Cronologia della Repubblica giacobina napoletana del 1799. 21° puntata. 14-20 maggio. “Borghesia terriera e contadini. Ruffo ammette le sue difficoltà militari. L’isolamento degli intellettuali giacobini. La discussione sulla Costituzione”

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ventunesima puntata. 14 – 20 Maggio 1799. “Borghesia terriera e contadini. Il cardinale Ruffo ammette ancora le sue difficoltà militari. L’isolamento degli intellettuali giacobini. La discussione sulla Costituzione”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

 

 

14 Maggio. Martedì. Napoli. Manthoné è nominato Ministro della Guerra.

Auspicio utopico o precoce consapevolezza dell’unità d’Italia? Eleonora Pimentel scrive sul “Monitore”: “L’attuale posizione d’Italia non è uno svantaggio: l’Italia resterà una nazione guerriera, combatterà del suo, non dell’altrui “ferro cinta”; si comprenderà la gran verità, che un popolo non si difende mai bene, che da sé stesso, e che l’Italia indipendente e libera, è utile alleata; dipendente, è di peso; perché la libertà non può amarsi per metà, e non produce i suoi miracoli che presso i Popoli tutti affatto liberi” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, p. 64).

Borghesia agraria e contadini. “La posizione assolutamente dominante dei feudatari non deve indurre nell’errore di credere che non esistessero nelle campagne altre forme di possesso o, meglio, altri proprietari. Non s’intende qui alludere alla proprietà ecclesiastica –che, in senso lato, può riguardarsi anch’essa come una forma di possesso feudale- ma al possesso allodiale, alle proprietà dei “galantuomini”, dei “civili”, che rappresentavano la borghesia meridionale. Come questa si fosse formata è lungo dire; la provenienza era varia: nobiltà di provincia declassata, suffeudatari, militi feudali e coloni e massari arricchiti; piccoli commercianti, rivenditori al minuto e artigiani e subalterni di tribunali; mercanti di campagna e amministratori di beni feudali ed ecclesiastici. Questa classe, che –proprio per la sua varia provenienza e per la dispersione della vita agricola e per interni contrasti di interessi e per il processo di formazione e di consolidamento ancora in corso- aveva scarsa coscienza di sé, dava al paese il maggior numero di liberi professionisti e formava quel ceto forense che costituiva uno dei più forti, e il più noto, raggruppamento sociale del Regno. Questa borghesia terriera era presente in quasi tutti i comuni, tranne che nei piccolissimi dove la differenziazione sociale non era sviluppata; l’estensione e il valore delle sue proprietà variavano da luogo a luogo e nel complesso erano già considerevoli, ma –quel che più conta- erano in continua espansione, allargandosi in danno, più che dei feudatari ancora troppo forti per essere toccati, delle proprietà ecclesiastiche e dei demani comunali. Accanto alla proprietà dei borghesi non mancava neppure la proprietà contadina, particolarmente diffusa nei piccoli comuni, la quale, tuttavia, tranne casi eccezionali, si presentava frazionatissima e non consentiva ai suoi possessori alcuna autonomia economica e sociale. La grande massa contadina era costituita dai “bracciali”, sui quali gravava tutto il peso del vecchio regime agrario. Erano tassati per la testa e per le braccia; erano costretti a mendicare il lavoro, trasmigrando da una regione all’altra; lucravano salari di fame e spesso potevano sopravvivere solo per l’aiuto che traevano dal godimento degli usi civici sui demani comunali. Le aspirazioni dei contadini a migliori condizioni di vita si precisavano in due punti: riduzione, se non soppressione, delle imposte e più larga partecipazione al possesso e ai frutti della terra. Essi non erano in grado di dare chiarezza di prospettiva politica a queste rivendicazioni, ma avrebbero certamente seguito chi le avesse inscritte nel suo programma e avesse tentato di realizzarle. Questo compito sembrava spettare ai “giacobini” ma, a prescindere dall’astrattezza dei programmi di costoro e dalla ristrettezza del tempo, non si dimentichi che in buon numero quei giacobini provenivano e dalla classe feudale e da quella borghesia terriera che aveva interessi concorrenti ed opposti a quelli dei contadini. Fallita la rivoluzione del 1799 si finì col ripristinare il vecchio ordine che aveva rivelato tutte le sue insufficienze e contraddizioni. Ma intanto le esperienze di quello sconvolgimento non mancarono di provocare importanti ripercussioni sulle forze sociali nelle campagne, aggravando la crisi dell’antico regime e preparando le soluzioni avvenire. Basterà accennare ad un fatto, a nostro avviso, di grande importanza: all’acceleramento e al compimento del processo di maturazione della borghesia terriera e provinciale che, violentemente scossa dall’insurrezione contadina, fu costretta a riflettere sui mezzi migliori di difendere i propri interessi minacciati dalla controrivoluzione popolare e dall’incerta azione del governo restaurato. La borghesia meridionale acquistò allora quella coscienza di classe che ancora le mancava e la cui assenza aveva contribuito a determinare il fallimento dell’esperimento repubblicano del ‘99” (Villani, pp. 245-7).

Bisceglie (Puglia). Oggi è abbattuto l’albero della libertà.

15 Maggio. Mercoledì. Napoli. Successo dell’ammiraglio Caracciolo nel mare di Procida contro gli Inglesi: è l’ultimo rilevante successo pieno dei repubblicani.

Monteforte (Principato Ultra). Nelle gole il colonnello borbonico De Filippis sconfigge il generale repubblicano Spanò, aprendo così la strada da Avellino verso Napoli ai sanfedisti.

Conversano (Puglia). “Le bandiere borboniche sostituiscono quelle repubblicane. Questo avviene anche a Ruvo. In Terra di Bari la Repubblica è finita. E con la caduta della Repubblica e col ripristino dell’antico regime crollano anche le speranze ed i sogni dei ceti popolari che hanno creduto di poter finalmente realizzare le proprie aspirazioni. Cadono tutte le illusioni” (Pedio, 181).

16 Maggio. Giovedì. Napoli. Domenico Cirillo organizza e sostiene un Circolo di beneficenza: aiuti per i poveri, soccorsi medici, istruzione.  “Nel suo foglio volante, il Progetto di carità nazionale, da lui firmato, scrive: “Si comincerà dal poco, ma il nostro zelo non si stancherà… Penetreremo noi nel seno delle povere ed oneste famiglie? E dopo che la beneficenza avrà cacciato la povertà ispireremo il desiderio del lavoro. Potremo forse renderci utili alle vicine campagne ed alle provincie lontane, dove la miseria spopolatrice distrugge l’agricoltura che è presso di noi la sorgente di tutte le ricchezze. E’ troppo giusto che i coltivatori abbiano parte anch’essi della beneficenza nazionale… Cittadini, se amate la Patria… asciugate le lagrime della povertà”. Nella stessa “Miscellanea” si conserva il resoconto del 16 maggio della “Casa di beneficenza”: “In alcune parrocchie i deputati e qualche benefico cittadino, entrando nel soggiorno della fame, della nudità, dell’abbandono e dell’avvilimento, hanno cercato con scarsi mezzi di diminuire in parte la desolazione di tante famiglie. Si sono invitati i medici per visitare i poveri infermi… Quanto da noi si è fatto finora è niente se si riguarda l’immenso numero dei miserabili che domandano aiuto, e che penetrano di afflizione le nostre anime sensibili; ma pure siamo contenti di avere portato la consolazione a molti e di avere rianimati tutti colla speranza di un sollievo più costante e più generale”. Il Cuoco, dopo avere severamente giudicato le Sale patriottiche, soggiungeva: “Io non confondo con le sale patriottiche quei circoli d’istruzione, ove la gioventù va ad istruirsi… In Napoli se ne era aperto uno, e con felici auspici; il suo spirito era quello di proporre varie opere di beneficenza che si esercitavano in favore del popolo: si soccorsero indigenti, si prestarono senza mercede all’inferma classe del popolo i soccorsi della medicina e dell’ostetricia. Questa era l’istruzione che avrebbe dovuto moltiplicarsi e perfezionarsi” (Rodolico, pp. 146-7).

17 Maggio. Venerdì. Altamura (Puglia). Il card. Ruffo scrive ad Acton: “A me non ostante le esagerazioni, che se ne fanno, i grandi scelerati sembrano pochissimi, perché non corrotti da lungo tempo questi popoli, ma dalla rivoluzione in poi. Barletta non è ancora resa, ma si renderà sicuramente. Confesso però che sono nella maggiore angustia, perché Micheroux vuole tornare in Corfù e piantarmi qui di nuovo, senza marina, vuol lasciare due bastimenti e non sappiamo se ad Ancona siavi giunta la divisione russa, di cui fa menzione nei proclami, e nel caso che non sia giunta, un qualche vascello francese che è sicuramente ad Ancona potrebbe rovinare tutta la spiaggia di nuovo. Interesserebbe moltissimo che tutta la Puglia fosse nostra, giacché il blocco di Napoli non può farsi senza impadronirsi di questa, o tagliando la comunicazione fra la Puglia e Napoli: è tanto vera questa idea che i Francesi, o sia i ribelli, ora non spendono i loro sforzi che per mantenere Avellino e Benevento, e recentemente vi è stato un fatto ad Avellino, di cui non so l’esito, ma deve essere stato considerabile per la durata del rumore del cannone che un corriere intese passando in quelle vicinanze (…) Le nuove che ho potuto rilevare dalle città che si sono rese portano che i Francesi andavano verso l’alto del regno, che portavano molte ricchezze rubate, che rubarono traini e muli carichi di ogni genere; che a un certo punto licenziarono i mulattieri minacciandoli, che vi fu un’orda che andò verso la provincia di Montefusco forse di 400, e che ritornava verso Napoli assai diminuita. I paesi realisti vi sono, benché rari, nell’avanzarsi verso la capitale, ma sono però per la maggior parte pronti a dichiararsi per il re; se un corriere realista passa, gli fanno carezze di nascosto. Io veggo che non potrò scendere dalla parte di Campestrino per Potenza, perché non vi è strada per condurre l’artiglieria, che non posso lasciare. Sicché sono costretto a domare Potenza con una divisione e contestualmente andare io a Melfi che è ribelle, e quindi aprirmi una strada per Bovino e poi ad Avellino se sarò abbastanza forte per poterlo fare: non metterei in dubbio questo se avessi 1000 oppure anche 500 Russi. La riputazione di questi e l’industria di moltiplicarne il numero mi assicurerebbero di far cedere il passo ai giacobini” (Croce, pp. 182-3).

Palermo. La regina scrive al card. Ruffo: “Tutto quello ch’ella fa e dice facendo sempre la mia ammirazione per la profondità del pensare e saviezza delle massime. Malgrado ciò, devo confessarle di non essere del suo parere circa il dissimulare ed obliare e anzi premiare per guadagnare i capi bricconi nostri. Non sono di questo parere, non per spirito di vendetta: questa passione è ignota al mio cuore, e se per rabbia parlo come se ne avessi, nel fatto provo e sento di non avere vendetta nel mio cuore, ma parlo per il sommo dispregio e poco conto che fo dei nostri scellerati, che non meritano né comprarsi né guadagnarsi, ma allontanarsi dalla società per non corrompere gli altri. Gli esempi di clemenza, di perdono, e soprattutto di rimunerazione ad una nazione così vile corrotta ed egoista come la nostra non ispirerebbero gratitudine e riconoscenza, ma invidia e pentimento di non averne fatto altrettanto, e farebbe più male che bene. Lo dico con pena, ha da essere punito di morte chi, avendo servito il Re, come Caracciolo Moliterno Roccaromana Federici ecc. ecc. si trovano con le armi alla mano combattendo contro di lui: gli altri tutti deportati, con obbligo da loro sottoscritto, secondo i gradi del reato o dell’impiego, di avere la pena straordinaria o perpetua; carcere severo se ritornano, confiscazione dei beni, e portarli o in America o, le difficoltà e spese essendo soverchie, in Francia, luogo di loro piacere, ma con l’obbligo e giudizio fatto e sottoscritto di non tornare in regno. Questi non aumenteranno la forza francese, non avendo né coraggio né energia; non aumenteranno i danni a noi per la stessa ragione, e ci libereremo di genti perniciose e scostumate, che mai di buona fede si emenderanno; e la perdita anche di qualche migliaio di simili individui è un guadagno per lo stato. Fatto questo esatto ed essenziale ripurgo, appoggiati non alle delazioni ma ai fatti servigi ed impieghi da loro ai nemici del loro re e patria prestati, fatto questo ripurgo indifferentemente su cavalieri, dame, ogni classe o persone, con giustizia, oculatezza, ricerca, e senza riguardi, allora dopo bisogna mettere pietra ed oblio alle indegnità commesse e le più severe proibizioni di non ardirsene più né parlare né rammentare, affiché tutti stiano quieti, e non aprire un pelago alle dissensioni, calunnie ed odi privati: ma per il principio credo il sommo rigore di tutta necessità. Non è questa una fellonia di essersi dati ad un altro sovrano, ma il sovvertimento di tutti i principi di religione, dovere, gratitudine, e che l’esperienza di tanti altri doveva fargli conoscere. Crederei la clemenza nocivissima, da loro creduta debolezza, e che non ci assicurerebbe un momento di tranquillità, ed il popolo, di cui la fedeltà non ha vacillato, vedrebbe come un atto d’ingiustizia questa nociva clemenza (…) Per me non sarò mai per perdonare a gente che sono l’unica colpa della perdita del regno loro patria: sarebbe ciò un pessimo esempio: scoraggerebbe i buoni ed incoraggerebbe i cattivi. Pochissima truppa nemica, un popolo in massa fedele ma timoroso, si è perduto il regno per i soli cattivi, e questi devono essere per sempre espulsi e puniti. Gli perdono di cuore, ma non so cambiare la massima; per qualche centinaio di meno d’infetti non soffrirà la popolazione mancanze; per dei nobili diminuiti se ne creeranno dei nuovi, e tutti quelli che realmente si distingueranno per la patria; ma i cattivi marcati e provati vanno tolti per sempre dalla patria che hanno tradita, uomini o donne senza riguardo (…) La nazione è docile e pieghevole, per non dire debole; ha bisogno di premio e di castigo per condurla e frenarla: e quale migliore occasione della presente per eseguire questi due sentimenti?” (Croce, pp. 186-9).

L’isolamento degli intellettuali giacobini. “Un altro errore, che vizia più particolarmente il giudizio storico sul periodo del quale discorriamo, consiste nel non avvertire o nel non tenere presente che la classe politica, formatasi nell’Italia meridionale, era, come si è detto, una classe intellettuale e di origine recente. Una “minoranza”, per adoperare la parola solita in questo caso; e non nel senso generico in cui ogni classe dirigente è un’eletta di uomini dotati di vigore e capacità di governo e perciò, fisicamente e numericamente, minoranza (sebbene idealmente maggioranza, ossia la vera maggioranza), ma nell’altro senso, che quella classe intellettuale non era riuscita ancora a compenetrare di sé la nazione, a legarla a sé con molteplici fili, a riunirne e muoverne le forze per indirizzarle secondo i propri concetti. Restano fuori di lei, intatti da lei, non solo l’immensa plebe della capitale (in cui tuttavia fremeva una forza, se anche selvaggia), e che di volta in volta ripeteva minacciosa che i Masanielli non erano morti, e il minuto popolo degli artigiani, e il numeroso sciame di servitori e cortigiani che si moveva attorno ai patrizi e baroni; ma la maggior parte della popolazione del Regno, i contadini e pastori, i quali non avevano altro barlume d’idea politica che la potenza del Re, presente in persona alla plebe della capitale e a lei caro per affinità di carattere e costume, splendente di lontano all’immaginazione dei popoli delle provincie. La classe sociale, che meglio avrebbe dovuto rispondere al pensiero e all’azione della classe intelligente, era, com’è naturale, il medio ceto di professionisti nella capitale e di nuovi proprietari nelle provincie, dal quale in massima parte la classe intellettuale proveniva e di cui continuamente si alimentava e accresceva. E i professionisti furono, infatti, quelli che più alacremente ne accompagnarono gli sforzi; ma la nuova borghesia delle provincie attendeva, come ogni borghesia incipiente, a far denari, ad assorgere economicamente, e perciò le mancava la necessaria elevazione d’animo per appropriarsi un concetto politico, sentirne la bellezza, assumerne i doveri, lavorare, soffrire e sacrificarsi per esso. Troppo era, d’altra parte, impegnata, con tutta la passione ed energia che possedeva, in una duplice lotta: l’una, municipale e intestina e spesso feroce, tra famiglia e famiglia cospicua e spesso ambiziosa dello stesso comune, del comune che per secoli era stato l’unica forma di vita pubblica di quelle popolazioni di provincia; l’altra, di sospetto e di difesa contro il contadiname, che, avverso ai baroni, era anche più avverso ai nuovi proprietari locali, usciti dal suo seno, impinguati delle sue fatiche, più duri verso di esso, come accade ai nuovi arrivati. Sicché questa borghesia che in tutti i concetti dei riformatori, nella liquidazione della proprietà ecclesiastica, nella liberazione dai vincoli feudali, nella divisione dei demani, nella sostituzione dei tribunali regi ai baronali, nella libertà dei commerci, ritrovava i propri interessi, forniva tuttavia un aiuto assai scarso alla classe intellettuale, disposta com’era più a ricevere che a dare, a prestare sussidio di parole che di fatti; e, dall’altro canto, coi suoi comportamenti verso il contadiname, lo rendeva diffidente e ostile ai novatori” (Croce, Storia del Regno, p. 277).

18 Maggio. Sabato. Napoli. “Questa notte parte la spedizione de’ patriotti per Puglia; altra dovrà partire pel Cilento; una terza per Calabria. Lo stato delle provincie è infelicissimo (…) Una monaca professa del monastero della Maddalena, di cognome Spiriti (credo che sia figliastra dell’ex marchese Spiriti, preside di Salerno) è uscita da quel monastero gravida di un tal Montefusco della terra di Santo Mango, e gli vien permesso dal Governo di sposare alla repubblicana innanzi alla Municipalità, avendo detto il Presidente Ercole d’Agnese, uno dei membri dell’Esecutivo, che la Repubblica non s’interessa dei motivi di Religione, ma solo della legittimità della prole, volendo cittadini” (De Nicola, p. 178).

Potenza. La città è occupata dagli insorgenti.

19 Maggio. Domenica. Napoli. “Il Governo questa mattina ha dato le bandiere alla nostra Guardia Nazionale, quest’oggi poi verso le ore 22 si è portata la detta Guardia, tanto a piedi che a cavallo, in gran parata innanzi al Palazzo Nazionale con bandiere spiegate, tamburro battente, e banda militare, ed accompagnata dal treno di artiglieria. Là giunta in mezzo a numeroso popolo ha fatto il giro della piazza, indi ha circondato l’albero, intorno a cui era innalzato da più giorni un palco in ogni facciata dal quale vi era un versetto come: “Odio eterno ai Tiranni”, e simili. Son montati sul palco alcuni della stessa Guardia ed hanno lacerate le bandiere tolte agl’insorgenti, strappandole, calpestandole, e gittandole in mezzo al popolo, che faceva lo stesso, gridando: “Viva la Libertà, Viva la Repubblica”, delle quali voci rimbombava la piazza e le case circostanti. Indi si sono aggraziati gli insorgenti di Castellammare che stavano ai ferri, e dessi sono anche montati sul palco, hanno abbracciato l’albore, e ricevuto l’abbraccio fraterno dai patriotti. Si sono ancora cantati alcuni inni; distribuivano qualche moneta, e chiamavano il concorso di altri. Ciò ha per oggetto di affezionare il popolo, e credo che ci riescano” (De Nicola, p. 179).

“Durante la “festa del bruciamento delle bandiere borboniche” davanti al Palazzo Nazionale i patrioti hanno intonato l’Inno della Repubblica Napoletana, scritto da Luigi Rossi e musicato da Domenico Cimarosa: “Cittadini, sul rogo che svampa / Come Muzio la destra stendendo,/ Giuramento giurate tremendo / Contra un Re, che di man vi fuggì” (Sani, pp. 47-8).

Il generale Pasquale Matera parte, con la Legione lucana, per le Puglie.

20 Maggio. Lunedì. Napoli. La Commissione Legislativa comincia a discutere il “Progetto di Costituzione” redatto da M. Pagano con la collaborazione di Cestari e di Conforti, stampato in aprile e che si apre con la frase: La Repubblica napoletana è unica e indivisibile. Esso rimarrà opera di pura dottrina perché non avrà attuazione pratica, a causa dei drammatici avvenimenti che accompagneranno gli ultimi giorni della Repubblica.

“In sede governativa, approvata l’abolizione della tortura e sancito il principio della certezza della pena, inizia la discussione del Progetto di Costituzione. Massima sintesi giuridica di tutta l’attività rivoluzionaria dell’autore, l’opera –costituita da una Dichiarazione de’ diritti e doveri dell’uomo, del cittadino e de’ suoi rappresentanti in 26 articoli, seguita dal testo vero e proprio suddiviso in 15 titoli e 421 articoli- si ispirava ai principi espressi nella Costituzione americana del 1787 e in quelle francesi del 1793 e del 1795” (Sani, p. 48). “Il progetto di Costituzione” si richiama anch’esso, come nelle altre repubbliche giacobine italiane, all’esempio francese, in particolare alla Costituzione dell’anno III, non senza elementi di originalità significativi dello sforzo dei patrioti napoletani di aderire il più possibile alle esigenze locali, pur nella sostanziale adozione del modello francese” (Rao, pp. 136-7).

Mentre nella Sala patriottica si agitavano le più sottili quistioni sul nuovo statuto, e la stessa libertà francese pareva scarsa per noi, comparve la Costituzione della Repubblica napoletana, proposta nel Comitato Legislativo dal rappresentante Mario Pagano. Era la Costituzione francese del 1793, con poche variazioni, suggerite da modesta libertà. Dispiacque leggere in essa rivocati i parlamenti comunali, tumultuosi veramente ed inutili sotto dispotica signoria, ma in repubblica mezzi opportuni alle elezioni ed amministrazioni, che sono i cardini di ogni libera società. Era debole in quella Carta il potere giudiziario, né appieno libero l’amministrativo; si applaudì all’immaginato corpo degli “efori”, sostenitori della sovranità del popolo” (Colletta, p. 313).

“La nuova Commissione Legislativa comincia a discutere (ma non concluderà mai il dibattito) il progetto di Costituzione, preparato dal precedente Comitato di legislazione e in modo particolare da Pagano con la collaborazione di Cestari e Logoteta. Il progetto ricalca il modello francese del 1795 ma ha anche alcune caratteristiche particolari. Nella “Dichiarazione dei diritti e dei doveri” si pone come dovere dell’uomo quello di soccorrere gli altri uomini e sforzarsi di conservare e migliorare l’essere dei suoi simili, quindi si fa obbligo di alimentare i bisognosi e di illuminare e di istruire gli altri. Quanto alla parte più propriamente istituzionale è previsto un organo esecutivo di cinque membri, chiamato Arcontato, e un corpo legislativo in cui però, al contrario della Costituzione francese, il diritto di proporre le leggi spetta all’assemblea più piccola, detta Senato, e quello di approvarle alla più grande, detta Consiglio. Infine sono proposte due istituzioni nuove: il tribunale di Censura in ogni cantone, che deve giudicare dei costumi dei cittadini, e l’Eforato, che deve essere una specie di alta corte costituzionale, autorizzata a proporre al Senato la revisione di articoli della Costituzione. Infine, come nella Costituzione romana, nessun articolo accenna al problema religioso e ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa” (Candeloro, pp. 260-1).

Campobasso. Sono fucilati undici insorgenti, arrestati ai primi di marzo per la strage compiuta a Ripalimosani il 3 febbraio.

 

 

Nota bibliografica

 

  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • B. Croce, Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1972
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • M. Rao, “Il Regno di Napoli nel ‘700”, Guida, Napoli, 1983
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • P. Villani, “Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione”, Laterza, Bari, 1973