Dante, “Divina Commedia”, Similitudini. “fiume Gange, germoglio, giocatori, gioia di fare il bene, Giubileo del 1300 a Roma, Giunone gelosa, Glauco, gru, guida”.
Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.
Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza, dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.
Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.
Il fiume Gange. Paradiso, canto XI, vv. 49-51.
“Di questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole,/ come fa questo talvolta di Gange”. Su questo fertile pendio, nel punto in cui diventa meno ripido, venne al mondo un sole, nel modo luminoso e fecondo in cui talvolta il sole, nel cui cielo ora ci troviamo, sorge dal Gange, fiume dell’India.
Nota: Dante e Beatrice sono nel quarto cielo, quello del Sole. Sullo sfondo si distinguono dodici luminosissime anime beate: sono gli spiriti sapienti, filosofi e teologi tra i più famosi nel Medioevo. Una delle luci prende la parola: è Tommaso d’Aquino, il maggiore filosofo e teologo del Duecento, studiato e stimatissimo da Dante. Gli rivela che accanto a lui splendono altri undici sapienti e santi. Tommaso è stato frate domenicano e comincia a narrare la vita di Francesco d’Assisi, straordinaria guida spirituale della Chiesa. La citazione del Gange, il maggior fiume dell’India, allude alla parte più orientale del mondo: quando il sole sorge da lì nell’equinozio di primavera è al culmine del suo splendore e della sua energia positiva, enucleate in Francesco. Il nostro poeta si muove con disinvoltura in mezzo alle fonti tradizionali sulla vita di Francesco, ma senza lasciarsene influenzare. Tra l’altro, il sole è simbolo di sapienza trascendente.
Germoglio. Paradiso, canto IV, vv. 130-132.
“Nasce per quello, a guisa di rampollo,/ a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo”. Da questo desiderio di verità, come il germoglio da una pianta, nasce nell’uomo il dubbio, dalla radice di ogni verità relativa; ed è la nostra natura che ci spinge a salire di colle in colle fino alla verità assoluta.
Nota: nel cielo della Luna Beatrice sta risolvendo alcuni dubbi del pellegrino. Qui non si nega che l’uomo possa raggiungere la verità assoluta, ma questo è possibile solo con l’intervento della Grazia. Quando la mente raggiunge una verità, da questa sorgono nuovi dubbi, in una continua tensione, che solo Dio può sciogliere, appagando totalmente il bisogno umano di verità. Questa nozione dantesca è attualissima, addirittura precorritrice della psicolinguistica contemporanea: porsi incessantemente domande è una condizione naturale della mente umana, il suo stesso modo di essere e di manifestarsi.
I giocatori. Purgatorio, canto VI, vv. 1-12.
“Quando si parte il gioco de la zara,/ colui che perde si riman dolente,/ repetendo le volte, e tristo impara;// con l’altro se ne va tutta la gente;/ qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,/ e qual dallato li si reca a mente;// el non s’arresta, e questo e quello intende;/ a cui porge la man, più non fa pressa;/ e così da la calca si difende.// Tal era io in quella turba spessa,/ volgendo a loro, e qua e là, la faccia,/ e promettendo mi sciogliea da essa”. Quando finisce il gioco della zara e i due giocatori si separano, il perdente rimane pensieroso in disparte, ripetendo i tiri dei dadi e dalla sua sconfitta impara. La folla degli spettatori segue il vincitore; chi lo precede, chi lo marca da dietro e chi si fa notare di lato; il vincitore non si ferma, ascolta l’uno e l’altro; quelli a cui dà un po’ di soldi non lo molestano più, e così si difende alla meglio dalle pressioni. Così ero io, circondato da quella folla fitta e ostinata, dando retta ora all’uno ora all’altro, e facendo promesse me ne liberavo.
Nota: siamo nell’antipurgatorio, Dante e Virgilio hanno incontrato un gruppo di anime i cui corpi sono stati uccisi con violenza e che si sono salvate solo all’ultimo istante con un atto di pentimento. Spinte dalla scoperta che Dante è vivo e che tornerà nel mondo terreno, le anime gli si accalcano intorno per chiedergli suffragi. Dante non nasconde la sua insofferenza e il suo fastidio. Su questa similitudine i commentatori hanno espresso perplessità e opinioni contrastanti. Queste anime sono tutte morte tragicamente, eppure nel raccontare la loro fine non mostrano il minimo sentimento di odio, portate alla pace dal perdono in nome del quale sono spirate. Perciò questa lunga similitudine, che incunea uno spicchio di animazione popolare nel tragico coro dei morti per violenza, secondo alcuni appare stonata, fuori luogo. Chi è il vincitore e chi è il perdente in questo paragone? Solo il Dante-personaggio corrisponderebbe al vincitore del gioco dei dadi. E’ su di lui che si appunta tutta l’attenzione degli spiriti, che addirittura lo braccano e lo inseguono. Le terzine sono dominate da una velocità concitata e dal movimento frenetico degli spiriti: si notino la presenza insistita del polisindeto (ben cinque e dal v. 5 al v. 9), le numerose pause dei versi, ottenute con la virgola, la ripetizione del pronome qual). Ma, mentre lui è così assediato, Virgilio dov’è? E’ completamente in disparte, sembra quasi cancellato dalla scena. E’ lui il perdente? La sua fragilità, di anima consapevole della sua dannazione, è messa decisamente in primo piano. Ma con grande discrezione, senza riferimenti diretti. Anche se lui, Virgilio, è il dannato che accompagna Dante tra i futuri beati e che, alla fine di quella parte del viaggio, dovrà tornare nell’Inferno.
La gioia di fare il bene. Paradiso, canto XVIII, vv. 52-63.
“Io mi rivolsi dal mio destro lato / per vedere in Beatrice il mio dovere,/ o per parlare o per atto, segnato;// e vidi le sue luci tanto mere,/ tanto gioconde, che la sua sembianza / vinceva li altri e l’ultimo solere.// E come, per sentir più dilettanza / bene operando, l’uom di giorno in giorno / s’accorge che la sua virtute avanza,// sì m’accors’io che ‘l mio girare intorno / col cielo insieme avea cresciuto l’arco,/ veggendo quel miracol più addorno”. Allora io mi girai verso destra, per capire dalle parole o dall’espressione di Beatrice ciò che avrei dovuto fare; e vidi i suoi occhi così puri e scintillanti, così felici, che la sua bellezza di quel momento era superiore a quella di tutte le altre volte in cui l’avevo guardata, compresa l’ultima, già così ineffabile. E come, per il fatto che nel fare il bene si sente una gioia maggiore, ci si accorge di giorno in giorno che la propria virtù morale è aumentata; così io mi accorsi che l’arco del mio ruotare intorno alla terra insieme col cielo si era ampliato, vedendo aumentata la bellezza di Beatrice.
Nota: Nel cielo di Marte Cacciaguida, dopo il lungo colloquio con Dante, si è congedato definitivamente e ha ripreso il suo posto tra i combattenti per la fede, offrendo al pronipote le prove della sua altissima posizione tra i Beati. Lo stesso Dante, scrivendo il poema sacro, si farà combattente per la fede: avrà molti potenti nemici ma potrà contare sulla protezione dal Cielo di questa imponente schiera di eroi cristiani. Ora il pellegrino ha coscienza che la tappa nel quinto cielo è terminata, e si volge per chiedere istruzioni alla sua guida. La bellezza di Beatrice è aumentata, e questo è segno della sua accresciuta beatitudine: i due stanno salendo al sesto cielo. La similitudine psicologica dei vv. 58-60 esprime, per analogia con un’emozione umana, un fatto trascendente, l’ascesa soprannaturale al cielo di Giove, ma ribadisce anche che dal punto di vista spirituale il viaggiatore si è arricchito, si è avvicinato ancora di più alla beatitudine. Ogni similitudine sostituisce sul piano narrativo un particolare momento psicologico vissuto nel viaggio, e la gioia interiore è trascritta come rappresentazione oggettiva di immagini visive. Il fatto, infine, che Beatrice al v. 63 sia chiamata “quel miracol” ci riporta all’atmosfera della “Vita Nuova”, dove si legge che “ era venuta in terra a miracol mostrare”. La natura miracolosa, divina, della beata donna, intravista sulla terra, si realizza pienamente in Paradiso.
Il Giubileo del 1300 a Roma. Inferno, canto XVIII, vv. 25-36.
“Nel fondo erano ignudi i peccatori;/ dal mezzo in qua ci venien verso ‘l volto,/ di là con noi, ma con passi maggiori,// come i Roman per l’essercito molto,/ l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto,// che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,/ da l’altra sponda vanno verso ‘l monte.// Di qua, di là, su per lo sasso tetro / vidi demon cornuti con gran ferze,/ che li battien crudelmente di retro”. In fondo alla fossa i peccatori si muovevano nudi; dalla parte centrale verso l’argine destro, dove ci trovavamo, si muovevano incontro a noi, dalla parte opposta camminavano nella nostra stessa direzione, ma tutti a velocità molto maggiore, con lo stesso procedimento che i Romani hanno trovato per far transitare la folla immensa dei pellegrini, nell’anno del Giubileo, per il ponte sul Tevere, procedimento per cui da un lato tutti quelli che vanno verso San Pietro hanno la faccia rivolta a Castel Sant’Angelo, mentre dall’altro lato ce l’hanno verso il monte Giordano. Da ogni parte, sparpagliati sulla roccia color del ferro, vidi diavoli cornuti armati di grandi scudisci, che li colpivano crudelmente sulle natiche.
Nota: Gerione ha scaricato i nostri due eroi sull’orlo di Malebolge: una specie di contenitore solcato da fossati concentrici, a loro volta sormontati da ponticelli di roccia, simili alle fortificazioni dei castelli medievali. Virgilio procede sull’argine della prima bolgia tenendo la sinistra, perciò Dante vede alla sua destra la folla di dannati che si contorce e corre sul fondo del fossato. Sono i ruffiani e i seduttori, frustati da diavoli con le corna (secondo l’iconografia medievale). Il continuo spostamento dei dannati per il corso circolare della prima bolgia è regolato in due direzioni, esattamente come il transito dei pellegrini sul Tevere, a Roma, nell’anno del Giubileo, il 1300. Il provvedimento era stato preso dalle autorità romane per far fronte all’incredibile quantità di pellegrini che visitavano la basilica della cristianità, come si legge anche nella “Nuova Cronica” di Giovanni Villani, VIII, 36. Anche in questo caso una precisa e dettagliata similitudine storica (una vera e propria trasposizione di cosa vista direttamente) riconduce subito l’episodica impressione emotiva ad un tono più dimesso e concreto di cronaca mondana. I versi 34-36 mimano il movimento rapido dei diavoli, guizzante e quasi ritmato sui colpi delle loro fruste, grazie alla sequenza iniziale di monosillabi (“di qua, di là, su per lo”). L’immagine di questi peccatori che non stanno fermi ad aspettare i colpi di frusta dei diavoli è molto più ironica che drammatica: apertura degna dello stile comico che sarà proprio di Malebolge.
C’è nel passo un dettaglio che dovrebbe riguardare tutti gli abitatori della prigione eterna infernale: la condizione di nudità, che però viene messa in evidenza solo occasionalmente, come se in alcuni casi colpisse particolarmente l’immaginazione di Dante; o forse, come in questo caso, perché è un dettaglio umiliante, e si aggiunge alla condizione già di per sé degradata di ruffiani e seduttori.
Giunone gelosa. Inferno, canto XXX, vv. 1-12, 22-27.
“Nel tempo che Iunone era crucciata / per Semelè contra ‘l sangue tebano,/ come mostrò una e altra fiata,// Atamante divenne tanto insano,/ che veggendo la moglie con due figli / andar carcata da ciascuna mano,// gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli / la leonessa e ‘ leoncini al varco”;/ e poi distese i dispietati artigli,// prendendo l’un ch’avea nome Learco,/ e rotollo e percosselo ad un sasso;/ e quella s’annegò con l’altro carco.//(…) Ma né di Tebe furie né troiane / si vider mai in alcun tanto crude,/ non punger bestie, nonché membra umane,// quant’io vidi in due ombre smorte e nude,/ che mordendo correvan di quel modo / che ‘l porco quando del porcil si schiude”. Nel tempo in cui Giunone era piena di furore contro i Tebani, a causa di Sèmele, amante di Giove, (furore che dimostrò due volte), Atamante impazzì a tal punto che, vedendo la moglie tenere tra le braccia entrambi i figli, gridò: “tendiamo le reti, così da prendere al varco la leonessa e i suoi leoncini”; poi stese le mani rapaci e prese uno dei bambini, di nome Learco, roteandolo in aria e sbattendolo contro un macigno; e Ino, sua moglie, si gettò in mare, annegando sé e l’altro figlio. (…) Ma non si videro mai pazzi furiosi tebani né troiani infierire con tanta crudeltà contro alcuno, non nel ferire animali, né corpi umani, quanta ne vidi in due anime esangui e nude che correndo forsennate per la bolgia distribuivano morsi come i maiali quando con furia escono dal porcile”.
Nota: siamo nella decima bolgia, quella dei falsari di persona, dannati che vagano correndo e mordendo rabbiosamente chiunque capiti loro a tiro. L’esordio della similitudine è tragico, un pezzo di rievocazione classica, ma finisce poi grottescamente nel paragone col porco, e ci si riporta così al tono centrale del canto precedente. Giunone è sempre crudelissima nel reagire agli amori adulterini di Giove. Per vendicarsi contro la bella Sèmele, figlia del fondatore di Tebe Cadmo, ne fa impazzire il cognato Atamante, re di Orcomeno. Lo costringe così a rivolgere il suo folle furore contro la moglie Ino, sorella di Sèmele e del tutto innocente, a uccidere uno dei suoi figli, e a spingere la donna a suicidarsi gettandosi in mare con l’altro. Prima ancora Giunone aveva provveduto a incenerire Sèmele. Dopo la rievocazione del mito classico e dai suoi luoghi senza tempo la scena si sposta al buio e al fetore della bolgia. Anche il registro semantico si carica dei toni violenti, allusivi della pazzia e dell’ira nefasta (crucciata, insano, dispietati artigli, rotollo percosselo, sasso). La conoscenza dell’episodio viene a Dante dalla lettura di Ovidio, al testo del quale è piuttosto fedele: “Strappa dal seno della madre Learco, che rideva e tendeva le piccole braccia, e due, tre volte lo fa roteare nell’aria come una fionda e, spietato, ne fracassa il volto di bambino su un duro masso”. Come si vede, i versi danteschi sono una libera elaborazione di quelli ovidiani, e molto più orientati verso gli effetti devastanti della follia. Tra i personaggi del mito antico, che si perde nella notte dei tempi, e i dannati danteschi, proiettati nell’eternità della loro singolare pena, si stabilisce un accordo tonale e una continuità narrativa, in virtù di queste prime sequenze di particolari orribili e rabbrividenti.
Glauco. Paradiso, canto I, vv. 64-69.
“Beatrice tutta ne l’etterne rote / fissa con li occhi stava; e io in lei / le luci fissi, di là su rimote.// Nel suo aspetto tal dentro mi fei,/ qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi”. Beatrice era completamente assorta a fissare le sfere trasparenti dei cieli, che ruotano eternamente; e io fissai nel suo il mio sguardo, distolto dalla vista del sole. Guardandola diventai tale, quale divenne Glauco quando mangiò l’erba che lo rese simile agli altri dei del mare.
Nota: Dante ha lasciato l’Eden ed è salito nella sfera del fuoco, che divide la terra dal sistema dei cieli. Noi lettori partecipiamo della vertigine da cui è investito il pellegrino, tutti concentrati sul senso della vista, sullo sguardo illuminato della luce di Dio (gli occhi son diventati luci, v. 66). Non sono descritti movimenti fisici, c’è solo silenzio, uno dei caratteri dell’esperienza mistica. Per esprimere l’esperienza sovrumana corre in aiuto il mito classico, tratto da Ovidio (Metamorfosi, XIII, 898-968): Glauco era un pescatore greco della Beozia che aveva visto che alcuni pesci caduti nelle sue reti riprendevano vita dopo aver mangiato una certa erba. Allora provò anche lui ad assaggiarla e subito si sentì travolgere da una nuova vitalità: istintivamente si tuffò in mare e divenne un dio immortale. Glauco è immagine di Dante pellegrino, che attraverso gli occhi di Beatrice mangia il cibo spirituale. La scena pone dunque l’accento sull’aspetto di trasformazione interiore che il pellegrino sente avvenire in sé, sulla sua accoglienza passiva dell’effetto dello sguardo di Beatrice. Egli non fa altro che contemplarla.
Le gru. Inferno, canto V, vv. 46-49.
“E come i gru van cantando lor lai,/ faccendo in aere di sé lunga riga,/ così vid’io venir, traendo guai,// ombre portate da la detta briga”. E simile a uno stormo di gru, che volano allineate emettendo il loro verso lamentoso, vidi una fila di spiriti, trasportati dalla tempesta che ho descritto, che si lamentavano forte.
Nota: Dante è ormai al secondo cerchio, al cui ingresso si trova Minosse, che avvolgendosi la coda intorno al corpo invia i dannati al girone infernale a cui sono destinati. Il pellegrino e la sua guida affrontano poi la vista dell’eterna bufera che travolge i lussuriosi. Il clima elegiaco è ravvivato da questa seconda similitudine, dopo quella degli stornelli, che concentra l’attenzione su un individuato gruppo di anime, distinte dalle altre per il loro volo in fila indiana (mentre le altre erano a schiera larga e piena) e accompagnato da alti lamenti, come negli stormi di gru. Da notare come, per definire il suono doloroso emesso dagli spiriti, il poeta abbia usato, accanto all’ormai consueto e realistico “guai” (v. 48), anche il raffinato, elegiaco termine “lai”, che è anche il nome specifico di un componimento poetico in lingua d’oil (famosi per esempio quelli di Maria di Francia), incentrato sul lamento d’amore. Il termine è poi passato a significare, in lingua d’oc, il canto lamentoso degli uccelli e con tale senso è entrato nella lingua volgare del sì. Così Dante anticipa il tono di dolce, mai esasperato lamento che domina nel racconto di Francesca, appunto uccisa a causa della sua passione amorosa per Paolo.
Purgatorio, canto XXIV, vv. 64-69.
“Come li augei che vernan lungo ‘l Nilo,/ alcuna volta in aere fanno schiera,/ poi volan più a fretta e vanno in filo,// così tutta la gente che lì era,/ volgendo ‘l viso, raffrettò suo passo,/ e per magrezza e per voler leggera”. Come le gru che svernano lungo il Nilo, qualche volta volano in formazione ampia e poi più veloci formando una sola fila, così tutte le anime che si trovano intorno, rivolgendo gli occhi a destra, affrettarono il passo, leggere e veloci per magrezza e volontà di andare.
Nota: siamo nella sesta cornice, quella dei golosi. Qui Dante ha incontrato un suo grande amico, Forese Donati, poeta fiorentino, e ha discusso lungamente con lui. Ora l’immagine dei golosi scheletriti che sembrano gru in volo mentre si allontanano permette all’autore di riprendere il filo della narrazione. E’ inevitabile notare la somiglianza tra questo e altri movimenti di stormi di uccelli in formazione. Ricordo analoga similitudine nel girone infernale dei lussuriosi; ma, mentre là le anime erano trascinate passivamente dal turbine che le punisce in eterno, qui scelgono spontaneamente (per voler leggera, v. 69) di continuare l’espiazione: perciò distolgono lo sguardo da Dante, che aveva attirato la loro attenzione a causa della sua corporeità, e lo puntano di nuovo sulla direzione del cammino.
Purgatorio, canto XXVI, vv. 44-51.
“Poi, come grue ch’a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver’ l’arene,/ queste del gel, quelle del sole schife,// l’una gente sen va, l’altra sen vene;/ e tornan, lacrimando, a’ primi canti / e al gridar, che più lor si convene;// e raccostansi a me, come davanti,/ essi medesmi che m’avean pregato,/ attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti”. Subito dopo, come uno stormo di gru che in parte volasse verso i monti Rifei, in parte verso la sabbia del deserto africano, queste evitando il gelo, quelle il sole, una schiera (quella dei lussuriosi contro natura) si allontana in direzione opposta alla nostra, l’altra (quella dei lussuriosi di eccessi carnali) si avvicina a noi; entrambe tornano, piangendo, ai canti che avevo udito prima, e alle grida che più sono loro utili. Poi senza una pausa si avvicinano di nuovo a me, come prima, gli stessi spiriti che mi avevano pregato, con l’espressione di chi è attento ad ascoltare.
Nota: “le montagne Rife” sono i mitici monti Rifei o Iperborei, situati in un punto impreciso dell’Europa nord-orientale e simbolo del freddo e della neve eterna. Nella settima e ultima cornice Virgilio, Stazio e Dante camminano uno dietro l’altro, attenti a non farsi bruciare dal fuoco e, contemporaneamente, a non precipitare nel vuoto. Qui espiano il loro peccato i lussuriosi. Il pellegrino assiste a uno strano rito: due gruppi distinti di anime si incontrano, si abbracciano e, dopo essersi gridati ciascuno un esempio di lussuria punita, si allontanano. Insomma, dopo essersi venute incontro e unite, le due schiere si girano reciprocamente la schiena e si separano. L’immagine delle gru per analogia indica insieme la compattezza del volo e la rapidità del loro dileguarsi. La velocità dei movimenti è resa anche dal polisindeto dei vv. 47-49: e tornan; e al gridar; e raccostansi. I movimenti di queste anime sono frenetici, forse in ricordo della velocità con cui nella vita terrena assecondavano le passioni.
La guida. . Purgatorio, canto XXXIII, vv. 106-108.
“…quando s’affisser, sì come s’affigge / chi va dinanzi a gente per iscorta / se trova novitate o sue vestigge”. …quando, così come si ferma chi cammina davanti a qualcuno facendogli da guida, se s’imbatte in qualche novità o qualche traccia di essa.
Nota: siamo nell’ultimo canto del Purgatorio. Dopo le visioni apocalittiche alle quali ha assistito, Dante, insieme a Stazio, Matelda, Beatrice e le sette donne che personificano le virtù teologali e cardinali, si avvia verso il secondo ramo del fiume che scorre nell’Eden, l’Eunoè, le cui acque risvegliano la memoria del bene compiuto nella vita terrena. Ora Beatrice assume la responsabilità del suo ruolo didascalico, invitando Dante a chiedere chiarimenti su quanto ha appena visto. Il rapporto fra i due è mutato: sono di fronte un timido discepolo e una saggia maestra, un uomo in cui l’intelletto non è pari al sentimento, e un’anima beata. Questa similitudine raffigura un’abitudine esplorativa: chi andava in avanscoperta in un territorio sconosciuto dava il segnale di aver incontrato una novità, interrompendo la marcia. Il nuovo luogo è descritto nei suoi aspetti di ombra e frescura, paragonati a quelli dei boschi di montagna, attraversati da freddi torrenti; in questo modo il poeta introduce nuovamente l’elemento dell’acqua, fondamentale nei riti cristiani, specialmente nel battesimo.
Gennaro Cucciniello