card. Ruffo scrive all’ammiraglio inglese Troubridge: “Melfi tuttavia persiste nella ribellione e ora la vado a trovare. La squadriglia russa, con tre vascelli e due fregate, andò poi a Manfredonia e quella piazza pose subito bandiera reale; ed avendo il cav. Micheroux, ministro plenipotenziario presso la flotta russa, mandati dei proclami di amnistia generale, si è data al re in due giorni. Ascoli era già ubbidiente e Lucera. Foggia si è restituita al re da se medesima, imprigionando quantità di giacobini. Il promontorio Gargano è parimente ubbidiente a S. M. Le notizie che abbiamo dalla strada di Avellino a Bovino sono pure assai favorevoli, e s’incontrano quantità con coccarde rosse, ed a quei che le portano non si fa ingiuria né molestia: in alcuni luoghi però vi è ancora l’albero di libertà. Il mio disegno segue ad essere quello di venire con due colonne, una per Benevento, l’altra per Ariano, stringendo il blocco di Napoli, e lasciando aperta la strada alla fuga dei giacobini nello Stato del Papa” (Croce, “La riconquista…”, pp. 198-9).
L’eroismo repubblicano. “Intanto Micheroux fece nell’Adriatico uno sbarco di russi, che occuparono Foggia. L’occupazione, sia caso, sia arte, avvenne nei giorni in cui la fiera richiamava colà gli abitanti di tutte le altre province del regno; e così la nuova dell’invasione, sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore anche prima delle armi. Chi non sarebbesi rivoltato allora contro il governo repubblicano, dopo i funesti esempi di coloro che erano rimasti vittima del suo partito, vedendo dappertutto il nemico vincitore e niuna difesa rimaner a sperarsi dagli amici? Si era già nel caso che i repubblicani, ridotti a picciolissimo numero, sembravano essi esser gli insorgenti. Eppure l’amore per la Repubblica era così grande, che faceva ancora amare il governo, e tutti i repubblicani morirono con lui” (Cuoco, pp. 183-4).
Palermo. Nessuna clemenza. La regina scrive al card. Ruffo: “Il re può e deve da cristiano e padre perdonare ai suoi infami, scellerati ed ingratissimi sudditi e beneficati; ma non deve fare un patto o armistizio che avrebbe l’aria di timore o di non sapere come riprenderli. Il perdono e la clemenza sarebbe dispregiata e poco apprezzata: il rigore ed il timore li renderà docili, umili ed ubbidienti, e cammineranno nel cammino che la severità gli assegnerà, come una mandra di pecore appresso al bastone del pastore. Lui ne è sicuro: i Russi tante volte promessi, gli Austriaci, tutto in somma glielo rende sicuro quindici giorni più presto o più tardi; dunque siccome lo credo ancora io, V. E. con uno stuolo di paesani non deve rischiarsi contro gente che hanno armi, artiglieria ecc., ma aspettare la forza effettiva per insieme con essa cooperare al bene. Per me credo che dovrebbe pensare ad una vantaggiosa posizione per evitare mal’aria, caldo, ed essere vicino ai viveri: lì fermarsi ed aspettare l’avviso. Avrebbe da essere in una certa vicinanza dalla Capitale, che in due o tre giorni di marcia vi si possa trovare. Il re deve riprendere il suo regno da conquistatore e da padrone assoluto, mentre ci vorrà tutto il potere e forza per riordinarlo: e se non lo può prendere così, che lo abbandoni alla sua anarchia ed alle dissensioni intestine, ed aspetti il momento che la necessità e la disperazione li facciano venire a pregar lui medesimo di riprenderlo (…) Ho molto studiato Napoli ed i napolitani: anche in questa rivoluzione sono sempre i medesimi. Sette dei nostri primi signori sono fuggiti, cioè Francesco Avalos, Riario, Vaglio, Strongoli, Torella, Giuseppe Serra e Canzano (“questa fuga era una diceria, e dei nominati alcuni furono mandati al patibolo, altri carcerati, altri esiliati”, nota di Croce). Questo faranno tutti, ma va confermato dalla legge e dal governo il loro perpetuo esiglio dalla patria sotto pene rigide e forti se vi ritornano, e la confiscazione di tutti i loro beni. Non dico ciò per una vile avidità, anzi sono di parere che, malgrado i gravissimi danni e spese sofferte, il re non deve per lui prendere alcuno di questi beni, ma serviranno a premiare e beneficare i pochi a lui rimasti fedeli, a fare una casa di educazione per le vedove e figli di quelli periti per la buona causa e cose simili. In una parola credo e sono certa che Napoli sarà conquistato, e che i bricconi cambieranno maschera e linguaggio, o fuggiranno: preferisco l’ultimo, perché al primo mai avrò fede né fiducia: questo è il mio sentimento. In Napoli il popolo solo è restato fedele, e questo va premiato col rendergli dolce e facile l’acquisto dei generi di prima necessità: mettere una giustizia chiara netta e speditiva, una polizia ben regolata, ma trattare il resto della nazione dall’alto del trono, con giustizia ma severità: lasciare la distinzione dei ceti, ma lasciare aboliti tutti quelli abusi, che già i loro amici hanno abolito. Si deve cercare di rimettere l’ordine nel regno, cosa non facile ora che tutti i paesi sono avvezzi alla ribellione e ad agire con le armi, partiti contro partiti, e che il re non ha un esercito. Si deve riordinare tutto, creare, rifare: in somma un lavoro immenso, che avrà bisogno di molta attività, fermezza ed energia, ma severità, al principio più, poi meno, ma sempre con la massima giustizia, molta fermezza e severità (…) A Procida hanno avuto gli Inglesi appena partiti un serio attacco da 23 bastimenti condotti dall’ingratissimo ed infedele Caracciolo: sono stati, grazie a Dio, dal bravo Thurn e Cianchi respinti, ma già si preparano ad un altro, e Caracciolo non riposerà se non soddisferà il suo odio privato. Hanno fatto una unione all’ex Accademia dei Cavalieri per combinare se dovessero aspettare le forze nemiche o cercare perdono. Cirillo parlò da arrabbiato contro la misura del perdono: si cercò consiglio a De Marco, beneficato da sessanta e settanta anni, il quale consigliò che se si sentissero buoni denti rosicassero quell’osso. Se ciò non deve stomacare, lascio a chiunque il giudicarlo: del resto, la moribonda repubblica è più che mai sfrenata” (Croce, ib, pp. 194-7).
24 Maggio. Venerdì. Napoli. “Va in scena al Teatro del Fondo, con ingresso gratuito per il pubblico il “Timoleone” di V. Alfieri (autore in fama di giacobinismo): la speranza è quella di rinvigorire l’attaccamento alla causa repubblicana della cittadinanza” (Sani, p. 48). L’impresario del teatro, il principe Filomarino della Rocca, scrive ed affigge un Avviso per il pubblico di questo tenore: “Timoleone. Gran specchio di esemplarità, di virtù morali e Repubblicane fu questo antico sostenitore dei diritti dell’uomo! La sua modestia, degna veramente d’un cuore Filantropo, anche fra il lustro delle sue azioni e delle acclamazioni d’un intero popolo conoscitore dei sublimi suoi democratici sentimenti che lo condussero (oh, oggetto di invidia!) a soffocare per eroismo le più tenere voci della natura, merita d’essere ammirata, d’esser seguita, e di servire d’istruzione a tutto il Mondo rigenerato. Patriotti di Napoli, correte in folla a rassodarvi sempre più il cuore, a rendervi energici! L’Impresario per facilitarvi la strada dà in questa serata l’ingresso a tutti gratis, e quelli che vorranno alla porta pagare faranno un benefizio ai loro indigenti fratelli, ai quali sarà tale introito distribuito. Cittadini zelatori della patria, conducete gli artisti, i parenti, gli amici! L’azione è degna di voi” (Battaglini, p. 97).
Il Card. Ruffo parte da Altamura e arriva a Gravina di Puglia.
25 Maggio. Sabato. Napoli. “Quest’oggi si è saputo che parte subito Caracciolo colla fregata per Palermo. Si è detto che vada a trattare a dirittura col Re; altri che parta Stigliano a tal uopo; chi che vada pel cambio dei prigionieri, e finalmente chi crede che Caracciolo voglia uscire per una sfida avuta di battersi con un’altra fregata di eguale grandezza. I Francesi tutti stanno ritirati in S. Elmo. Il castello Nuovo si sta isolando, essendosi tagliato il ponte dalla parte della darsena, e stando facendosi un altro ponte col fosso dalla parte del Gigante di Palazzo” (De Nicola, p. 188).
L’albero della Libertà. “Il “Monitore”, nel numero 30 del 5 Pratile, parlando della funzione del bruciamento delle bandiere prese ai realisti, nel seguente modo fa la descrizione dell’albero piantato nel Largo Palazzo Nazionale: “Nel centro sorgeva l’albero della libertà, cinto, ad una dovuta altezza, da 7 fasce consolari, ornato più sopra di fasce tricolori,, nelle quali leggevasi il sacro nome della libertà, e dalle quali sporgevano in giro lunghi rami d’ulivo, di quercia e di lauro, ed in mezzo ad essi la bandiera Nazionale. Verso la cima, l’una nell’altra, a piccole distanze, due corone civiche ed una trionfale, ed infine il berretto repubblicano sull’apice con diversi nastri tricolori, che sventolavano” (De Nicola, p. 190).
Fraternizzazione paternalistica. Sempre in questo numero del “Monitore” si legge questo resoconto: “Nella gran sala della Società Popolare intervennero due cittadini del Mercato che sotto alla tirannia si chiamavano Lazzaroni. Questi furono assillati con applausi generali. Montarono la tribuna, e da là col linguaggio non dell’arte ma della natura dissero: “Noi veniamo in nome di tutti i cittadini del Mercato a manifestare il nostro attaccamento alla Repubblica. Noi siamo contenti dello stato presente e siamo pronti a difendere con la vita l’acquistata libertà”. E chiusero questi brevi ma profondi sentimenti democratici con gridar “Viva la Repubblica!, Viva la Libertà!, Viva S. Gennaro!” Ed a pluralità di voti si decise che in contrassegno del piacere con cui la società aveva ricevuto questi due fratelli, il presidente in nome di tutti i soci gli avesse dato l’abbraccio fraterno. Quest’atto fu accompagnato da vari “Viva l’uguaglianza e la libertà”. Si chiuse la seduta con una fraterna sovvenzione ed invitargli ad intervenire al altre riunioni con facoltà di condurvi chiunque altro fosse a loro grado. Un fratello ha esposto dalla tribuna che numero ancora maggiore di compagni avrebbe condotto se, mentre essi erano pronti a venire, uno tra loro non li avesse dissuasi. Quindi, dato in compenso a lui l’abbraccio fraterno, fu fatta ed approvata la mozione che il reo di tal fallo fosse per opera della Polizia restretto in casa di uno degli individui della Società ed ivi per più giorni alimentato a spese della medesima per renderlo struito nei suoi unici doveri. Dopo di che si mettesse in libertà. Una tal decisione meriterebbe bene la penna di Tucidide e di un Plutarco per renderla immortale (…) Il cittadino Luigi Serio fece in linguaggio napoletano un elogio alla gente del Mercato ed invitò tutti i cittadini a non usare più il vocabolo di “Santa fede” e di “Lazzarone”. La seduta del 26 si aprirà con la lettura di due inni patriottici in lingua napoletana” (Rodolico, pp. 176-7).
26 Maggio. Domenica. Napoli. “La notte scorsa il Governo è stato unito fino alle ore otto, e si dice che vi siano stati i deputati della Sala patriottica. Tre membri di quello hanno rinunziato, o li hanno fatto rinunziare, e sono Bruni, Pignatelli e Doria. Si crede che abbiano questi manifestati sentimenti moderati contro il sistema di terrorismo che nelle attuali circostanze i patriotti vogliono che si spieghi. E si dice che Pagano e Cirillo possino essere i Robespierre di Napoli. Il Governo sa che le insorgenze sono alle porte di Napoli, che la colonna comandata da Rutoli e Spanò fu battuta a Monteforte, essendosi rivoltata contro quella la stessa cavalleria ultimamente organizzata. Federici e Matera sono stati battuti a Benevento (…) Ho saputo quest’oggi medesimo che la dimissione dei tre rappresentanti fu proposta ieri sera stessa nella Sala patriottica. Si disse che Bruni con una lettera allarmante diretta agli abitanti di Puglia, con la quale diceva che si armassero contro i Russi che minacciavano sbarco, avea dato occasione alle insurrezioni in quella provincia. Che Doria si era opposto all’abolizione dei fedecommessi e dei feudi, spiegandoci un carattere aristocratico, e che Pignatelli essendo nipote di Francesco Pignatelli, già Vicario a Napoli nella fuga dell’ex Re, bastava ciò a renderlo sospetto. Immediatamente si mandò con tali accuse una deputazione al Governo, in seguito della quale i tre rappresentanti rinunziarono, e fu ammessa la loro rinunzia. Altra mozione fu fatta nella Sala patriottica, e fu, per togliere ogni sorta di distinzione, che si obbligassero i titolati e privilegiati ad esibire i loro titoli e privilegi per brugiarsi, si demolissero i Sedili, e togliessero tutte le imprese. Fu approvata pel dippiù, pei Sedili si disse, che potevano servire per publiche scuole di educazione publica. Finalmente si propose una coscrizione di 6mila patriotti per la spedizione di Puglia e si offerirono molti, anco esibendo danaro per le spese occorrenti. Questa Sala è nel massimo fervore” (De Nicola, pp. 188-9). –Arrestato dopo la fine della Repubblica, Bruno si ucciderà in carcere prima dell’esecuzione. Nota mia).
Genova. Le rapine dei francesi, le illusioni dei democratici. Cesare Paribelli, partito da Napoli in aprile per andare presso la Repubblica Cisalpina, forzato a rifugiarsi a Genova dopo le sconfitte dell’armata francese in Val Padana, scrive a Francesco Antonio Ciaja a Parigi per fargli un quadro dettagliato degli avvenimenti di Napoli. “Dopo la tua partenza ed il richiamo di Championnet le cose nostre cambiarono molto d’aspetto. MacDonald, successore di Championnet, sebbene nulla cambiasse pubblicamente del sistema del suo predecessore, non mancava però di contrariarlo in segreto e indirettamente. Le operazioni energiche del Governo venivano tutte paralizzate. Faypoult, colla sua orda divoratrice, venne a Napoli trionfante, e sitibondo d’oro e di vendetta. Estese la sua mano rapace sopra tutte le proprietà pubbliche e private; non vi era cosa di qualche valore nella Centrale e in tutta la Repubblica che non fusse munita d’un suggello della Commissione civile. Le casse pubbliche, la Zecca, i Banchi, le fabbriche ex-regie, le Ville, le Caccie, le Delizie, l’azienda Gesuitica, quella d’Educazione, la Dogana, le saline di Barletta, le case degli assenti da Napoli e dei seguaci della Corte, qualificati come emigrati; tutto in somma, non esclusi li beni maltesi e costantiniani e l’altre abbazie di regia collazione, erano muniti del fatale suggello (…) Ad un certo punto il Governo, che aveva spossato ogni mezzo di conciliazione, risolvette di dimettersi tutto, piuttosto che di prestar la mano allo spoglio della Nazione; ma, essendo in punto arrivato il Commissario organizzatore Abrial con ampli poteri, sospese l’esecuzione della sua determinazione, per vedere se codesto nuovo venuto potesse colla sua mediazione, o colla sua autorità, accomodare l’affare (…) Dopo la riorganizzazione fatta da Abrial, il nuovo Governo ha spiegato una massima energia, e gode l’universale confidenza di tutti i partiti in Napoli, ed è riguardato dal resto degli Italiani come l’àncora sacra delle sue speranze. La Guardia Nazionale di 12mila uomini scelti è organizzata e piena d’energia. Mantiene il buon ordine nella città, ed accorre a respingere valorosamente tutti gli insulti che tentano gli Inglesi nei diversi luoghi della costa (…) Matera comanda una spedizione in Puglia, Francesco Pignatelli da generale di brigata un’altra in Abruzzo e Basilicata, una terza da capo di brigata Schipani in Calabria, ed una quarta il generale di cavalleria Federici alla testa di 4 reggimenti di cavalleria quasi completati (…) I lazzaroni fraternizzano di buona fede col Governo e, poiché questo ha abolito la gabella delle farine, amano il sistema Repubblicano. Il cardinale ed il Clero si prestano di buona fede alle mire del Governo. San Gennaro fece prontamente il miracolo alla presenza di tutte le autorità costituite Napoletane e Francesi, con stupore di molti e con universale soddisfazione. Tutti li sforzi, i maneggi e le spese fatte dai Baroni per impedire la sanzione della Legge dei feudi, fatta dal primo Governo Provvisorio, e che restò sospesa per qualche tempo in mano di MacDonald, non riuscirono a mandarla a vuoto in mano di Abrial. Ella è giusta, sebbene un poco rigida; è ora in vigore e ha non poco contribuito a guadagnarci le Provincie. In Napoli regna l’abbondanza d’ogni cosa, tranne che di formaggio, e i lazzaroni, nelle loro effusioni di cuore, dicono che andranno in Sicilia a provvedersene colle baionette. Il Governo adesso è indipendente, e fuori di tutela. Abrial è in Roma, e non se ne mischia più (…) Pare che tutti concorrano di buon cuore alla causa pubblica, tanto più dopo che la veggono affidata a loro stessi. L’orgoglio Nazionale raddoppia l’energia. Non sono rimasti che 300 francesi in Sant’Elmo, e pochi altri a Capua e Gaeta; tutto il resto è nelle nostre mani. Il progetto di Costituzione è già stampato. E’ veramente democratico. Ora il Governo si occupa della di lui discussione, ed in breve la Federazione avrà luogo. Si può dire che vi è la tranquillità in tutte le Provincie, tranne in Calabria, ove l’antipapa Ruffo fa cose degne del suo nuovo carattere; ma una legione di volontari calabresi, già organizzata in Napoli, e le altre forze della repubblica, purgheranno la terra di quel mostro e restituiranno alla Magna Grecia il suo antico onore (…) Se non ci viene il male da coloro dai quali non dovremmo aspettare che il bene, noi ci sosterremo a dispetto di qualunque altro ostacolo” (Croce, “La rivoluzione del 1799…, pp. 318-27, passim).
Il card. Ruffo arriva a Poggio Ursino.
Nota bibliografica
- M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
- B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
- B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
- G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
- V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
- Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
- N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
- V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
- E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, Milano, 1986