Dante, Similitudini. “Feto, Fiamma viva, Fiori colpiti dal gelo, Fiume appenninico, Fiumi, Foglio di papiro, Foglie autunnali, Foglioline appena nate, Foglie nel bosco, Folla furiosa.
Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.
Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza, dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.
Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.
Il feto. Purgatorio, canto XXV, vv. 52-57.
“Anima fatta la virtute attiva / qual d’una pianta, in tanto differente,/ che questa è in via e quella è già a riva,// tanto ovra poi, che già si move e sente,/ come spungo marino; e indi imprende / ad organar le posse ond’è semente”. La qualità attiva del sangue maschile, una volta diventata anima vegetativa (simile cioè a quella d’una pianta), con la differenza che l’anima propria delle piante ha già ultimato la sua formazione, mentre questa ancora si sta trasformando, in seguito continua ad agire fino a muoversi e a percepire la realtà come una spugna marina; e da questo stadio comincia a formare gli organi sensoriali, di cui contiene i principi informatori.
Nota: mentre i tre poeti salgono alla settima cornice, Dante chiede come sia possibile che le anime dei golosi, che espiano le loro colpe nella sesta cornice, e che non hanno bisogno di cibo, appaiano così magre. Per invito dello stesso Virgilio gli risponde Stazio, il cui discorso spazia dalla fecondazione alla formazione del feto, all’innesto in esso dell’anima da parte di Dio, fino alla morte del corpo. Si segue la dottrina di Alberto Magno: il primo stadio della vita umana è quello dei vegetali; ma mentre l’anima di una creatura vegetale ha raggiunto la sua forma definitiva e non è più soggetta a trasformazioni, per l’anima umana questa è solo la prima tappa verso la conformazione finale. Il feto, quindi, dopo aver sperimentato la vita vegetativa, comincia a muoversi e ad avere le prime percezioni sensoriali, anche se ancora elementari e prive di qualsiasi forma di intelligenza. Non è più come una pianta, ma come uno spungo marino, una specie di organismo unicellulare, simile a una spugna.
La fiamma viva. Paradiso, canto I, vv. 139-142.
“Maraviglia sarebbe in te se, privo / d’impedimento, giù ti fossi assiso,/ com’ a terra quiete in foco vivo”. // Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso”. Ci sarebbe motivo di stupore in te se, ormai privo dell’ostacolo del peccato, tu fossi rimasto giù in terra, come ci sarebbe sulla terra nel vedere la quiete in una fiamma viva. Detto questo, Beatrice rivolse lo sguardo verso il cielo.
Nota: siamo nella sfera del Fuoco, che divide la terra dal sistema dei cieli. Beatrice spiega a Dante che la sua ascesa è stata possibile perché il suo corpo, purificato dalle acque di Lete ed Eunoè, non poteva che innalzarsi verso Dio. Con questa similitudine si vuol dimostrare che è l’ordine divino che regola le tendenze naturali degli elementi. Il fuoco sulla terra guizza e si agita continuamente, lottando tra la tensione verso l’alto e la forza di gravità. Beatrice insiste moltissimo sulla “naturalezza” dell’ascesa di Dante: per spiegarla nei versi precedenti ha usato ben tre esempi naturali, quello del fulmine (vv. 133-35), eccezione che conferma la regola, quello del fiume che si muove verso il basso (vv. 136-38), infine questo del fuoco, che sulla terra guizza e si agita continuamente. Solo nella sua sede naturale, la regione del Fuoco, raggiunge lo stato di quiete. Ora Dante sa di trovarsi nella dimensione dell’assoluto, dove qualsiasi legge fisica non vige più. Soddisfatta la curiosità intellettuale del discepolo, Beatrice si volge con gesto semplice e risoluto a fissare il cielo, quasi a mostrare la necessità della tensione etica dopo il convincimento razionale.
Paradiso, canto IV, vv. 73-78.
“Se violenza è quando quel che pate / niente conferisce a quel che sforza,/ non fuor quest’alme per essa scusate:// ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,/ ma fa come natura face in foco,/ se mille volte violenza il torza”. Se la violenza si ha quando chi la subisce non collabora minimamente con chi la impone, le anime che hai visto e che l’hanno subita non possono invocarla come giustificazione; poiché la volontà, se non lo desidera, non si lascia smorzare, ma si comporta come in natura fa la fiamma, che continua sempre a puntare verso l’alto, anche se infinite volte si tenta di torcerla in altra direzione.
Nota: siamo nel cielo della Luna. Beatrice sta chiarendo due dubbi esposti da Dante. Sul primo spiega che i beati sono tutti nell’Empireo, ma appaiono di volta in volta in un cielo diverso, proprio per mostrare al pellegrino l’organizzazione gerarchica delle beatitudini. Il secondo dubbio riguarda il motivo per cui gli spiriti che, come Piccarda, furono costretti con la forza a non tener fede ai loro voti abbiano un posto così lontano da Dio. Beatrice spiega che se la loro volontà fosse stata incrollabile la violenza non avrebbe potuto nulla. Il concetto è quello della filosofia tomistica: chi subisce senza resistere, anche se agisce per paura, contribuisce in parte alla violenza con la sua volontà. Con il familiare paragone con la fiamma si esemplifica che cosa si intende per volontà. Questo è un esempio in cui la teologia astratta di Beatrice si concretizza in un valore poetico, che impegna l’artista e l’uomo, più che il filosofo.
I fiori colpiti dal gelo. Inferno, canto II, vv. 127-132.
“Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca,/ si drizzan tutti aperti in loro stelo,// tal mi fec’io di mia virtude stanca,/ e tanto buono ardire al cor mi corse,/ ch’i’ cominciai come persona franca:” Come i fiori dalla corolla chiusa e reclinata a causa del gelo notturno, appena illuminati dal sole del mattino si risollevano sullo stelo, aprendosi completamente, così mi fec’io rinfrancando la mia volontà infiacchita, e il mio animo fu riempito da un tale positivo coraggio, che iniziai a parlare come parla una persona sicura di sé e pronta ad agire.
Nota: Dante e Virgilio sono ancora al limitare della selva, quando il sole tramonta. Dante è preso da dubbi: domanda a Virgilio il motivo per cui è stato scelto per lo straordinario viaggio, unico tra gli uomini. Virgilio gli spiega di essere stato chiamato in suo aiuto da Beatrice, venuta nel Limbo a cercarlo, a sua volta inviata da Santa Lucia, per ordine della Madonna. Allora Dante riacquista coraggio e comincia il difficile cammino. Questa similitudine indica il risorgere del pellegrino alla speranza e alla luce, con una delicatezza di immagini poetiche tipiche della lirica provenzale e stilnovistica, ma rinnovate da un’alta spiritualità religiosa, tale da far pensare ai momenti più alti della poesia della “Commedia”. Quello che nella precedente poesia lirica era un preziosismo letterario e naturalistico qui è diventato paesaggio-stato d’animo, trascrizione di una rinascita dello spirito al primo sole della luce e della speranza. Si osservi la presenza-spia delle allitterazioni “chinati e chiusi” e “al cor mi corse”.
Un fiume appenninico. Inferno, canto XVI, vv. 94-105.
“Come quel fiume c’ha proprio cammino / prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,/ da la sinistra costa d’Apennino,// che si chiama Acquacheta suso, avante / che si divalli giù nel basso letto,/ e a Forlì di quel nome è vacante,// rimbomba là sovra San Benedetto / de l’Alpe per cadere ad una scesa/ ove dovea per mille esser recetto;// così, giù d’una ripa discoscesa,/ trovammo risonar quell’acqua tinta,/ sì che ‘n poc’ ora avria l’orecchia offesa”. Come quel fiume che per primo segue il suo corso a partire dal Monviso verso Est sul fianco sinistro dell’Appennino, il quale viene chiamato Acquacheta nel corso superiore, prima di raggiungere la pianura nel suo corso inferiore, finché giungendo a Forlì è privo di quel nome, produce un forte rombo presso san Benedetto dell’Alpe, perché precipita in un’unica cascata invece di raccogliersi in innumerevoli rivoli di corrente; allo stesso modo, precipitando da un burrone scosceso, sentimmo rimbombare quell’acqua rossa, tanto che in breve avrebbe danneggiato l’udito.
Nota: il fiume citato è il Montone. Dante ha appena finito di parlare con tre anime che fanno parte del gruppo dei sodomiti, al quale apparteneva anche Brunetto Latini. Ora, con Virgilio, si avvicina al baratro in cui precipita il fiume Flegetonte, che segna il confine col basso Inferno, il vero e proprio fondo dell’imbuto, dove si raccolgono i peggiori peccatori. Qui non è soltanto il suono spaventoso, come avviene abitualmente nel mondo infernale senza luce, ma anche il colore sanguigno a costruire l’atmosfera di tensione del momento del passaggio al cerchio successivo, che si preannuncia colmo di sorprese sinistre. La lunga similitudine, con la precisione geografica e storica dei luoghi riferiti, vuole soprattutto dare maggiore concretezza narrativa e rappresentativa a questo burrone. Le notazioni coloristiche preparano inoltre l’apparizione di un’altra figura mostruosa, Gerione, che si caratterizza anche per la lussuosa, cangiante colorazione del corpo (“lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle”).
Il fiume. Purgatorio, canto XXVIII, vv. 121-126.
“L’acqua che vedi non surge di vena / che ristori vapor che gel converta,/ come fiume ch’acquista e perde lena;// ma esce di fontana salda e certa,/ che tanto dal voler di Dio riprende,/ quant’ella versa da due parti aperta”. L’acqua del ruscello che vedi non nasce da una sorgente che sia alimentata da vapore acqueo, che il gelo trasforma in acqua, come un fiume terreno, che aumenta o diminuisce la sua portata a seconda delle piogge; invece scaturisce da una fonte immobile e inesauribile, che riacquista dalla volontà divina tanta acqua quanta ne versa, aprendosi in due rami distinti.
Nota: Dante fa il suo ingresso nel Paradiso terrestre; Virgilio e Stazio sono con lui, ma restano in disparte. Il giardino dell’Eden è un bosco meraviglioso, incredibilmente ricco di ogni bellezza naturale, “con un’aura dolce, sanza mutamento” (v. 7). Mentre lo esplora godendo di ogni dettaglio, Dante incontra dapprima un ruscello di acqua cristallina, che lo costringe a fermarsi, poi una donna bella e solitaria, che cantando coglie fiori. E’ Matelda, colei che purifica le anime nelle acque dei due fiumi dell’Eden, il Lete e l’Eunoè. La donna spiega a Dante che il fiumicello non ubbidisce a leggi naturali: nasce da una sorgente perenne, regolata dal voler di Dio, che fa sì che non sia mai privo d’acqua. Del resto proprio Gesù ha detto che chi ha sete di verità, bevendo l’acqua che Egli darà vivrà in eterno (Giovanni, 4, 13-14). In seguito Dante sarà immerso in quest’acqua che berrà con infinito piacere (“lo dolce ber che mai non m’avria sazio”).
Paradiso, canto XX, vv. 16-21.
“Poscia che i cari e lucidi lapilli / ond’io vidi ingemmato il sesto lume / puoser silenzio a li angelici squilli,// udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra,/ mostrando l’ubertà del suo cacume”. Dopo che i preziosi e luccicanti spiriti dei Beati, da cui vidi ornato il sesto pianeta, interruppero il loro coro squillante, udii un suono simile al mormorio della corrente di un fiume, che scende con la sua acqua limpida di roccia in roccia, mostrando la ricchezza della sua sorgente sulla cima di una montagna.
Nota: nel cielo di Giove gli spiriti giusti compiono per Dante una serie di grandiose evoluzioni: dapprima disponendosi in forma di una scritta, poi di una M, infine di un’aquila gigantesca. L’aquila formata dagli spiriti parla in prima persona con un’unica voce. Dante la interpella chiedendo che gli si chiarisca un dubbio sull’equità della dannazione di chi non ebbe la fede. L’aquila spiega che l’uomo, a causa delle sue capacità intellettive limitate, non può comprendere la giustizia di Dio. Poi smette di parlare e subito le anime che la formano intonano un coro celestiale. Le voci tacciono e l’aquila riprende a parlare, come un mormorio di acque correnti. Ora Dante dagli aspetti visivi passa ai suoni della scena miracolosa. L’immagine del fiume limpido ispira un senso di grande serenità e il mormorio dell’acqua è riprodotto dalla sequenza ravvicinata di parole onomatopeiche: “UdiR mi pArve Un MoRMoRaR di fiUme / che scende chiARo giù di pietRA in pietRA,/ mostRAndo l’UbeRtà del sUo cacUme”. L’immagine del fiume limpido ispira un senso di grande serenità e anticipa una delle scene culminanti del Paradiso, il “lume in forma di rivera”, il fiume di luce dei Beati in gloria che si trasformerà poi nella rosa mistica dell’Empireo (Par, XXX, 61 sgg).
Il foglio di papiro. Inferno, canto XXV, vv. 61-66.
“Poi s’appiccar, come di calda cera / fossero stati, e mischiar lor colore,/ né l’un né l’altro già parea quel ch’era:// come procede innanzi da l’ardore,/ per lo papiro suso, un color bruno / che non è nero ancora, e ‘l bianco more”. Poi i due corpi cominciarono a fondersi insieme, come se fossero stati di cera calda, e a mescolare il loro colore, ed entrambi cominciavano a perdere il loro aspetto iniziale: quasi come succede a un foglio di papiro quando gli viene appiccato il fuoco, prima però che sia carbonizzato, cioè quando si diffonde un colore scuro che non è ancora nero, ma che fa scomparire il bianco.
Nota: siamo nella bolgia dei ladri e i peccatori sono tormentati da serpenti che li mordono, li inceneriscono, gli si aggrovigliano. Qui Dante racconta una metamorfosi con effetti speciali degni di un film dell’orrore. Prima il serpente e il dannato si sono stretti come fa l’edera con l’albero; ora si stanno compenetrando lentamente. La fonte è Ovidio, il maestro latino delle metamorfosi, là dove racconta della fusione tra una ninfa e un giovane, che dà vita alla figura dell’ermafrodito. Ovidio scrive: “Alla fine, per quanto lui si sforzi di resistere e cerchi di sgusciar via, lei lo avviluppa come il serpente che, ghermito e rapito in cielo dall’aquila reale, mentre sta appeso le lega il collo e le zampe e le si annoda con la coda attorno alle ali spiegate, o come l’edera che fascia i lunghi tronchi, o come il polpo che sott’acqua sorprende un nemico e lo trattiene allungando i tentacoli da tutte le parti” (“Metamorfosi”, IV, 361-367). Ma questa non è un’invenzione letteraria, Dante ha visto tutto personalmente. La similitudine, efficacissima per l’evidenza scientifica e fisica, ha la funzione di concludere in modo realistico, sotto la suggestione di un fenomeno comune e visto, un dato di rappresentazione estremamente fantastica. L’animo di Dante non si commuove affatto, si limita a contemplare e ad osservare il misterioso impastarsi di quelle forme umane e serpigne, con distacco e stupore per la magia della metamorfosi.
Le foglie autunnali. Inferno, canto III, vv. 112-120.
“Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie,// similemente il mal seme d’Adamo / gittansi di quel lito ad una ad una,/ per cenni come augel per suo richiamo./ Così sen vanno su per l’onda bruna,/ e avanti che sien di là discese,/ anche di qua nuova schiera s’auna.” Come in autunno le foglie si staccano una dopo l’altra, finché il ramo vede a terra tutto il suo rivestimento, così le anime che formavano la malvagia discendenza di Adamo si gettavano da quella spiaggia a una a una, obbedendo ai cenni di Caronte come un uccello al proprio richiamo. In questo modo, salite tutte sulla barca di Caronte, le anime se ne vanno per la scura corrente, e prima che siano sbarcate sull’altra sponda, su questa di nuovo si forma un’altra folla.
Nota: Dante e Virgilio giungono alla porta d’ingresso dell’Inferno, sulla quale è impressa una spaventosa iscrizione d’avvertimento. Oltrepassata la soglia, incontrano la prima schiera di dannati, formata dagli ignavi, o pusillanimi. Subito dopo, sulla riva dell’Acheronte, appare il traghettatore delle anime dannate, Caronte. La similitudine descrive un’immagine autunnale, quindi imprime tristezza, più ancora che il senso di una moltitudine sterminata in movimento: è malinconico questo passaggio delle anime, una alla volta, disfatte dalla morte come foglie secche che abbandonano il ramo. Le foglie si staccano l’una dopo l’altra, con lentezza e gradualità, finché l’albero vede, come una persona desolata, per terra tutte le foglie di cui era vestito. I particolari scandiscono in un ritmo discendente (ad una ad una, per cenni) la commozione con cui Dante contempla la grandiosa tragedia della vita umana, dalla nascita alla morte fin nelle zone inesplorate dell’onda infernale.
Le foglioline appena nate. Purgatorio, canto VIII, vv. 22-30.
“Io vidi quello essercito gentile / tacito poscia riguardare in sùe,/ quasi aspettando, palido e umìle;// e vidi uscir de l’alto e scender giùe / due angeli con due spade affocate,/ tronche e private de le punte sue.// Verdi come fogliette pur mo nate / erano in veste, che da verdi penne / percosse traean dietro e ventilate”. Io vidi allora quel nobile gruppo di anime fissare il cielo in silenzio, come in attesa, in atteggiamento timoroso e sottomesso; quindi vidi spuntare dal cielo e scendere due Angeli con le spade fiammeggianti, troncate in punta. Le vesti dei due Angeli erano di un verde tenero e brillante, il colore delle foglioline appena spuntate, vesti che svolazzavano dietro i loro corpi, agitate e mosse dalle loro ali, a loro volta verdi.
Nota: Nella valletta fiorita dell’antipurgatorio gli spiriti di principi e sovrani hanno appena finito di cantare l’inno “Te lucis ante” per invocare l’aiuto di Dio prima della notte. Arrivano ora due Angeli vestiti di verde e si mettono a guardia della valle. Al cospetto dei messaggeri di Dio questi rappresentanti di stirpi reali abbandonano tutta l’arroganza del proprio rango. E’ la dimostrazione della vanità di qualsiasi grandezza terrena, anche di quella dei re, davanti alla grandezza di Dio, di fronte al quale tutto cessa e al quale tutto ritorna. Il colore degli abiti angelici è il verde splendente della speranza, che contrasta col rosso vivo delle spade e col bianco abbagliante dei loro volti, a simboleggiare i colori delle tre virtù teologali: il bianco per la Fede, il verde per la Speranza, il rosso per la Carità, le qualità ispirate da Dio che portano alla Grazia. (Guarda un po’: sono i colori della bandiera italiana!). La bellezza della scena sta in questo raffinato cromatismo, che mette gli inviati del Cielo in rapporto con i colori smaltati della valle.
Le foglie nel bosco. Paradiso, canto XXVI, vv. 133-138.
“Pria ch’i scendessi a l’infernale ambascia,/ I s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia;// e El si chiamò poi: e ciò convene,/ ché l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene”. Prima che io morissi, scendendo all’angoscia del Limbo, sulla terra il nome di Dio, il Bene Supremo da cui viene la beatitudine che mi fascia in forma di luce, era I; in seguito il nome di Dio diventò El: e questo è inevitabile perché le abitudini degli uomini sono come le foglie su un ramo nel bosco, in cui per una che cade un’altra viene.
Nota: siamo nel cielo delle Stelle Fisse. Durante la cecità temporanea di Dante San Giovanni lo esamina sulla carità. Il pellegrino supera bene anche questo terzo e ultimo esame. Appena il poeta ha terminato di parlare, i Beati insieme intonano il “Sanctus”, mentre Dante riacquista la vista. Accanto a loro c’è un quarto Beato luminoso: è Adamo, il primo uomo, non nato ma creato. Con grande emozione il pellegrino lo interroga, ottenendo quattro risposte chiarificatrici: per quanto tempo visse, quanto durò la sua felicità (Adamo risponde che la permanenza sua e di Eva nell’Eden fu di sette ore), quale fu la vera causa della cacciata, e qual era la lingua che egli parlava. La similitudine trae ispirazione da un passo dell’Arte poetica di Orazio: “Come nei boschi le foglie sul finire dell’anno cambiano e le vecchie cadono: così le antiche generazioni delle parole muoiono, e quelle nate da poco fioriscono, come accade ai giovani, e sono vigorose”. Ma per capire pienamente il testo bisogna partire da un’affermazione fatta da Dante nel “De Vulgari Eloquentia”: l’autore aveva affermato che Dio dopo la creazione di Adamo gli aveva infuso una struttura formale con cui il primo uomo avrebbe poi creato una lingua concreta. E difatti Adamo avviò nel Paradiso terrestre l’operazione di dare un nome alle cose del creato: in tal modo con Eva costruì una lingua, che fu la lingua ebraica, e che questa lingua restò senza variazioni, fino all’edificazione della Torre di Babele e alla conseguente punizione di Dio che portò alla confusione delle lingue, per cui gli uomini non si capirono più. Nel periodo intercorso tra la sua opera latina e la “Commedia” Dante ha approfondito le sue riflessioni linguistiche ed è giunto, sulla scia dei grammatici del tempo, alla concezione della mutabilità delle parlate come fenomeno che inizia con la vita stessa dell’uomo. Così, con questa visione storica del linguaggio, Dante finisce col giustificare innanzitutto il suo volgare letterario, impiegato nel suo poema, come lingua che segue l’evolversi dei tempi e della storia umana. L’io del poeta si armonizza col tempo umano, mentre l’io del pellegrino si armonizza con l’eterno. La rivelazione di Dante profeta è avvenuta nel tempo e viene trascritta in un linguaggio che è transeunte e mutevole, mentre la verità in essa contenuta è fuori del tempo ed eterna. In un certo senso la lingua poetica del Paradiso riscatta agli occhi di Dante poeta “la sua lingua volgare del sì” dalla condanna della corruttibilità, per essere riuscita a contenere in sé, in una limitata lingua umana, l’indescrivibile indefinitezza di Dio.
La folla furiosa. Purgatorio, canto XVIII, vv. 91-96.
“Ma questa sonnolenza mi fu tolta / subitamente da gente che dopo / le nostre spalle a noi era già volta.// E quale Ismeno già vide e Asopo / lungo di sé di notte furia e calca,/ pur che i Teban di Bacco avesser uopo,// cotal per quel giron suo passo falca,/ per quel ch’io vidi di color, venendo,/ cui buon volere e giusto amor cavalca”. Ma questo stato di torpore mi fu cancellato improvvisamente da una folla di anime che alle nostre spalle già si stava muovendo nella nostra direzione. E come un tempo l’Ismeno e l’Asopo, due fiumi della Beozia, videro sulle loro sponde la folla dei Tebani abbandonarsi a baccanali sfrenati quando aveva bisogno di propiziarsi il dio Bacco, così, per quanto riuscii a vedere di quel gruppo di anime, per tutta quella cornice la buona volontà e l’amore nella sua giusta intensità lo spronavano alla corsa.
Nota: ci troviamo nella cornice degli accidiosi. Virgilio con una dotta e lunga lezione, ispirata alla filosofia scolastica, ha spiegato a Dante la dottrina dell’amore bene e male diretto. Subito dopo il discorso, appaiono correndo gli spiriti degli accidiosi. Questi peccatori, che nella loro vita per tiepidezza di sentimenti furono tanto pigri, ora corrono incessantemente, anche nelle ore notturne, quando il resto della montagna riposa. Si osservi il montaggio delle due sequenze, il momento solenne della conclusione del ragionamento di Virgilio, lo squarcio di luna tarda a mezza notte, il silenzio sospeso e la sonnolenza di Dante da una parte, e dall’altra la ripresa drammatica del movimento delle anime, che incalzano correndo ad espiare il loro umano peccato d’accidia.
Nella similitudine di origine classica viene evocata una movimentata scena notturna: si assiste allo sfrenato rito orgiastico in onore di Bacco, compiuto dai Tebani che desideravano ottenere qualcosa dal dio. E’ un succedersi rapidissimo e balenante di impressioni visive e poi auditive perché gli spiriti grideranno esempi di pronta attività e di sollecita esecuzione. L’immagine, derivata da Stazio, anche se rievoca una cerimonia pagana, è adattissima a raffigurare la smania di correre avanti che sprona ininterrottamente queste anime.
Gennaro Cucciniello