Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Nona puntata.17-25 febbraio 1799. “Inizia la “discussione sui feudi”. Si avverte la mancanza di mezzi finanziari. Nelle campagne la rivoluzione assume uno spiccato carattere sociale, antifeudale e antiborghese nello stesso tempo. A Potenza viene crudelmente trucidato dai sanfedisti il vescovo Serrao”.
Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.
Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” -ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.
Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.
“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.
Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca e, insieme, l’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, si dimostra un intrecciarsi terribile di perduranze -anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.
Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.
Gennaro Cucciniello
17 febbraio. Domenica. Napoli. “Si è innalzato questa mattina in piazza del Mercato l’arbore della libertà con grande musica: vi ha assistito Championnet, ed ha perorato al popolo Carlo Lauberg; indi si è sparso fra lo stesso un complimento di dolci e biscotterie” (Sani, pp. 25-6). La notizia è così riportata dal “Monitore” della Pimentel: “Furono innalzati due alberi, prima nella Conceria, poscia nel Mercato, a spese di quei Capo lazzari. Championnet, a cavallo col suo Stato Maggiore, ed una Deputazione del nostro Governo, si portò ad assistere ad entrambi. Al mercato si trovò per loro innalzato sontuoso palco, dove però salì indistintamente gran turba di cittadini. La gran piazza, i vicoli che vi spuntano, tutti i balconi, finestre, terrazze, che vi riguardano, erano pieni di una gioiosa moltitudine di ogni età e sesso. Una scelta orchestra rallegrò la funzione. Il Presidente Laubert, con bella popolare arringa, rammentò al popolo il suo Masaniello, e spiegogli come la presente rivoluzione altro non è che quella stessa che far volle, e per tradimento non poté eseguire Masaniello. Scelti vini forestieri e dolci erano a pié dell’albero” (p. 89).
Si moltiplicano i giornali. “E’ uscito il primo numero del “Corriere di Napoli e di Sicilia”, opera del francese Marcilly, ricchissimo notiziario bilingue italo-francese a cadenza bisettimanale, concepito come un odierno giornale. Oltre alle notizie politiche provenienti da tutto il mondo, vi trovano infatti spazio le più importanti informazioni culturali e alcune strisce di varietà poetico-divagatorie. Principale scopo del giornale è quello di far conoscere ai cittadini le opinioni e le operazioni di coloro che li rappresentano nel Governo Provvisorio” (Sani, p. 26).
18 febbraio. Lunedì. Napoli. Vengono istituiti una Commissione di polizia e una Commissione Militare per giudicare in materia penale.
La “discussione sui feudi” inizia oggi nel Consiglio legislativo della Repubblica ma viene subito rinviata al 7 marzo. Nei giorni scorsi ho riportato due pareri, espressi in modo significativo da due donne, la regina Maria Carolina e la giornalista Eleonora De Pimentel, ed entrambe insistevano sull’abolizione della feudalità, naturalmente da sponde opposte. “L’incapacità ad esprimere le reali esigenze rivoluzionarie è dimostrata proprio dal modo come fu impostata e si svolse la discussione su questo principale problema della società meridionale. La discussione sui feudi, iniziata il 18 febbraio, rinviata al 7 marzo, approvata dal Legislativo ma respinta dal generale Macdonald, si svolgerà in aprile, quando già nelle province la reazione aveva riorganizzato le sue file e l’esercito reazionario della Santa Fede aveva ottenuto notevoli successi nelle Calabrie. Era già un grave segno della debolezza del movimento repubblicano il fatto che essa fosse affrontata con tanto ritardo, mentre una corrente dell’opinione pubblica aveva ritenuto intrinsecamente distrutti i diritti e i possessi feudali nell’atto mercé il quale la nazione aveva proclamata la sua libertà, nel momento stesso, cioè, in cui era stata istituita la Repubblica (…) L’indirizzo che il movimento repubblicano aveva assunto fin dall’inizio nelle campagne era in contrasto con questi tentativi radicali di riforma ed era orientata decisamente verso la formazione di un blocco di proprietari, nobili e borghesi, contro gli assalti dei contadini alle terre demaniali e feudali” (R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Bari, Laterza).
“E’ emanato un editto che obbliga i cittadini, proprietari di case, a disselciare il tratto di strada avanti alla loro casa e a fare, a loro spese, trasportare i sassi fuori le mura della città” (Rodolico, p. 168).
Caiazzo. “Il popolo è ordinariamente più saggio e giusto di quello che si crede. Talora le sue disgrazie istesse lo correggono dei suoi errori. Ho veduto delle popolazioni diventar repubblicane ed armarsi, perché nella loro indifferenza erano state saccheggiate dagli insorgenti. In Caiazzo taluni della più vile feccia del popolo insursero ed attaccarono le autorità costituite; tutti gli altri erano spettatori indolenti: gli insorgenti soli furono i più forti, vollero rapinare, e questo ruppe il letargo degli altri. Allora gli insorgenti non furono più soli: tutta la popolazione difese le autorità costituite; ed, istruita dal pericolo, Caiazzo divenne la popolazione più attaccata alla repubblica. Tutto può esser utile ad un governo attivo, che conosca la nazione e non abbia sistemi” (Cuoco, p. 108).
19 febbraio. Martedì. Napoli. “Dopo un periodo di iniziale sottovalutazione dei fenomeni di insorgenza nelle province, è deciso l’invio di un’armata di circa 6000 uomini affidata al generale Duhesme, e di una legione della Guardia Nazionale agli ordini di Ettore Carafa” (Sani, p. 39).
Calabria. Il card. Ruffo inizia il raduno delle truppe “a massa”. “Il cardinale con 7 uomini era sbarcato in Calabria; armi e denari gli aveva promesso la Corte a Palermo; e furono vane promesse; e vani furono gli appelli a soldati ed ufficiali dello sbandato esercito regio; pazzesca giudicavano l’impresa ministri e generali nella saggia prudenza, che i sicuri ozi di Palermo consigliavano; privo era il cardinale di collaboratori, esperti delle arti di guerra e dell’amministrazione; povero era il paese, in cui egli doveva improvvisare il suo esercito. Né bastava incitare alla guerra, raccogliere uomini ed armarli, occorreva disciplinare quella massa tumultuosa. Molti di quelli, ed erano tra i migliori, consideravano entro l’angusto orizzonte del proprio paese il fine della guerra di liberazione dal giacobinismo paesano, e stavano per abbandonare l’armata, quando dopo i primi successi in Calabria, il Ruffo già si accingeva a proseguire la marcia verso le coste dello Jonio” (Rodolico, pp. 236-7).
Nelle province il popolo si attende grandi novità dalle nuove leggi repubblicane. “Le prime notizie dell’ingresso delle truppe francesi in Napoli cominciarono a giungere in Calabria negli ultimi giorni di gennaio. Ma soltanto l’arrivo del corriere, che portava i simboli della nascente repubblica, valse a rompere lo stato d’incertezza predominante in tutti i ceti e segnò l’inizio della democratizzazione di quasi tutta la regione. Democratizzatesi le due capitali, Cosenza e Catanzaro, e i centri di maggiore importanza, parecchi paesi ne seguirono subito l’esempio e, in generale, il mutamento di governo procedette senza grandi lotte e senza spargimento di sangue. Si restrinsero nelle proprie case, a salvaguardia dei propri averi, tutti i borboniani, ma molti di loro mutarono la propria bandiera secondo le novità, e le elezioni dei nuovi dirigenti della vita comunale si svolsero in un clima di moderato entusiasmo con la partecipazione ben spesso del basso popolo, che si attendeva grandi novità dalle istituende leggi repubblicane” (Cingari, 116-7). Il Monitore scrive che “a Cortale, un casale di Maida, una madre di famiglia, nonostante l’età avanzata e l’inferma salute, alla testa del popolo è andata a intuonare il Te Deum per la proclamata repubblica”.
20 febbraio. Mercoledì. Napoli. “Questa mattina si sono trovate murate le porte tutte del Teatro di Separazione, e si è saputo essere stato perché ieri sera vi si rappresentò una comedia in prosa, il cui soggetto fu un monarca detronizzato e poi rimesso in trono (L’Aristodemo)” (De Nicola, p. 75). “Il generale Championnet ha ordinato la costruzione di un vascello e di due fregate da farsi nel cantiere di Castellamare, oltre le scialuppe cannoniere. Due altri legni nostri sono già in corso per sostenere il commercio, e si aspetta la flotta Francese uscita da Tolone” (ibid).
Le comunicazioni interne non sono sicure. “Grave si presentava la questione delle comunicazioni, che per mancanza di forze non si potevano mantenere libere e sicure fra le varie province e fra queste e Napoli: sicché si ignorava alla capitale ciò che avveniva nelle provincie, e nelle provincie ciò che accadeva nella capitale” (Serrao De Gregorj, 146).
“I signori –rileva il Micheroux- temendo per le loro sostanze eransi affrettati a costituirsi in democrazia”. E per la democrazia si schiera sostanzialmente anche l’alto clero meridionale. Nonostante sia ostile ai Francesi per la posizione da questi assunta nei confronti del Papato, in Terra di Bari, come del resto in quasi tutte le province meridionali, vescovi ed abati, fatte ben rare eccezioni, aderiscono al nuovo regime perché non intendono rinunziare alla loro posizione economica minacciata dall’eventuale realizzazione delle aspirazioni popolari. I contadini non sono né realisti né repubblicani ma innanzi tutto proletari, che nell’atmosfera nascente di libertà si levano a tutela dei loro diritti per tanti secoli conculcati, scacciano dalle amministrazioni pubbliche i nuovi dirigenti, sostituiscono alle antiche autorità magistrati e dittatori plebei ed, erigendosi sulle discordanti fazioni borghesi, proclamano ed effettuano la loro rivoluzione. E poiché la democrazia s’impersona nei galantuomini che sfoggiano lusso e ricchezza tra le misere popolazioni, e poiché i maggiori protagonisti del nuovo regime vengono dalle famiglie più doviziose, non di rado processati per usurpazioni di terre demaniali, consegue che latifondista e proprietario sono termini equivalenti di repubblicano e di liberale” (Pedio, pp. 147-8).
21 febbraio. Giovedì. Napoli. Il governo provvisorio è paralizzato in tutte le sue operazioni dalla mancanza di mezzi finanziari.
Bagnoli del Trigno (Abruzzo). “Una massa di Albanesi, di circa 300, invade il paese, commettendo rumori e furti. Il Comune, per evitare mali maggiori, diede loro, fra cibi e contanti, 220 ducati” (“Gli Abruzzi nel 1799”, p. 175).
22 febbraio. Venerdì. I Francesi occupano Benevento e Foggia.
Avigliano (Basilicata). “Don Giulio Corbo, rivolto al popolo, disse che il nuovo governo repubblicano non esigeva alcun peso dei cittadini e che il popolo avrebbe avuto il gran beneficio di potersi dividere tutte le difese baronali. Li cittadini inclinarono immediatamente al governo rivoluzionario sulla speranza di potersi dividere le difese del principe Doria come se gli era dato ad intendere. Quando videro che tutt’altro facevasi dalla Municipalità fuorché la ripartizione di dette difese, diedero segno di controrivoluzione; ed alcuni più risentiti minacciarono di non solamente voler tagliare l’albero, ma ben anche bruciare le case di tutti i galantuomini, che crederono di opporsi alla spiegata divisione. Alle minacce del popolo i patriotti acconsentirono. Al suono di tamburo andiede il popolo a bruciare la siepe e la mandra per uso di vacche della più vicina difesa denominata S. Angelo, credendo così di riceverne il possesso. La stessa sorte toccò ad altre difese baronali. Siccome li repubblicani fecero vedere di mandare in effetto le loro promesse, così il popolo non gli fu mica ingrato per essersi in tutto e per tutto determinato di voler sostenere la democrazia” (Rodolico, 194-5).
Eboli (Principato Citra). “La rivoluzione nelle campagne del Sud ebbe uno spiccato carattere sociale, antifeudale e antiborghese insieme. E’ la richiesta della soluzione della questione demaniale, è il problema della terra che mette in movimento le masse e che schiera su due fronti opposti quei ceti sociali che erano andati differenziandosi proprio in seguito alle trasformazioni fondiarie avvenute nel ‘700: i galantuomini coi giacobini, il contadiname dalla parte avversa. Riflesso non di idee e posizioni di carattere generale e dottrinario ma di condizioni locali e contingenti. Si occupano e si dividono demani, feudi. La notizia che il feudatario M. A. Doria, principe di Angri, si era fatto repubblicano raffredda l’entusiasmo iniziale: lo sparuto gruppo di giacobini locali è fatto da agenti fittuari amici del Doria. Le “cacce reali” di Persano sono proclamate dalla nuova Municipalità, nominata dall’alto, beni nazionali e non si possono toccare. I contadini si schierano dalla parte opposta e aspettano la prima occasione per manifestare la loro reazione” (P. Villani, p. 30). “Per i contadini, la caduta della monarchia significa solo il segnale d’inizio di una ribellione a lungo repressa nei confronti dei proprietari terrieri. E quando questi –galantuomini, borghesi o ecclesiastici- decidono in blocco la loro adesione ad una repubblica desiderosa prima di tutto di tutelare l’ordine pubblico evitando rivolgimenti sociali di qualsiasi sorta, le masse contadine e i ceti popolari urbani si ritrovano schierati automaticamente dall’altra parte della barricata. La lotta combattuta nelle province tra fautori e oppositori del nuovo governo non obbedisce così a criteri politici immediati ma diviene la conseguenza di conflitti sociali latenti da secoli, la cui esplosione ha poco o nulla a che vedere con l’assimilazione o la critica dei nuovi principi rivoluzionari. I simboli repubblicani divengono perciò gli obiettivi da colpire per le masse in rivolta, che solo per volontà di opposizione ad essi si appropriano spesso dei simboli della monarchia borbonica, incoraggiate in ciò da una nobiltà votata quasi sempre all’attesa. Ciò che preme alle masse sono solamente due cose: il possesso delle terre e lo sgravio fiscale. Rivendicazioni che la Repubblica non sa, non può e non vuole soddisfare, a partire dalla legge sull’abolizione della feudalità a lungo rimandata. Sacrificando, anche a causa della continua pressione esercitata dai francesi, gli interessi della nazione a quelli dei proprietari terrieri, la Repubblica decreta così la propria fine lontano da Napoli. Non è giusto perciò leggere tout court le sommosse e le insorgenze antirepubblicane come espressioni di un desiderio di restaurazione monarchica da parte delle masse popolari” (Sani, pp. 33-4).
23 febbraio. Sabato. Napoli. “Championnet emana il suo ultimo proclama ai cittadini napoletani, delineando lo sviluppo della futura azione politica del Governo Provvisorio. Il piano attribuisce ai singoli Comitati il compito di predisporre i progetti su proposta dei ministri, mentre l’Assemblea dei Rappresentanti avrebbe dovuto approvarli fungendo da vero e proprio organo legislativo. Si fissa inoltre alla data del 21 marzo la celebrazione della Festa della Repubblica, alla quale avrebbero dovuto partecipare gli elettori provenienti da tutti i Dipartimenti. Nel corso della festa sarebbero stati proclamati la sovranità del popolo napoletano, l’atto di indipendenza della Repubblica e la nuova Costituzione” (Sani, p. 40).
Il ministro dell’interno, Conforti, scrive una circolare. “Egli raccomanda alle Autorità della Repubblica e ai cittadini di fare in maniera che vi sia il menomo malcontento possibile e che la classe di quei che travagliano e soffrono sia risollevata e risenta i benefizi del governo. All’industria e soprattutto all’agricoltura, nudrice degli uomini, è dovuta tutta la cura delle amministrazioni. Si faccino esse ad esaminare e visitare così la bottega del falegname e quella del pittore (…) sappiano incoraggiarli (…) prevengano essi il torto che l’avidità del ricco appaltatore cerca sempre d’inferire all’artigiano e al lavoratore povero. Proteggano l’agricoltore e il cittadino industrioso, che procaccian la propria sussistenza con la fatica e con l’onesto guadagno e li mantengano in quel comodo stato e in quella dolce mediocrità, la quale meglio che il lusso e gli spaziosi palagi conviene alla condizione dei Repubblicani”. E’ una lezione di morale o un programma politico? I patriotti al governo fallirono per le illusioni delle loro ideologie e per la tirannide dei loro liberatori francesi (Rodolico, pp. 139-43).
Mileto (Calabria). L’armata di Ruffo s’ingrossa. “Sono giunto in Mileto, dove secondo l’appuntamento sono con mio piacere concorse quelle popolazioni che erano state da me indicate, quasi tutte con armi, ed ascendono presso ad otto in diecimila persone”, così il card. Ruffo scrive ad Acton. Ruffo si fermerà a Mileto sei giorni, fino al 28 febbraio (Placanica, p. 180).
24 febbraio. Domenica. Napoli. Giunge da Parigi notizia che sarà inviato a Napoli André-Joseph Abrial per organizzare il nuovo governo repubblicano.
C’è un aneddoto interessante a proposito delle tassazioni. “Fu proposto ai tassatori se dovessero dalle rendite dei monasteri detrarre l’importo per pesi per messe, e regolar la tassa sulla rendita depurata da tali pesi. Uno dei deputati tassatori, a nome Francesco Greco, prese la parola e declamando sostenne che dovea togliersi una volta questa superstizione, e quindi non doversi fare una tale deduzione. Se gli oppose l’altro deputato Antonio Lanzetta, il quale disse, che posto da parte ogni principio di Religione, dovea considerarsi che le messe davano il sostentamento a tanti cittadini quanti erano i preti, e quindi doversi esentare tali rendite. Il deputato Ilario Pirelli disse che non voleva caricarsi la coscienza; ed il Lanzetta soggiunse che non avevano essi facoltà di commutare la volontà dei defunti che avevano i loro beni assegnati per fondare di limosina di messe. Si fece passar la voce intorno e tutti concorsero nel sentimento di Pirelli e Lanzetta. Ma il Greco ostinatamente sostenne il suo, e disse che sarebbe andato al Provisorio. Si stabilì dunque di rappresentare, fu eseguito, e si ebbe una risposta che niente decise. La sera, nella Sala d’Istruzione, perorò la cittadina Eleonora Fonseca, e recitò un sonetto da lei fatto mentre era in S. Elmo, ed un inno allorché uscì. Costei si dice che estenda il “Monitore Napoletano”” (De Nicola, pp. 78-9).
Potenza. Viene trucidato dai sanfedisti il vescovo Andrea Serrao, di 68 anni. “La sera prima una buona donna si presentò a lui e gli disse d’aver sentito che presto sarebbe stato assalito il palazzo episcopale e il Vescovo ucciso. Congedata la donna, il vescovo ordinò ai domestici di lasciare aperte le porte del palazzo, dicendo: Signore, sia fatta la tua volontà! La mattina, una turba armata di 24 uomini sitibondi di sangue, seguiti da volgari curiosi, che presto ne divennero sinistri compagni, corse con rabbiose grida di “abbasso la repubblica e morte ai giacobini” in piazza del Sedile e abbatté l’albero della libertà. Si volse quindi verso il palazzo del Vescovo, sempre gridando e minacciando. La turba invase il palazzo, entrò nella camera del vescovo, che trovò ginocchi dinanzi al crocefisso in atto di preghiera. Pongono le mani addosso all’unto del Signore e gli intimano di morire. “Figli miei, che vi ho fatto io?” –serenamente domandò egli. Ed essi: “Sei giacobino, sei repubblicano, sei nemico del Re”, e, così dicendo, lo trassero seco, lo urtavano, lo spingevano, lo caricavano di mille oltraggi e, trattolo sulla strada, di mille punte il trafissero. Negli estremi istanti della sua vita, il degno e religioso prelato sollevò la destra, e segnando in aria la croce, benedisse i suoi carnefici. Ma gli spietati, insultando all’esanime spoglia, ne recisero il sacro capo, ove erasi già annidata tanta sapienza; e, confittolo sulla cima di una lunga pertica, lo portarono come in trionfo per le strade della città esterrefatta. Insieme col vescovo vennero trucidati il rettore del Seminario e i due fratelli Siani. Il vescovado fu saccheggiato (…) I virtuosi cittadini di Potenza vendicarono il loro vescovo e uccisero, tre giorni dopo, 19 di coloro che avevano trucidato il prelato” (Serrao De Gregorj, pp. 345-7). La morte del vescovo Serrao fu commemorata nell’Assemblea Nazionale francese dall’abate Grégoire e paragonata a quella dei primi martiri del cristianesimo.
In memoria di questo vescovo eroico che seguì il richiamo alle origini del cristianesimo. “La morte violenta ha reso famoso Giovanni Andrea Serrao più delle battaglie giurisdizionalistiche contro Roma, che pure gli valsero l’appellativo di campione del giansenismo meridionale. Il profilo di vescovo riformatore e giacobino ha finito per velarne la figura di uomo, il cammino culturale, gli ideali di riforma religiosa, le speranze di ascesa sociale per le classi popolari. Ma proprio la sua vicenda dà l’opportunità di ricostruire il complesso intreccio di condizionamenti in cui anche i rappresentanti delle alte gerarchie ecclesiastiche dovettero maturare le loro scelte. Era nato a Castelmonardo nel 1731, primogenito di una distinta famiglia, proprietaria terriera. Destinato al sacerdozio, studiò a Roma, dove frequentò esponenti del giansenismo. Dopo una breve permanenza presso il seminario di Tropea, col fratello avvocato Elia, fissò la dimora a Napoli. Sostenuto dal richiamo alle origini del cristianesimo per trasformare la Chiesa, entrò nella “falange antivaticana”, schiera di intellettuali che sull’impegno anticuriale cominciavano a innestare un movimento per le riforme economiche. In venti anni di fedele milizia regalista partecipò alle principali iniziative del governo napoletano, come le scuole del Salvatore (in cui fu docente) o la Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere di cui fu segretario. Il 7 giugno 1782 fu nominato vescovo di Potenza. La scelta rappresentò il segno della volontà del re di cercare contrasti, non accomodamenti con la Santa Sede: per le simpatie giansenistiche, Serrao era sgradito al papa. Trovò a Potenza una diocesi difficile: clero ribelle, baroni prepotenti, borghesi divisi, popolo superstizioso e analfabeta. Il richiamo all’autorità dei vescovi appariva l’unica via per governare un gregge la cui disgregazione era favorita dall’alto clero, custode geloso di antichi privilegi. Ma contribuiva a infuocare un clima di tensioni non estraneo al tragico epilogo. Con la scoperta delle congiure antimonarchiche del ’94 e del ’95, un’ombra di sospetto si addensò sugli amici con i quali Serrao aveva condiviso molte battaglie.
Il 3 febbraio 1799 anche Potenza venne democratizzata. Serrao compì gli atti della nuova municipalità. Ripropose il passo di San Paolo sulla necessaria obbedienza all’autorità costituita, perché voluta da Dio. La sua riflessione non era orientata solo a ribadire l’origine divina di ogni potere: era arricchita dalla consapevolezza della relatività di ogni forma di governo. In questa prospettiva la svolta giacobina appare meno enigmatica. In realtà, la sua adesione alla Repubblica fu priva di esitazione: nel nuovo regime crollava la monarchia di cui era stato fedele servitore, ma restavano confermati i suoi interessi religiosi, politici e sociali. I moti in Rionero in Vulture e a Tito confermarono la necessità di distogliere la popolazione dagli eccessi. Serrao fece valere il peso dell’autorità episcopale. Nell’elezione della municipalità fece in modo che la scelta cadesse su persone di fiducia. Costoro, sperando di tenere a freno il violento Francesco Giacomino, gli affidarono la guida della guardia civica che, invece di mantenere l’ordine, finì per seminare terrore. Un po’ dovunque si ebbero moti controrivoluzionari. All’eccidio di Montesano seguì quello di Potenza. Il 24 febbraio con Serrao furono uccisi il rettore del Seminario, Serra, e i fratelli Siani. Le teste, su picche, furono portate in corteo ed esposte per quattro giorni. Un velo di omertà coprì i delitti. I sospetti su personaggi locali furono messi a tacere, il disagio si manifestò nelle modeste onoranze funebri. A Parigi, invece, nell’Assemblea Nazionale, se ne celebrò solennemente il martirio: “Francesi, l’assassinio di Serrao indietreggia di un secolo la sapienza. Io chiedo esemplare vendetta contro gli autori del sacrilego misfatto”. A pronunciare queste parole fu Henri Grégoire: fautore della costituzione civile del clero, coglieva nel richiamo alle origini del cristianesimo l’ispirazione ideale del vescovo” (Elvira Chiosi, 27).
25 febbraio, Lunedì. Napoli. Il generale Championnet riceve l’ordine di arresto da parte del Direttorio. C’è un rimpasto nell’ambito del Governo Provvisorio: sono nominati Vincenzo De Filippis e Leopoldo De Renzis. Domenico De Gennaro sostituisce il francese Bassal al Ministero delle Finanze.
A nome del Governo Provvisorio C. Paribelli scrive alla Deputazione Napoletana a Parigi: “Ecco il prospetto della nostra Repubblica: non è certamente il più consolante per il momento ma lascia travedere in lontananza lo sviluppo di quell’energia repubblicana, che dovrà un giorno rinnovare le antiche glorie degli abitanti di queste belle contrade. Il governo è paralizzato in tutte le sue operazioni dalla mancanza dei mezzi di finanze; né è in grado di fare per ora quei grandi sacrifici, che gli suggerirebbe la di lui riconoscenza per l’armata della Nazione Francese; pure ne fa d’ingentissimi a proporzione delle sue forze, ma ciò molto male produce nell’opinione de’ Popoli, che, per ridurli nel buon sentiero, avrebbero bisogno di essere accarezzati, anziché oppressi e irritati nelle loro miserie. L’idea della passata ricchezza di questa Nazione ha forse fatto fare dei falsi calcoli ai nostri Liberatori. Championnet riconobbe per giuste le nostre pretensioni e ci promise di appoggiare. Voi dunque dovere concertarvi con lui, perché ci siano accordate dal Direttorio” (Relazioni dei patrioti napoletani, pp. 288-91).
“Questa mattina dovea nel Governo Provisorio trattarsi dell’abolizione dei dritti feudali, ma si è differito. Il rappresentante Mario Pagano ha chiesto 15 giorni di ristoro per la sua salute; io l’ho veduto bene, e mi pare che non sia molto contento dei compagni” (De Nicola, p. 79). Nota il Galasso che, ciò nonostante, il 7 marzo la legge era pronta e sottoposta per la ratifica al generale Macdonald che si rifiuterà di firmarla (p. 518).
Nota bibliografica
- E. Chiosi, “Il vescovo Serrao trucidato a Potenza”, in “Speciale Bicentenario del quotidiano “Il Mattino” di Napoli, 21 gennaio 1999, p. 27
- Gennaro Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
- V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
- Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
- G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno”, Einaudi, Torino, 1975
- T. Pedio, Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1994
- N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
- V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997
- F. Serrao De Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934
- P. Villani, “Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione”, Bari, Laterza, 1962