Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Quarta puntata. 21-25 gennaio 1799. “Nasce la Repubblica democratica napoletana, una e indivisibile. Il re Borbone da Palermo invia il cardinale Ruffo in Calabria”.
Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.
Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.
Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.
“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti” (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.
Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.
Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.
Gennaro Cucciniello
21 gennaio. Lunedì. Napoli. Nasce la Repubblica Napoletana, una e indivisibile. Nella mattinata una trentina di patrioti giacobini, asserragliati nella fortezza di Castel Sant’Elmo e stretti attorno all’albero della libertà piantato nel cortile, proclama la nascita della Repubblica Napoletana una e indivisibile. “Tra l’esultanza generale Eleonora De Fonseca Pimentel legge le parole dell’Inno alla Libertà composto per l’occasione. Sotto, in città, infuriano gli scontri tra i francesi e i lazzari” (Sani, p. 16). “Il primo atto della Repubblica Napoletana è un Progetto di Decretazione, scritto a Sant’Elmo da Giuseppe Logoteta, uno dei capi dell’organizzazione giacobina clandestina, e che porta anche la firma dei generali Moliterno e Roccaromana. In esso si pongono alcuni princìpi: necessità di rafforzare la difesa del Golfo; assunzione, come debito nazionale, del debito lasciato dal re, riflettendo al pericolo che corrono tante famiglie di rimanere depauperate, perciò viene riguardato come infame chiunque parlasse di bancarotta; formazione de’ trattati di alleanza e di commercio colle Repubbliche italiche, facendo assieme de’ voti per la libertà italiana; richiesta alla Francia di una Costituzione, volendo ovviare alle dispute inutili” (Battaglini, 31).
“Gennaro Serra di Cassano guida Eleonora per la scala al terrazzo in alto, dov’è il portale in marmo con aquile rampanti. Lì hanno issato l’albero della libertà, un bel tronco verde, appena scortecciato. Lungo la balaustra patrioti armati di fucili, a destra i componenti del Governo Provvisorio. Qualcuno le fa un sorriso un po’ triste, Fasulo, in redingote nera fiammante, strizza l’occhio. Pallido, solenne, Logoteta ascende i gradini marmorei che menano all’ingresso. Si ferma sotto il fregio alato, nel silenzio estrae una pergamena. Con voce strozzata d’emozione, però squillante, grida: “In nome del popolo napoletano! Dichiaro decaduta per sempre la monarchia borbonica nelle persone di Ferdinando IV e Maria Carolina, per alto tradimento e abbandono vile del regno! In nome del popolo finalmente libero, dichiaro costituita la Repubblica napoletana una e indivisibile!”. “Viva la Repubblica!” s’urla da ogni parte. I patrioti sparano due salve, una tromba squilla argentina dagli spalti. Commozione, baci, abbracci, anche lacrime” (Striano, 300).
Intanto in città. “Il Magistrato cittadino, per la paura di eccessi del popolo, aveva indetto pubbliche preghiere ed esortato don Tommaso Fiore, venerato dal popolo, a pregare S. Gennaro” (Rodolico, 150). “Gli Eletti della “Città” scrivono ai patrioti di Sant’Elmo: “Ma come frenare 40mila armati, tutti sbandati in più luoghi, i quali hanno fatto rinculare il nemico, i quali hanno tolta insino buona parte dell’artiglieria, affrontandola a petto nudo e scoperto, uniti e incoraggiati da moltissima truppa di linea, capi Sergenti e Caporali?” (Rodolico, 124).
22 gennaio. Martedì. Napoli. I francesi entrano in Castel Sant’Elmo. Viene issata la bandiera della Repubblica napoletana (blu, rosso e giallo).
“Un manipolo di patrioti –furono loro stessi a definirsi così, per la prima volta nella storia d’Italia- avevano espugnato Sant’Elmo con uno stratagemma ed oggi espongono un tricolore fatto col blu di un vecchio cappotto, il bianco di un lenzuolo, il rosso di un paramento sacro del priore di San Martino. Era il segnale per l’attacco francese” (P. Gargano, p. 15).
“Si è veduta una guerra viva nel centro della città. Il popolo che si era armato crebbe in furore all’avvicinamento delle due colonne francesi, che si avviavano per la via di Forino, ossia di Capodichino e porta Capuana. Andò cercando cavalli, soccorsi e munizioni per la città, e andava facendo fuoco in faccia a tutte le case, finestre, balconi, ed ogni altro luogo, per cui molti onesti e quieti cittadini ne rimasero vittima. Saliva per le case commettendo incendii, a quelle case ove diceva esservi de’ Giacobini, così dal popolo chiamati i partigiani de’ francesi. Intanto le armate francesi s’inoltrarono entro la città sempre facendogli fronte il popolo, cosicché il quartiere di porta Capuana ed il largo delle Pigne divennero campi di battaglia, ove specialmente si fece un fuoco vivo per sette ore continue, e i francesi si videro sul punto di retrocedere. Sovragiunse il soccorso dei giovani degli Incurabili che fecero fuoco sul popolo; il castello di S. Elmo che fulminava sullo stesso col cannone e mitraglia. La giornata dunque terminò tra il fuoco che fecero i francesi e quello che fece il popolo. La sintesi efficace del diarista. E’ da rimarcarsi, il giorno 22 novembre il re di Napoli marciò verso Roma col suo esercito, il giorno 22 dicembre si pose in mare per andarsi a rifuggiare a Palermo, ove si trova, ed il giorno 22 gennaro sono entrati i francesi in Napoli” (De Nicola, p. 30).
La resistenza dei popolani. “Una parte delle milizie francesi, incanalata per i Sette Dolori, giunse fino alla Pignasecca; l’altra lanciata per San Carlo a Mortelle e per Ponte di Chiaia arrivò al Grottone di Palazzo. La manovra mirava a chiudere in un cerchio di fuoco i popolani: ed essa era riuscita, quando il popolo con magnifico sforzo riuscì a ricacciare il nemico, che fu costretto a ritirarsi a Santa Lucia a Monte. Frattanto le artiglierie di Castel S. Elmo tiravano a mitraglia su via San Carlo all’Arena e a Foria, dove i popolani avevano quattro cannoni da campagna. Alle spalle dei popolani verso Porta di San Gennaro gli studenti dell’Ospedale degli Incurabili tiravano con moschetti e con un cannoncino. Proprio così, poiché i difensori di Napoli non avevano soltanto di fronte lo straniero, ma i cittadini: “da sopra le case si seguita a tirare sopra la plebe inferocita, vasi da fiori, pietre e fucilate. La strada di Toledo, tutta fino a Chiaia, è piena di robe buttate sui Lazzari”. Il barone Cresceri, ambasciatore austriaco a Napoli, scriverà: “Da molte case, specialmente da parecchi conventi di frati, si spararono infinite archibugiate e si lanciarono vasi da fiori contro quelli che armati correvano per opporsi ai francesi”. La notte non diede tregua: narra il generale Thiébault che mentre una parte dei suoi soldati riposava tra le rovine e i cadaveri di Piazza Capuana, i loro compagni continuavano a combattere contro quei forsennati di cui nulla poteva calmare la pazzia” (Rodolico, 126-8).
“Tutti i buoni desideravano l’arrivo dei francesi. Essi erano già alle porte. Ma il popolo, ostinato a difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò tanto coraggio, che si fece conoscer degno d’una causa migliore. In una città aperta trattenne per due giorni l’entrata del nemico vincitore, ne contrastò a palmo a palmo il terreno: quando poi si accorse che Sant’Elmo non era più suo, quando si avvide che da tutti i punti di Napoli i repubblicani facevan fuoco alle sue spalle, vinto anziché scoraggito, si ritirò, meno avvilito dai vincitori che indispettito contro coloro ch’esso credeva traditori” (Cuoco, pp. 81-2).
“In quel giorno si compiva anche il miracolo della liquefazione del sangue di san Gennaro, ma di esso, in quel giorno che fu il più terribile della lotta, non fu data notizia al popolo, che avrebbe potuto interpretarlo come incitamento alla resistenza” (ibidem, 150). “L’odio terribile, l’odio della paura da una parte, e l’odio della conculcata libertà e dignità morale dall’altra, non bastano a spiegare la ferocia della lotta allora iniziata, se non si tiene presente che il giacobinismo (come tra i primi riconobbe il Tocqueville) era una religione, e che al contrasto la vecchia e superstiziosa religione, col suo complemento di vecchia politica e di vecchia moralità, si raccendeva, e che dunque la guerra che si combatteva era della specie più feroce, guerra di religioni” (Croce, p. 205).
23 gennaio. Mercoledì. Napoli. “La matina continuò la resistenza popolare; e durò fino all’ora 22, quando cedette il borgo di Loreto ed altri luoghi di Napoli. Si temeva giustamente il sacco alla città, e si è poi saputo essersi anche disposto, e bisogna dire che dovevasi questo sfogo al soldato che aveva a forza di sangue sparso vinta la città. Ma poi l’intercessione dei buoni, e la mansuetudine e clemenza insieme del generale Championnet, la vinsero. Alle ore 22 e mezza dunque si vide affisso un breve proclama in cui con brevi ma energiche parole questo generoso generale annunziò al popolo, di aver egli per un momento sospeso il furore del soldato vincitore, ed assicurava tutti nelle persone e nella proprietà, purché fossero rientrati nella quiete ed avessero consegnato nel castello Nuovo tutte le armi, minacciando di fucilare chi ardisse di tirare un colpo in città, o chi continuasse a tenere delle armi nascoste” (De Nicola, pp. 30 sgg). “Era il cielo brillantissimo, come suole in Napoli nel gennaro” (P. Colletta). “La mattina l’attacco francese si sferra dalle posizioni occupate per togliere al popolo i forti che erano ancora in suo potere. L’artiglieria di Castel S. Elmo batteva Castelnuovo. Riuscì quindi non difficile ai francesi dare l’assalto, impadronirsi dei cannoni che erano nella piazza e occupare il Castello. Più aspro era stato il combattimento al Ponte della Maddalena. Alla fine il Broussier assalì e prese il forte del Carmine. Il popolo era vinto! Incendi, rovine, cadaveri ingombravano le vie e le piazze” (Rodolico, 128-9). “La gente quieta –scriveva quel giorno un testimone- riguardava quali angeli discesi dal cielo li Francesi, tanta era la paura che avevano dei Lazzari”. Non diversamente scriveva un certo Bonelli, agente a Napoli della Corte di Torino: “Il generale Championnet entrava a Napoli alla testa della sua cavalleria. Tutti gridavano evviva. Ma chi gridava di miglior cuore e con eccesso di giubilo e trasporto d’allegrezza erano tutti i benestanti e tutta la nobiltà, che tutti sarebbero rimasti vittime dei Lazzari, se Dio non mandava l’angelo liberatore con i suoi eroi repubblicani a liberare questa città dalla furia di un popolo sviato”. E’ noto l’episodio di Michele il Pazzo, capo dei Lazzari. Era caduto prigioniero a mezzogiorno. Condotto innanzi allo Championnet, fu assai bene accolto. Si narra che il generale francese riuscisse a commuovere il popolano e a convincerlo essere i francesi liberatori dei popoli e rispettosi della religione. Michele fu allora insignito del grado di capo brigata dell’esercito repubblicano e guidò fino al Duomo lo squadrone di cavalleria, destinato a montare la guardia d’onore a S. Gennaro. Il popolo –si ripete- acclamò entusiasta i francesi. Ma il generale Thiébault, che comandava lo squadrone di cavalleria, ricorda nelle sue “Memorie” con un senso di grande paura quel tratto di strada percorso da Porta Capuana al Duomo. “Viva, viva San Gennaro!”, gridava Michele il Pazzo, e a squarciagola facevano coro il Thiébault e i suoi soldati. I popolani dapprima attoniti, poi furiosi, rispondevano al grido di S. Gennaro con minacce di morte. Fu proprio un miracolo di S. Gennaro, se il Thiébault e i suoi compagni, galoppando e vociando, arrivassero sani e salvi da S. Gennaro” (Rodolico, 132-3). L’arcivescovo Zurlo scrisse in una lettera, riferendosi ai fatti di questo giorno, “che m’intesi soffiare all’orecchio, e che mi fu notificata con la sanzione del generale in capo, la responsabilità che si dava al Clero di tutti i disordini e di tutte le mosse del popolo. Mi si fece sentire che alla sola condizione di garantire io la sicurezza dei Francesi e di far sopportare pazientemente al popolo il nuovo governo, la religione cattolica sarebbe rimasta in questo paese tollerata ed anche garantita. Questa condizione mi si imponeva nel mentre che 140 francesi sotto pretesto di essere una guardia d’onore per S. Gennaro mi avevano imprigionato e avevano dichiarato di dover vivere a mie spese”. Dovette l’arcivescovo subito in una circolare ai parroci attestare che la protezione della Provvidenza alle armi francesi per la rigenerazione e felicità del popolo di Napoli era “confermata ancora dalla straordinaria miracolosa liquefazione del sangue del nostro protettore S. Gennaro, avvenuta nella sera medesima dell’ingresso dell’armata francese”. La data non era esatta (Rodolico, 150).
“La monarchia napoletana, senza che se l’aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la prima volta, “bande della Santa Fede”. I contadini e pastori abruzzesi contesero ai francesi gli Abruzzi; i lazzaroni di Napoli si opposero con tre giorni di accanito combattimento all’entrata dello Championnet” (Croce, p. 206).
Il Governo Provvisorio repubblicano. “Lo stesso giorno 23 i patrioti di S. Elmo presentarono allo Championnet, insieme colle deliberazioni da essi prese, una lista di nomi di persone sulle quali si poteva contare per gli ufficii da istituire prontamente. Cosicché può dirsi che dalla vecchia rocca angioina uscirono, belli e formati, il governo provvisorio e la rappresentanza municipale della nuova Repubblica. Ed usciva anche da S. Elmo, con Eleonora De Fonseca Pimentel, la giornalista della Repubblica”. Da Capodimonte Championnet nomina il Governo Provvisorio della Repubblica che, nello stesso giorno, si riunisce sotto la presidenza di Carlo Lauberg. La struttura del governo è ricalcata su quella che era stata attuata a Milano prima, e a Roma poi, dagli occupanti francesi: è cioè un organismo unico che esercita, insieme, le funzioni legislative e quelle esecutive. “La norma più importante è contenuta nell’art. IV, là dove è detto che i decreti dell’Assemblea dei Rappresentanti non hanno forza di legge se non dopo la sanzione del generale in capo. Da questa disposizione scaturiscono due fondamentali conseguenze: il Governo Provvisorio è in realtà privo di qualsiasi autonomia e indipendenza; le truppe francesi sono truppe di occupazione con funzione sovrana nel territorio della Repubblica” (Battaglini, pp. 71-2).
“Il Governo Provvisorio è composto da due organismi: l’Assemblea dei Rappresentanti (25 membri), investita dell’autorità legislativa, e sei Comitati (centrale, di legislazione, di polizia generale, militare, di finanze, d’amministrazione), incaricati dell’esecuzione delle leggi. Lo schema adottato è quello della Francia post-termidoriana precedente la Costituzione dell’anno III (1795), fatta eccezione per l’assenza dell’organo assembleare elettivo, la Convenzione. La particolare situazione napoletana imponeva infatti l’istituzione immediata, senza alcuna dilazione, di un governo in grado di legiferare e di preparare la Costituzione in vista delle elezioni dirette dei rappresentanti del popolo. In realtà i 25 membri dell’Assemblea erano gli stessi che avrebbero dato vita ai Comitati, rendendo così puramente fittizio lo sdoppiamento delle funzioni dei due organi. Fuori dal Governo sono quattro ministri (guerra, finanze, interno, giustizia e polizia), addetti all’esecuzione delle decisioni prese dai Comitati. La delicatissima funzione di Segretario Generale è affidata a Jullien, Commissario di Guerra dell’armata francese e fedelissimo di Championnet; ministri della guerra e delle finanze sono i francesi Arcambal e Bassal. Più che di repubblica, sarebbe dunque lecito parlare di occupazione militare a tutti gli effetti” (Sani, pp. 17-8).
24 gennaio. Giovedì. Napoli. “La città in certe strade spirava tetraggine, spopolata e deserta. Tre editti erano affissi firmati dai cittadini generale in capite Moliterno e generale Roccaromana, i quali assicuravano il popolo di esser venuta l’armata francese a sottrarli dall’oppressione del passato Governo, e gl’insinuava la pace e la quiete e la esibizione delle armi. Appurai in seguito che il saccheggio era stato sospeso, onde si quietarono” (C. De Nicola). “I francesi, che avevano visto sbandarsi quasi senza combattere l’esercito borbonico, rimasero stupiti alla nuova e ben più aspra guerra da cui si trovarono avvolti e che per la sua qualità precorse quella che dovevano più tardi affrontare in Spagna. La loro ammirazione per i lazzaronis, ces héros enfermés dans Naples, salì al cielo; e non poco pensiero d’allora in poi si dettero di codeste masse della Santa Fede. La fama dei calabresi ed abruzzesi si sparse dappertutto, come (dice un recente storico) “insuperabili combattenti individuali per forza coraggio ferocia e pertinacia, i più temibili d’Europa nelle guerriglie, sebbene i più facili a smarrirsi come truppe regolari” (Croce, p. 207).
“La prima cura di Championnet fu quella d’installare un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la Costituzione permanente dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a 25 persone, le quali, divise in 6 comitati, si occupavano dei dettagli dell’amministrazione ed esercitavano quello che si chiama potere esecutivo; riunite insieme, formavano l’assemblea legislativa. Le persone scelte furono: Giuseppe Abbamonte, Giuseppe Albanese, Pasquale Baffi, il francese Bassal, Domenico Bisceglia, Vincenzo Bruno, Giuseppe Cestari, Ignazio Ciaja, Raimondo De Gennaro, Melchiorre Delfico, Raffaele Doria, Pasquale Falcigni, Nicola Fasulo, Domenico Forges Davanzati, Carlo Lauberg, Giuseppe Logoteta, Antonio Nolli, Gabriele Manthoné, Mario Pagano, Cesare Paribelli, Francesco Pepe, Girolamo Pignatelli di Moliterno, Diego Pignatelli del Vaglio, Vincenzo Porta, Giovanni Riario, Prosdocimo Rotondo” (Cuoco, pp. 86-7). “In realtà i Rappresentanti non saranno mai 25 poiché Pepe sarà ucciso in Puglia il 6 febbraio diretto a Napoli per prendere possesso della carica, Nolli e Delfico non riusciranno mai a raggiungere la capitale dall’Abruzzo, il Moliterno sarà inviato a Parigi come membro della Deputazione Napoletana presso il Direttorio. Lauberg, ex monaco scolopio, -uomo politico, filosofo, scienziato e decano dei patrioti napoletani-, è nominato presidente del Comitato Centrale e dello stesso Governo Provvisorio. Dei 26 membri complessivi, 7 appartengono alla nobiltà, 19 al ceto medio (avvocati, intellettuali, ex ufficiali, professionisti). Rispetto al radicalismo dei giacobini del 1792-4, l’orientamento ideologico è caratterizzato da un’impronta decisamente più moderata (che rende tra l’altro anacronistico e improprio l’uso del termine giacobino), conseguenza delle mutate condizioni politiche francesi dopo la normalizzazione post-termidoriana e l’avvento del Direttorio” (Sani, pp. 18-9). “Questa organizzazione del governo per Comitati, con prevalenza del Comitato centrale che doveva dirigere la politica generale, ricordava quella del governo rivoluzionario francese durante la Convenzione, quindi era, forse per influenza dell’ex robespierrista Jullien, almeno formalmente giacobina. In pratica anche la Repubblica napoletana era sottoposta alla dittatura del generale comandante l’armata francese, la cui sanzione era necessaria perché le leggi emanate dal governo divenissero esecutive. Tuttavia, finché rimase a Napoli Championnet, esistette un buon accordo tra lui e Lauberg che dirigeva il governo” (Candeloro, p. 255).
“Championnet andò con pompa militare, accompagnato da gente infinita e festosa, in S. Lorenzo, casa di onorate memorie per la città; e nella gran sala, dove già stavano i governanti, egli così parlò: “Cittadini! Voi reggerete la repubblica temporaneamente; il governo stabile sarà eletto dal popolo. Voi dunque avete autorità sconfinata, debito uguale; pensate ch’è in vostre mani un gran bene della vostra patria, o un gran male, la vostra gloria, o il disonore. Io vi ho eletto, ma la fama vi ha scelto; voi risponderete con l’eccellenza delle vostre opere alle commendazioni pubbliche, le quali vi dicono dotati di alto ingegno, di cuore puro e amanti caldi e sinceri della patria. Nel costituire la repubblica napoletana, agguagliatela, quanto comportano i bisogni e costumi, alle costituzioni della Repubblica francese. L’esercito francese sosterrà le vostre ragioni, aiuterà le opere vostre o le fatiche, pugnerà con voi o per voi”. La sala era piena di popolo. Al bel discorso udironsi plausi e furono viste sugli occhi a molti lacrime di tenerezza e di contento. Declinato il romore, Laubert rispose (-come al solito Colletta costruisce un discorso di fantasia, sia pure ricorrendo a spunti autentici-): “Cittadino generale, certamente dono della Francia è la nostra libertà, ma strumenti del benefizio sono stati l’esercito e il suo capo; con minor valore, o minor sapienza e virtù, voi non avreste vinto esercito sterminato, dispersi popoli di furor ciechi, espugnate le rocche, superato il disagio del cammino e del verno. In questa terra, da’ petti nostri, uscirono i primi desideri di miglior governo, i primi palpiti di libertà; in questa terra dai petti nostri fu dato il primo sangue alla tirannide; qui furono i ceppi più gravi, i martori più lunghi, gli strazi più fieri. Voi, generale, ci avete portato il governo per gli uomini, la repubblica; sarà debito nostro conservarla. Ella è opera vostra, consigliatela, sostenetela. Noi vogliamo solo la felicità della patria”. Tutti giurarono” (Colletta, pp. 298-9).
“Scandalosa fu per il popolo la festa tenuta nel Convento di S. Martino per l’istituzione della Repubblica con un ballo in costumi repubblicani, con danze e con inni repubblicani. E a quelle danze nella sala del Priore costui e i suoi frati avevano lietamente assistito” (Rodolico, 158).
25 gennaio. Venerdì. Napoli. “L’attività legislativa del nuovo governo è fin dall’inizio frenetica, per fornire alla Repubblica le strutture portanti in tutti i settori dell’amministrazione pubblica. Il primo atto esecutivo del Governo Provvisorio riguarda la soppressione di tutti i titoli nobiliari, dei fedecommessi e dei maggiorascati, considerata un passo indispensabile verso la più generale abolizione della feudalità. La legge sarà pubblicata solo il 10 febbraio”. (Sani, pp. 20-1).
Palermo. Il cardinale Ruffo è inviato in Calabria. Ferdinando IV nomina il cardinale Ruffo suo Vicario Generale in Calabria e gli affida il compito di ricacciare francesi e giacobini dal territorio del regno. Il cardinale, già Tesoriere Generale dello Stato Pontificio dal 1785 al 1791, è tornato in patria e si è messo al servizio dei Borbone. Riporto alcuni passi del Diploma di nomina: “La necessità di accorrere prontamente con ogni efficace e possibile mezzo alla preservazione delle provincie del Regno di Napoli dalle numerose insidie, che i nemici della Religione, della Corona e dell’ordine promulgano ed adoperano per sovvertirle, mi determina ad appoggiare a’ di lei talenti, zelo ed attaccamento, la cura ed importante commissione di assumere la difesa di quella parte del Regno non ancora invasa da’ disordini di ogni genere e dalla rovina che la minaccia nell’attual seria crisi. Incarico pertanto Vostra Eminenza di portarsi sollecitamente nelle Calabrie, come la parte ho a cuore premurosamente di porre per prima nel massimo grado di praticabile difesa, per combinarne le operazioni o misure con quelle che convengono alla difesa del regno di Sicilia, e camminare in esse di concerto contro il comune nemico, tanto per rendere immune l’una e l’altra parte da ostilità, come da mezzi di seduzione, che si possono introdurre negli estesi loro litorali per arte e tentativi dei malintenzionati della capitale, o del resto dell’Italia. Le Calabrie, la Basilicata, le provincie di Lecce, Bari e di Salerno, l’avanzo di quella di Terra di Lavoro e di Montefusco, ch’è restato dopo la scandalosa cessione fatta, saranno l’oggetto delle di Lei massime ed energiche premure. Ogni mezzo che dall’attaccamento alla Religione, dal desiderio di salvare le proprietà, la vita e l’onore delle famiglie, o delle ricompense perché si distinguesse, crederà di poter impiegare, va adoperato senza limite, ugualmente che i castighi i più severi. Qualunque molla finalmente che giudicherà poter suscitare in quest’istante, e crederà capace di animare quegli abitanti ad una giusta difesa, dovrà eccitarla. Il fuoco dell’entusiasmo, in ogni regolar senso, sembra nell’attual momento il più atto a superare, come a contrastare con le novità, che lusingano l’ambizione di alcun, con l’idea di acquistare per rapine, colla vanità e l’amore proprio di altri, e coll’illusoria speranza che offrono i fautori delle moderne opinioni e de’ maneggi rivoluzionari, ma di cui gli esempi in tutta l’Italia presentano il contrario aspetto e le più desolanti conseguenze (…) Rispetto dunque alla forza militare, dovendo io presumere che non n’esista della regolare, sarà di lei cura, ed è l’oggetto principale della sua commissione, di eccitare ogni mezzo ed ogni maggiore energia, perché si riorganizzi un corpo militare qualunque, sia composto esso di soldati fuggiaschi, o disertori, che in patria riacquistassero il coraggio e l’animo, che ha distinto i bravi corpi de’ Calabresi nei recenti fatti col nemico; oppure sia di que’ buoni e buon pensanti abitanti, che le sacre ragioni esposte e patenti di valida difesa come l’onore nazionale, possono indurre a prendere efficacemente le armi” (Battaglini, pp. 103-7). “Il re diede incarico al cardinale Fabrizio Ruffo di andare in Calabria nei feudi della casa, vedere, sentire lo stato della provincia e, secondo i casi, avanzarsi nel regno o tornare in Sicilia: il grado, il nome, la dignità gli sarebbero aiuto all’impresa, e scudo contro la malvagità dei nemici. Andò voglioso con pochi seguaci, meno denaro, autorità senza limiti, larghe promesse” (Colletta, p. 324).
Nota bibliografica
- M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
- G. Candeloro, “Le origini del Risorgimento. 1700-1815”, Milano, Feltrinelli, 1978
- P. Colletta, “Storia del reame di Napoli, ESI, Napoli, 1969, v. II
- B. Croce, “Storia del regno di Napoli”, Bari, Laterza, 1972
- G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Milano, Principato, 1975
- V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
- Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
- Fiordelisi, “I Giornali di Diomede Marinelli”, Napoli, 1901
- P. Gargano, “Gennaro Serra di Cassano. Un portone chiuso in faccia al tiranno”, Magmata, 1999
- V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997
- E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, 1998