Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Terza puntata. 16-20 gennaio 1799. “Vigorosa resistenza popolare contro i Francesi. Il tricolore repubblicano giacobino sventola sopra Castel Sant’Elmo”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Terza puntata. 16-20 gennaio 1799. “Vigorosa resistenza popolare contro i Francesi. Il tricolore repubblicano giacobino sventola sopra Castel Sant’Elmo”.

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti” (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29).  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

16 gennaio. Mercoledì. Napoli. “Il Corpo di Città credette giunto il momento di costringere il Vicario Pignatelli a consegnare al Magistrato cittadino tutti i poteri, adducendo a ragione che il popolo oramai non aveva più alcuna fiducia che nel Corpo di Città”. Tentativo degli aristocratici di esautorare il Vicario del re. “Poi non è vero che allora i Lazzari fossero incitati da preti e frati. I preti e i frati in quei giorni, atterriti all’idea di un predominio di popolo, celebravano tridui e processioni perché la pace fosse segnata, anche con l’umiliazione dei vinti. Vi era in fondo della coscienza di quel popolo, calunniato, un intimo senso, sia pure confuso, di giustizia, che era stato profondamente turbato da tradimenti, di cui esso era, o credeva, di essere vittima; vi era in fondo all’animo di quel popolo un intenso affetto al proprio paese, che ora vedeva calpestato dallo straniero; vi era in fondo di quella coscienza la vecchia avversione del povero contro il ricco. Questa avversione che a Napoli, diversamente dalla provincia, non era mai degenerata nell’odio di classe e nella rivolta sociale, ora prorompeva in odio selvaggio, poiché il prepotente, il ricco, il signore, il paglietta, il prete stesso apparivano favoreggiatori dello straniero. Non occorreva l’oro dell’emissario per armarne il braccio” (Rodolico, p. 105).

“Quel che non era riuscito all’esercito borbonico, riuscì a una disordinata accozzaglia di circa 50mila popolani esasperati e inferociti, guidati dal loro capo Michele Marino detto ‘O Pazzo, una sorta di novello Masaniello. Da Palermo, intanto, il re, ricevuta la notizia dell’armistizio, scatenava tutta la propria ira nei confronti del Vicario, ordinando la sua destituzione e la contemporanea creazione di un governo militare retto dal Mack. Inutilmente, perché in questo stesso giorno Mack si consegnava ai francesi in cambio della fuga verso il Settentrione” (Sani, p. 14). “Il popolaccio corse a Caivano per deporre Mack, il quale, sebbene alla testa delle truppe, non seppe far altro che fuggire: depose la divisa di generale del re di Napoli e vestì quella di generale austriaco; si presentò a Championnet e pretendea, qual generale austriaco, non dover essere fatto prigioniero di guerra” (Cuoco, p. 80).

L’Aquila. I francesi fucilano indiscriminatamente i prigionieri.

Cosenza. A torme ritornano gli sbandati dell’esercito borbonico e frequenti sono gli attentati alla proprietà da parte dei malviventi e dei contadini.

Benevento. La città è conquistata dall’armata francese di Broussier.

17 gennaio. Giovedì. Napoli.  Il Vicario Pignatelli, ormai completamente esautorato, fugge a Palermo ove lo attende, per decisione del re, il carcere. “Nel corso della notte, anche il Vicario, “in veste da camera, colla moglie, dalla loggia della sua casa s’imboccò nelle scale della Scalea a Santa Lucia e si imbarcò furtivamente su di una barchetta”. Padrona della situazione, la “Città” procedette però a tentoni, cercando di volgere a proprio favore la sommossa popolare. Inizialmente sembra che la “Città” riesca a controllare la rivolta del popolo: i Lazzari, colpiti dai successi colti alle porte di Napoli dal principe Girolamo Pignatelli di Moliterno, lo acclamano Generale del Popolo insieme a Lucio Caracciolo duca di Roccaromana” (Sani, pp. 14-15).  Il vicario fuggì come era fuggito il re (…) I popolani si scelsero per loro capi Moliterni e Roccaromana, giovani cavalieri che allora erano gl’idoli del popolo, perché avevan mostrato del valore a Capua e a Caiazzo contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per poco i trascorsi popolari, ma la calma non durò che due giorni. I francesi erano già quasi alle porte di Napoli” (Cuoco, p. 80).

18 gennaio. Venerdì. Napoli. La sommossa popolare culmina nell’eccidio dei fratelli Filomarino e nel rogo della loro biblioteca privata. “Ogni vincolo sociale fu rotto. Orde forsennate di popolaccio armato scorrevano minaccianti tutte le strade della città, gridando “Viva la santa fede”, “Viva il popolo napolitano”(…) Tra le vittime del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della Torre e Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro talenti e le loro virtù e vittime miserabili della perfidia di un domestico scellerato” (Cuoco, p. 81). “Un servo, accusando in mercato i suoi padroni, mena i lazzari nel palagio, ed incatena nelle proprie stanze il duca della Torre Ascanio e il fratello Clemente Filomarino, quegli noto per poetico ingegno, questi per matematiche dottrine; la casa, ricca di arredi, è spogliata, indi bruciata, distruggendo molta copia di libri, stampe rare, macchine preziose, e un gabinetto di storia naturale, frutto di lunghi anni e fatiche. Mentre l’edifizio bruciava, i due miseri prigioni, trascinati alla strada nuova della marina, sono posti sopra roghi e arsi vivi con gioia di popolo spietato e feroce. Altre stragi seguirono; si sciolse atterrito il Senato della città; gli onesti si ripararono nelle case; non si udiva voce se non plebea, né comando se non di plebe” (Colletta, III, p. 287). “L’affare è sortito così” –narra con la sua efficace semplicità il Marinelli- al duca della Torre, pettinandosi, gli era stata presentata una lettera di un suo amico di Capua. Il parrucchiere ha creduto che ce la scrivevano i francesi, padroni di Capua; dunque esce, chiama i compagni, e danno sopra al detto duca della Torre (44 anni) e al fratello don Clemente (48 anni) Filomarino, e gli conducono in S. Lorenzo. Ne segue il più barbaro saccheggio della casa, che gli lasciano le nude mura, ed a stento si è potuto salvare il restante della famiglia. Verso le 23 ore portando la moltitudine il duca e il fratello pel Molo piccolo, giunti a Porto Salvo, gli fucilarono ambedue, e trovando 24 carlini in sacca del duca morto, ne comprarono pece e con essa bruciarono ambidue i fratelli”. “La lettera non era stata scritta dai francesi, come il popolo credette, ma dal principe Rospigliosi, il quale raccomandava al duca e al fratello di bene accogliere il generale Championnet. La lettera ad ogni modo parlava di francesi e di accoglienze che il duca avrebbe dovuto fare a costoro. Bastava questo perché la fantasia vedesse nel duca un traditore. Era quella la facile logica di un popolo in rivolta, che trova subito nessi di causalità dove non sono che semplici rapporti di tempo” (Rodolico). –Per questo assassinio, durante la repubblica, furono imprigionati quattro persone (il parrucchiere, un marinaio e due soldati del disgregato esercito borbonico), processati e condannati dall’alta commissione militare e giustiziati il 6 maggio 1799-.

Intanto il Moliterno tratta col generale francese Championnet. “S’inviò al quartier generale francese una deputazione composta da’ principali demagoghi, perché rinunciassero al pensiero di entrare in Napoli, offerendo loro e quello che era stato promesso coi patti dell’armistizio e qualche somma di più. La risposta de’ francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea essere: qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della ragionevolezza della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e l’insulto; e ciò finì d’inferocire il popolo” (Cuoco, p. 81). “Erano giunti al quartier generale dello Championnet delegati degli Eletti per trattare della pace. Avendo il generale domandato cosa pretendevano, risposero che i francesi non fossero entrati in città. Championnet rispose: “Bene! Democratizzatevi da voi stessi, costituitevi in Repubblica, mi date i Castelli; ed io non farò venire l’armata”. I deputati fecero intendere di voler costituire un’aristocrazia come a Venezia e a Genova. “La repubblica aristocratica già l’abbiamo fatta; più non occorre entrare” e a tale oggetto offersero più milioni. Laubert e Russo, i quali si trovavano coi francesi a Caserta, si opposero, volendo democrazia. Championnet fu infuriato a segno che rispose che l’avrebbe dato la risposta con la bocca dei suoi cannoni” (Rodolico, pp. 119-20). “Il Moliterno, con discorso considerato, così disse: “Generale, dopo la fuga del re e del suo vicario, il reggimento del regno è nelle mani del Senato della città; così che, trattando a suo nome, faremo atto legittimo e durevole. Voi, generale, che, debellando numeroso esercito, venite vincitore, crederete breve lo spazio, dieci miglia, quello che vi separa da Napoli; ma lo direte lunghissimo e forse interminabile, se penserete che vi stanno intorno popoli armati e feroci; che 60mila cittadini, con armi castelli e navi, animati da zelo di religione e da passione di indipendenza, difendono città sollevata di mezzo milione di abitatori; che le genti delle province sono contro di voi in maggior numero e moto; che quando il vincere fosse possibile, sarebbe impossibile il mantenere. Che dunque ogni cosa vi consiglia pace con noi. Noi vi offriamo il danaro pattovito nell’armistizio, e quanto altro (purché moderata la richiesta) dimanderete; e poi vettovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessari al ritorno, e strade sgombere di nemici. Pensate, generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito; e che se voi per pace concessa vorrete non entrare in città, il mondo vi dirà magnanimo; se per popolana resistenza non entrerete, vi terrà inglorioso”. Rispose il generale: “Voi parlate all’esercito francese, come vincitore parlerebbe ai vinti. La tregua è rotta perché voi mancaste ai patti. Noi dimani procederemo contro la città”. E, ciò detto, gli accomiatò. Stavano al campo francese, seguaci e guida dell’esercito, parecchi Napoletani che, parlando ai legati con detti lusinghieri di libertà, avute risposte audaci, e gli uni e gli altri infiammati da sdegno di parte, si minacciarono di sterminio. I legati riportarono al Senato quelle acerbe conferenze, che di bocca in bocca si sparsero nella città, infestissime alla quiete” (Colletta, ib, 286-7).

19 gennaio. Sabato. Napoli. “Testimonianze concordi attestano che nella mattinata Moliterno sta tornando da Caserta quando ha per via notizia dell’eccidio dei Filomarino da persone che fuggivano inorridite dalla città. L’eccidio era avvenuto sull’imbrunire del giorno precedente. Arrivato a Napoli, Moliterno induce l’arcivescovo a raccogliere il clero per una solenne processione, a sera già tarda, per le vie della città. Le reliquie di S. Gennaro erano seguite da tutto il clero e da un’onda di popolo. In abito di penitenza, scalzo, coi capelli sciolti, invocando misericordia, il Moliterno accompagna la processione. Con l’eloquenza dettata dal cuore, il cardinale esorta il popolo alla pace in nome di Dio e di S. Gennaro; con la facondia dell’istrione, Moliterno invoca la concordia per la patria e per S. Gennaro! La processione rientra sulla mezzanotte in chiesa; il popolo torna in pace nelle proprie case; Moliterno prende la via di Castel Sant’Elmo” (Rodolico, pp. 114-5). Emanata una serie di bandi per la tutela dell’ordine pubblico, Moliterno riesce a riportare all’ordine il popolo napoletano ponendosi alla testa di una solenne processione organizzata col consenso dell’arcivescovo Giuseppe M. Capece Zurlo. L’appuntamento, con tanto di giuramento solenne, è fissato per il giorno dopo sul campo di battaglia” (Sani, p. 15). “Il popolo si era inferocito. Non mancavano agenti della Corte borbonica che lo spingevano a nuovi furori, non mancava quello spirito di rapina che caratterizza tutti i popoli della terra, non mancavano preti e monaci fanatici i quali, benedicendo le armi di un popolo superstizioso in nome del Dio degli eserciti, accrescevano con la speranza l’audacia e con l’audacia il furore. La “Città”, che sino a quel giorno avea tenute delle sessioni, più non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato da tutti, e fece tutto da sé. La città intera non offrì che un vasto spettacolo di saccheggi, di incendi, di lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Alcuni repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan beni e costume, impedirono mali maggiori, rimescolandosi col popolo e fingendo gli stessi sentimenti per dirigerlo” (Cuoco, p. 81).

La processione era stata un inganno per sviare il popolo; qualche ora dopo con un inganno le guardie popolari a Castel Sant’Elmo erano incatenate. Nicolino Caracciolo, castellano nominato dal Moliterno e dagli Eletti di Città pochi giorni prima, cerca di sbarazzarsi di un tal Luigi Brandi, ardito popolano che comandava un centinaio di guardie di presidio al Castello. Il Brandi, fedele alla causa del popolo, intendeva resistere al nemico. Il Caracciolo, per allontanarlo dall’interno del castello, gli ordina di eseguire con la sua squadra una ronda attorno a Sant’Elmo; nel frattempo fa sostituire con patrioti le sentinelle della porta. Al segnale convenuto entrano nel Castello il Moliterno e il Roccaromana. Vengono chiuse le porte. Con un pretesto è chiamato dal castellano il Brandi, che accorre da solo. Appena entrato, è messo in catene” (Rodolico, pp. 294-5). Questa versione è confermata dalla relazione scritta dall’ambasciatore alla Corte imperiale di Vienna. In essa si legge: “Il principe Moliterno si era preposto di dare il castello di S. Elmo in mano ai francesi tosto che si fossero accostati, ma gli conveniva prima di farne uscire i Napoletani: era perciò ricorso a uno stratagemma. Per sempre più far credere al popolo che la sua intenzione fosse di voler fare resistenza al nimico avanti d’entrare in esso castello, avea istituita una processione nella quale avesse a portarsi il sangue di S. Gennaro, ch’egli insieme con un popolo immenso a piedi ignudi accompagnò; col pretesto di meglio guardarli aveva fatti condurre nell’istesso castello tutti li Giacobini che dalla plebaglia erano stati chiusi in varie carceri…Dopo tutto questo a quei che tenevano occupato il Castello avea dato ad intendere che conveniva di fare una sortita per disfare una truppa di Giacobini che s’erano appiattati in quelle vicinanze per assaltarlo di notte tempo e, sortiti che ne furono, aveva alzati li ponti levatoi” (Rodolico, pp. 295-6). “Alcuni repubblicani, colla cooperazione di Moliterni e di Roccaromana, s’introdussero nel forte Sant’Elmo, sotto vari pretesti e finti nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni. Championnet avea desiderato che, prima ch’ei si movesse verso Napoli, fosse stato sicuro di questo castello, che domina tutta la città. Molti altri corsero ad unirsi coi francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne” (Cuoco, p. 81). I repubblicani occupano un punto strategico d’eccezionale importanza, il castel S. Elmo, che dalle alture del Vomero domina tutta la città (Battaglini, p. 16).  “Il doppio gioco del Moliterno e di Roccaromana, da alcuni giorni in contatto coi patrioti del Comitato Centrale giacobino, spiana la strada all’occupazione da parte di questi ultimi della fortezza di S. Elmo, sottratta con uno stratagemma ai lazzari. Per Championnet fu il segnale atteso in vista dell’attacco finale” (Sani, p. 15).

Trani (Puglia). “Dal “Rapporto” trasmesso dalla Regia Udienza di Trani a Francesco Pignatelli, vicario generale del re in Napoli, risulta che la situazione locale è disperata: tutti sono preoccupati ed impotenti di fronte alla presenza sempre più numerosa dei disertori. Le varie Università non sono in grado di provvedere alla cattura dei numerosi sbandati che si aggirano nella provincia, né dispongono di mezzi adeguati, uomini e danaro, per far tradurre in Napoli i disertori catturati. Gli uomini a disposizione dei vari governatori e della stessa Udienza sono insufficienti. Per provvedere al mantenimento dei disertori arrestati si prende il danaro dai fondi destinati alla manutenzione dei porti, le uniche somme che da Napoli sono state lasciate, sia pure in misura esigua, a disposizione delle cittadine pugliesi. Nonostante gli sforzi compiuti dalle autorità locali, il pericolo derivante dalla presenza dei disertori si fa sempre più grave. Il Preside di Trani rileva: “Tutta questa Provincia è inondata di essi e con fondata ragione ciascuno si astiene di uscire dal recinto del proprio paese. Quel che è peggio è che ad un sì impetuoso torrente non vi è argine da opporre, giacché riducendosi tali disertori a più migliaia e andando la maggior parte armati colle armi del Reggimento, e quei di Cavalleria anche in buona parte a cavallo, il solo tentarne l’arresto sarrebbe un aggiungere inconveniente ad inconveniente”. I disertori si vanno organizzando e le strade che congiungono la Puglia a Napoli sono già infestate da uomini armati che non esitano ad affrontare reparti regolari. Il governatore di Casale di Trinità aveva fatto arrestare alcuni disertori. “Legati e ferrati sopra di un carro”, li aveva affidati ad alcuni miliziotti di Bitonto perché li traducessero a Napoli. Aveva fornito trenta ducati di sussidio, ottenuti dal decurionato, per il viaggio dei prigionieri e della scorta. Ma, “giunti che furono vicino Avellino, furono assaliti da una partita di 15 fucilieri di montagna, li quali con minaccia di ucciderli, fecero mettere in libertà tutti detti disertori, facendo a ciascuno prendere la direzione della propria patria” (Pedio, pp. 150-1).

20 gennaio. Domenica. Napoli. “Questa mattina la bandiera repubblicana sventola su Castel Sant’Elmo. Sanguina il cuore all’idea che quel primo tricolore sia stato vituperato dal popolo, e non per colpa del popolo! La notizia che il Castello era in potere dei patrioti giunse nel campo francese questa mattina. Quello stesso giorno tornava da Benevento il generale Broussier, ricco di preda e vittorioso. Benevento in potere delle masse era un pericolo contro l’esercito operante su Napoli. L’armata francese era divisa in due colonne: l’una al comando del generale Dufresse doveva da Capua per la via di Aversa-Melito raggiungere le posizioni di Capodimonte e Capodichino e di là penetrare a Napoli; l’altra al comando del generale Duhesme doveva da Caserta per la via di Acerra-Pomigliano muovere all’attacco di Porta Capuana” (Rodolico, 115, 120).

“Sotto il pretesto di Santa Fede, il popolaccio lazzaro si faceva lecito di tutto. Sotto tal pretesto uccideva a capriccio, saccheggiava, insultava, e il più moderato era che i galantuomini gli doveano regalare e mantenere per non essere insultati di più. Il nostro superstizioso Clero fomentava queste massime, facendo credere che i Francesi e Giacobini fossero nemici della fede, che non era; ma se pur lo fossero stati, la religione insegnava la moderazione e non la ferocia”  (Marinelli). “Nelle vie della città si afferma la volontà del popolo in arme. Quanti sono gli armati? 60mila per il Thiébault, 40mila secondo la notizia data dal Magistrato cittadino ai patrioti di S. Elmo. Ai popolani in arme si sono uniti molti dei soldati del Damas, sbarcati qualche giorno prima, e dei soldati del presidio delle fortezze cadute in potere del popolo. Erano circa quattromila, e fornirono molti sottufficiali che presero il comando delle squadre. Si erano accodati ai combattenti molti di quei malfattori liberati dal carcere qualche giorno prima. Chi erano i Lazzari? Questa folla era ben varia: comprendeva tutto il proletariato, gente senza un determinato mestiere: facchini in gran parte del porto, pescatori, marinai, manovali. Da che cosa erano mossi? Da desiderio di saccheggio? L’accusa non è solo dei patrioti ma della stessa regina Maria Carolina che il 21 dicembre 1798 spiegava i primi tumulti col proposito del popolo di voler saccheggiare la città, prima che i francesi la saccheggiassero per conto loro. Dei saccheggiatori non mancarono tra quei quattromila liberati dal carcere, che riprendevano il loro mestiere. I Lazzari non avrebbero avuto bisogno di combattere così a lungo e accanitamente i Francesi, se fossero stati mossi da desiderio di saccheggio, poiché alla partenza del Vicario e alla sconfitta della milizia civica essi avrebbero potuto impunemente saccheggiare; eppure per testimonianza di due persone onestissime, il Marinelli e il DeNicola, i lazzari in quei giorni non commisero saccheggi” (Rodolico, 115-8).

Championnet promette con un proclama protezione e rispetto a tutti i cittadini. Duhesme entra a Napoli da porta Capuana. Inizia la resistenza armata ai francesi. “Il re era partito, il popolo non lo desiderava più. Egli aveva spinto fino al furore l’amor d’indipendenza nazionale, che altri credeva attaccamento all’antica schiavitù. Quando il popolo napoletano spedì la deputazione a Championnet, non volle dir altro che questo: “La repubblica francese avea guerra col re di Napoli, ed ecco che il re è partito; la nazione francese non avea guerra colla nazione napolitana, ed intanto perché mai i soldati francesi voglion vincer coloro che offrono volontari la loro amicizia?”. Questo linguaggio era saggio, ed i napolitani, senza saperne il nome, erano meno di quel che si crede lontani dalla repubblica” (Cuoco, p. 82).

Isernia. Le requisizioni. “Il cittadino Gennaro Vischi è provveditore dei cibi necessari alle truppe francesi di permanenza e di passaggio. Pertanto invia ai Comuni della zona questo proclama. “Libertà e Uguaglianza. La truppa francese, che qui a giorni transita, ha bisogno di viveri per la sua sussistenza. Ciascuno di voi manderà subito quello che vedrà qui dietro tassato, non dandoli che 5 ore di tempo, dopo la lettura della presente ad inviare la rispettiva tangente. Badate che io non ammetto scuse, ma le Università renitenti saranno date in nota al Generale Francese per ricevere quel gastico che meritano. Vi auguro salute e fratellanza. S. Angelo in Grotte, vaccine 1, galline 100, uova 200. Cameli, vaccine 2, galline 200, uova 300. Casalciprani, idem. Le Spinete, idem. Roccaspromonte, vaccine 1, galline 50, uova 100. Oratino, vaccine 2, galline 200, uova 300. Colledanchise, idem. Baranello, vaccine 3, galline 200, uova 400. Ogni Università darà al latore carlini 4 di pedatico, facendo l’atto della lettura della presente” (-l’elenco continua-, Coppa-Zuccari, pp. 142-3).

Palermo. Ottusità privilegiata. Il re Ferdinando annota nel suo “Diario”. “Alzatomi prima delle sei, vestitomi, intesa la S. Messa, dato il buon giorno a mia Moglie, scritto per la spedizione di un corriere per partecipare alle Corti Estere, specialmente alleate, il nostro stato. Alle dieci uscito a cavallo in compagnia di Francesco, Gravina e Jaci ed andato al casino dell’Arcivescovo all’Arenella. Ritornato a mezzogiorno, parlato con Acton, alla mezza pranzato e poi andato da Clementina. Dalle tre applicato fino al calar del sole che presa la S. Benedizione, parlato con Acton, venuta mia Moglie con un umore infame e ripartita poco dopo senza saper perché come una furia. Alle sette andato al Teatro dove, terminata l’opera, sono rimasto a vederlo trasformare in sala di ballo. Ritornato in casa dopo le dieci, cenato ed a letto. Tempo di bonaccia la mattina, bello dopo pranzo con pioggia. L’umore e le maniere di mia Moglie sono stati infami”  (Battaglini, p. 56).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • L. Coppa-Zuccari, “L’invasione francese degli Abruzzi (1798-1810”, L’Aquila, 1928, v. I
  • Gennaro Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • Fiordelisi, “I Giornali di Diomede Marinelli”, Napoli, 1901
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974, 2 voll.
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997