Dante. “Divina Commedia”. Similitudini.
Padrone, Pastorello, Pastori, Pecore, Pellegrini.
Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Perciò ripercorrere le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.
Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza, dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.
Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.
Il padrone. Paradiso, canto XXIV, vv. 148-154.
“Come ‘l segnor ch’ascolta quel che i piace,/ da indi abbraccia il servo, gratulando / per la novella, tosto ch’el si tace;// così, benedicendomi cantando,/ tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,/ l’appostolico lume al cui comando // io avea detto: sì nel dir li piacqui!”. Come il padrone che ascolta una notizia che gli dà piacere, e poi abbraccia il servo che gliel’ha portata, festeggiando con lui la bella novità, appena ha finito di parlare; così, benedicendomi col suo canto melodioso, San Pietro apostolo, l’anima luminosa alla quale avevo parlato per suo ordine, girò intorno a me tre volte, appena ebbi terminato, tanto apprezzò le mie parole.
Nota: Beatrice prega i Beati trionfanti, rimasti nel cielo ottavo, di irrorare Dante con parte della loro Grazia. A queste parole le anime si uniscono in corone danzanti e fiammeggianti simili a comete. Da quella più luminosa si stacca l’anima più splendente: è San Pietro, che esamina Dante sulla fede. Il pellegrino risponde con sicurezza a tutte le domande. Alla fine l’apostolo, in segno di approvazione, compie tre giri intorno a Dante e lo benedice. La similitudine spiega il rapporto superiore-inferiore che lega San Pietro e il poeta-viaggiatore: le risposte di Dante sono come la lieta notizia portata da un servo al suo padrone. Il superamento dell’esame rivela che Dante è idoneo, per quanto riguarda la fede, a vedere Dio tra poco, e a scrivere tutto ciò che ha visto, a viaggio ultimato. Quindi la fede, tanto felicemente dimostrata dal pellegrino, non può che essersi trasmessa, potenziata, nel poeta che ora scrive e che ha visto nei cieli ciò che agli uomini è nascosto. Ma qui la sudditanza, psicologica e spirituale, nel Paradiso –luogo della perfetta beatitudine- si scioglie nel canto: l’apostolo Pietro lo intona ed è il simbolo dell’investitura profetica del pellegrino-poeta.
Il pastorello ingenuo. Inferno, canto XXIV, vv. 1-18.
“In quella parte del giovanetto anno / che ‘l sole i crin sotto l’Aquario tempra / e già le notti al mezzo dì sen vanno,// quando la brina in su la terra assempra / l’imagine di sua sorella bianca,/ ma poco dura a la sua penna tempra,// lo villanello a cui la roba manca,/ si leva, e guarda, e vede la campagna/ biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,// ritorna in casa, e qua e là si lagna,/ come ‘l tapin che non sa che si faccia;/ poi riede, e la speranza ringavagna,// veggendo il mondo aver cangiata faccia / in poco d’ora, e prende suo vincastro / e fuor le pecorelle a pascer caccia.// Così mi fece sbigottir lo mastro / quand’io li vidi sì turbar la fronte,/ e così tosto al mal giunse lo ‘mpiastro”. Nella parte iniziale dell’anno, quando il sole intiepidisce i suoi raggi sotto il segno dell’Acquario, e ormai le notti si avviano a durare metà delle ore del giorno, quando la brina sul terreno imita l’immagine della sua sorella bianca, la neve, ma la tempra della sua penna, il suo essere appuntita, dura poco e presto la brina si dissolve, il pastorello, a cui manca il cibo per il suo bestiame, si alza dal letto, guarda fuori e vede la campagna tutta coperta di bianco; perciò si dispera e si batte il fianco, torna in casa e si lamenta girando qua e là, come il poveraccio che non sa che cosa fare; ma poi torna a guardare, e riprende speranza, perché vede che il paesaggio ha cambiato volto in breve tempo, e prende il suo bastone da pastore e manda fuori al pascolo le sue pecorelle. Allo stesso modo mi fece piombare nell’angoscia il mio maestro, quando lo vidi così inquietarsi e con la stessa rapidità il sollievo prese il posto dell’angoscia.
Nota: Dante e Virgilio stanno lasciando la sesta bolgia, quella degli ipocriti, e devono scendere nella settima, dove sono puniti i ladri. Il periodo indicato è quello che va dal 20 gennaio al 20 febbraio, cioè quello dominato dal segno zodiacale dell’Acquario e che precede l’equinozio di primavera, il 21 marzo. Questa lunga similitudine contrasta nettamente con la torrida e tenebrosa atmosfera infernale, visto che ci porta in un inverno luminoso e cristallino. Il quadro è costruito con misuratissima perfezione stilistica. Si può dire che Dante abbia voluto interrompere il ritmo veloce della narrazione per concedersi una pausa di maestria letteraria, quasi miniaturistica (vedi il polisindeto del v. 8, “si leva, e guarda, e vede la campagna”, che ritma la successione veloce dei gesti di apprensione e di pena del giovane pastore, sottolineati anche nel successivo v. 10, “ritorna in casa, e qua e là si lagna”). Nel suo complesso il paragone ha assolto la funzione di chiarire al lettore lo stato d’animo di Dante, angosciato alla vista dell’inquietudine di Virgilio. Ma il turbamento del maestro, doppiamente irritato dalla scoperta della falsità di Malacoda e dallo scherno di Catalano dei Malavolti, ben presto si dilegua, come la brina.
I pastori. Purgatorio, canto XX, vv. 139-144.
“No’ istavamo immobili e sospesi / come i pastor che prima udir quel canto,/ fin che ‘l tremar cessò ed el compiési.// Poi ripigliammo nostro cammin santo,/ guardando l’ombre che giacean per terra,/ tornate già in su l’usato pianto”. Virgilio e io restavamo immobili e in attesa, come i pastori di Betlemme che udirono per primi quel canto, finché il terremoto cessò e con esso si interruppe il coro. Poi riprendemmo il nostro cammino, evitando le anime che giacevano a terra, le quali avevano già ripreso il loro pianto abituale.
Nota: siamo nella quinta cornice, dove espiano le loro colpe gli avari e i prodighi. D’improvviso un terremoto scuote il monte: da ogni cornice, da tutto il Purgatorio, tutte le anime cantano il “Gloria in excelsis Deo”. Una serie di colpi di scena spaventa il pellegrino Dante, subito però rincuorato dalla sua guida. Dopo il terremoto, un’esplosione di voci: il canto corale di tutte le anime che popolano il monte deve avere su Dante il medesimo effetto del terremoto. L’inno intonato è quello che cantano gli angeli alla nascita di Gesù. Per un attimo è come se i due pellegrini condividessero il ruolo dei personaggi del Vangelo, partecipi di un avvenimento di portata universale. Del resto, è proprio in una parabola del Vangelo che si legge con quanta gioia Dio festeggi il ritorno a lui di un’anima che si era prima smarrita nel peccato (la pecorella smarrita, in Matteo (18, 12-14) e in Luca (15, 1-7); il figliuol prodigo, in Luca (15, 11-32). All’improvviso com’era incominciato il terremoto cessa e con esso il coro di anime.
Paradiso, canto XXVII, vv, 46-57.
“Non fu nostra intenzion ch’a destra mano / d’i nostri successor parte sedesse,/ parte da l’altra del popol cristiano;// né che le chiavi che mi fuor concesse,/ divenisser signaculo in vessillo / che contra battezzati combattesse;// né ch’io fossi figura di sigillo / a privilegi venduti e mendaci,/ ond’io sovente arrosso e disfavillo.// In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua su per tutti i paschi:/ o difesa di Dio, perché pur giaci?”. Sta parlando San Pietro: non avevamo certo stabilito, io e i primi papi martiri, che -come in una triste imitazione del Giudizio Universale- una parte dei cristiani sedesse alla destra dei nostri successori, e l’altra a sinistra (come se i Guelfi fossero gli eletti e i Ghibellini i reprobi); né che le chiavi del regno dei Cieli che mi furono concesse da Cristo diventassero lo stemma di un vessillo, la bandiera papale, che fu portato in guerra contro il popolo cristiano; né che la mia immagine diventasse l’impronta di un sigillo usato per sancire privilegi ottenuti col denaro e quindi immeritati, a causa dei quali spesso provo vergogna e collera. Lupi rapaci travestiti da pastori si vedono da qui dilagare per tutti i pascoli del mondo: o aiuto divino, perché continui a startene inerte, perché non intervieni contro questi divoratori della Santa Chiesa?
Nota: siamo nel cielo delle Stelle Fisse. Appena Adamo ha finito di parlare l’intera comunità dei Beati intona un “Gloria” di indicibile dolcezza. Subito dopo, la luce che emana da San Pietro si fa più intensa, e da bianca diventa rossa: il primo apostolo si prepara ad esprimere il suo violentissimo biasimo contro i suoi successori, i papi che si servono della Chiesa per i loro scopi materiali (“Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,/ il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”, vv. 21-24). Un’invettiva di potenza cosmica, di solennità biblica. Allo sdegno corrisponde la grande carica di violenza verbale: il discorso di Pietro mostra che la Chiesa del tempo di Dante è una caricatura di quella che fu un tempo, che la sua trasformazione è piuttosto un grottesco stravolgimento. I papi si stanno macchiando di una terribile colpa, paragonabile a quella dei seminatori di scismi e discordie, puniti nella nona delle Malebolge. La metamorfosi dei pontefici da pastori in lupi è già apparsa nel canto IX del Paradiso, al v. 132: là era Folchetto di Marsiglia che accusava la mancanza di scrupoli dei banchieri fiorentini di aver operato la trasformazione. Ed è ripresa dal Vangelo di Matteo (VII, 15): “Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi in abito di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”.
Le pecore. Inferno, canto XXXII, vv. 13-15.
“Oh sovra tutte mal creata plebe / che stai nel loco onde parlare è duro,/ mei foste state qui pecore o zebe!”. O popolo di dannati sciagurato più di tutti, che sei rinchiuso nel luogo di cui è così difficile parlare, sarebbe stato meglio per voi che nella vita terrena foste stati pecore o capre!
Nota: deposti dalle gigantesche mani di Anteo, Dante e Virgilio si trovano su un vasto lago di ghiaccio, Cocito, in cui sono immersi i traditori. Caina è la prima zona, coi traditori dei congiunti, sepolti nel ghiaccio fino al collo. I traditori sono oggetto della più violenta manifestazione di disprezzo del nostro autore: sono detti peggiori di animali, pecore e capre, privi di ragione, perché il tradimento è peccato di malizia di mente.
Purgatorio, canto III, vv. 79-87.
“Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;// e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,/ addossandosi a lei, s’ella s’arresta,/ semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno;// sì vid’ io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta,/ pudica in faccia e ne l’andare onesta”. Come le pecore escono dall’ovile una, due, tre per volta, mentre le altre restano timorose, abbassando gli occhi e il muso; e ciò che fa la prima fanno anche le altre, stringendosi intorno a lei se si ferma, docili e serene, senza saperne il perché; così allora io vidi muoversi e avvicinarsi l’avanguardia di quella schiera fortunata, umile nell’espressione e dignitosa nell’andatura.
Nota: siamo ancora nell’anti-Purgatorio, i due pellegrini sono incerti sulla direzione da prendere, con Virgilio molto dubbioso ed esitante. Egli pensa ancora di trovare la strada da sé, come se potesse ripetersi la situazione della prima tappa del viaggio; ma ora questo procedimento non funziona. Allegoricamente la Ragione (Virgilio) comincia a smarrirsi, ha già bisogno della mediazione divina e lo stesso Dante personaggio sembra esserne consapevole. E allora le anime-pecore della similitudine, le anime degli scomunicati, sono ben diverse da Virgilio: procedono tranquille nella giusta direzione, non sanno, seguono le prime tranquillamente, sono umili, mansuete, non corrono; eppure stanno per conoscere la beatitudine, che il maestro non conoscerà mai. La similitudine è qui inserita proprio per elogiare l’umiltà, l’innocenza e la mansuetudine, virtù importantissime nel processo dell’espiazione. La figura di Virgilio, dunque, risulta in questi versi annebbiata e come sminuita dalle limitazioni a cui lo costringe il suo stesso ruolo allegorico di Ragione. La tradizione figurativa e plastica medievale, paleocristiana e romanica, avrà certamente contribuito a questa linea ben distinta di classica semplicità e stilizzata nei particolari miniaturistici.
Paradiso, canto XI, vv. 124-132.
“Ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote / che per diversi salti non si spanda;// e quanto le sue pecore remote / e vagabunde più da esso vanno,/ più tornano a l’ovil di latte vòte.// Ben son di quelle che temono ‘l danno / e stringonsi al pastor; ma son sì poche,/ che le cappe fornisce poco panno”. Ma ora il gregge di Domenico si è lasciato ingolosire da un nuovo cibo, così che inevitabilmente si disperde per diversi pascoli; e quanto più le sue pecore si allontanano da lui, tanto più tornano all’ovile prive di latte. Ce ne sono sì alcune che temono il male che ne deriva, e si stringono intorno al pastore, ma sono così poche, che basta poco panno a fare le loro cappe.
Nota: nel cielo del Sole, dove sono le anime dei sapienti, Tommaso d’Aquino ha fatto l’elogio della vita e delle opere di Francesco d’Assisi. Alla fine ha constatato la corruzione di molti frati dell’ordine domenicano che si sono allontanati dalla Regola in direzioni illecite, attratti dal benessere economico delle alte gerarchie ecclesiastiche, oppure da una ricchezza non materiale, ma ugualmente caduca e illusoria, come era quella offerta dagli studi profani, al di fuori del giusto e santo ambito teologico. Il poeta presenta Tommaso con tutta la carica della sua teologia, come fu in terra, con la sua funzione di maestro illuminante. La razionalità, la complessa struttura sintattica del suo parlare sono in rapporto con la sua coerenza umana.
Paradiso, canto XXIX, vv. 103-108.
“Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi / quante sì fatte favole per anno / in pergamo si gridan quinci e quindi:// sì che le pecorelle, che non sanno,/ tornan del pasco pasciute di vento,/ e non le scusa non veder lo danno”. A Firenze non ci sono tanti “Lapo” e “Bindo” quante simili frottole ogni anno vengono gridate solennemente qua e là dai pulpiti; così che il gregge dei cristiani, che non sa la verità, torna dalla predica pasciuto di cose vane e non di verità, e il fatto che ignori l’inganno spirituale non lo salva dalla condanna.
Nota: siamo nel Primo Mobile. Beatrice ha spiegato a Dante l’essenza delle Intelligenze angeliche, che ricevono amore e sapienza direttamente da Dio, ruotandogli intorno. Dopo un breve silenzio spiega ancora quando, dove e come furono creati gli Angeli. Parlando delle facoltà di intelligenza, memoria e volontà falsamente attribuite agli Angeli, Beatrice manifesta il suo sdegno contro i filosofi presuntuosi e i predicatori creduloni o falsi. L’invettiva contro i predicatori di vanità è tra le pagine più violente della “Commedia”: il poeta-personaggio sta uscendo dai cieli mobili, dove l’ispirazione proviene ancora dalle cose della terra e della storia, e sta entrando nell’Empireo, il cui tema è soltanto la presenza viva di Dio.
I pellegrini. Purgatorio, canto XXIII, vv. 16-21.
“Sì come i peregrin pensosi fanno,/ giugnendo per cammin gente non nota,/ che si volgono ad essa e non restanno,// così di retro a noi, più tosto mota,/ venendo e trapassando ci ammirava / d’anime turba tacita e devota”. Come fanno i pellegrini, chiusi nei loro pensieri, che, quando durante il viaggio incrociano persone sconosciute, le accompagnano con lo sguardo ma non si fermano, così quella folla di anime silenziosa e intenta alla preghiera dietro di noi, muovendosi più in fretta, ci osservava stupita continuando a camminare e superandoci.
Nota: mentre Dante, accanto a Virgilio e a Stazio, osserva ancora l’albero a forma di cono rovesciato, appare una piccola folla di golosi pentiti, che espiano nella sesta cornice. Camminano cantando un salmo. Con questa movimentata e realistica similitudine è descritta la condizione generale di tutte le anime del Purgatorio, e dello stesso Dante in viaggio nell’Aldilà: essi sono pellegrini, spinti dal medesimo desiderio di raggiungere Dio. L’immagine è in movimento, e sul movimento domina il silenzio: il tutto reso dai numerosi gerundi (giugnendo, venendo, trapassando) e verbi di movimento (si volgono, non restanno). Da questa immagine in movimento Dante personaggio trarrà una descrizione dettagliata dei volti scheletriti dei golosi. Per ora, è il gruppetto dei tre poeti, tra cui lo stesso Dante, a essere oggetto dell’osservazione meravigliata della schiera di anime, perché il loro aspetto prova che non subiscono la loro stessa pena.
Purgatorio, canto XXVII, vv. 109-114.
“E già per li splendori antelucani,/ che tanto a’ pellegrin surgon più grati,/ quando, tornando, albergan men lontani,// le tenebre fuggian da tutti lati,/ e ‘l sonno mio con esse; ond’io leva’mi,/ veggendo i gran maestri già levati”. Ormai ai primi bagliori che precedono l’alba, che appaiono tanto più graditi ai pellegrini quanto più, tornando a casa, vi pernottano meno lontani, il buio abbandonava ogni parte del cielo, e il mio sonno fuggiva col buio; perciò mi alzai, vedendo che i miei due maestri, Virgilio e Stazio, si erano già alzati.
Nota: settima cornice; l’Angelo della castità cancella l’ultima P dalla fronte di Dante. Ora il pellegrino ha ultimato la purificazione, ma prima di poter salire al giardino dell’Eden, deve attraversare un muro di fuoco, dietro il quale c’è la scala scavata nella roccia. Dante è restio ad affrontare la prova, non riesce a superare l’attaccamento alla propria fisicità. Per convincere l’allievo restio a entrare nel fuoco Virgilio lo avverte che dall’altra parte c’è Beatrice ad attenderlo. E Dante si fa fanciullo, attratto dalla bellissima promessa. Ci si abbandona alla gioia fiduciosa. Può lasciarsi andare alla pace notturna e al sonno. La descrizione di quest’ultima alba in Purgatorio è felice: domina in essa il tema del ritorno a casa dopo un lungo viaggio. Dante sta tornando nella prima casa dell’uomo, l’Eden. Quest’alba, quindi, è profetica: precede immediatamente la luce del Paradiso.
Paradiso, canto I, vv. 49-54.
“E sì come secondo raggio suole / uscir del primo e risalire in suso,/ pur come pelegrin che tornar vuole,// così de l’atto suo, per li occhi infuso / ne l’imagine mia, il mio si fece,/ e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso”. E come avviene in natura che il raggio riflesso esca da quello incidente e risalga verso l’alto esattamente come il pellegrino che vuol tornare alla propria casa, così dall’atto di Beatrice, appena attraverso la vista si fu impresso nella mia facoltà immaginativa, si generò il mio, e fissai lo sguardo sul sole più a lungo di quanto sia possibile a un uomo.
Nota: nella luce del mezzogiorno, ancora nel Paradiso terrestre, Dante personaggio vede Beatrice fissare il sole: desidera fare altrettanto e subito gli sembra che la luce del cielo raddoppi d’intensità. La similitudine rappresenterebbe il pellegrino Dante che torna nella casa ultima dell’uomo, il Paradiso. Ma c’è anche la similitudine del raggio, con il quale appare la metafisica della luce, il diffondersi armonioso dell’energia divina in tutto il Paradiso. L’autore deve risolvere coi mezzi della filosofia, della mistica e della retorica il problema di esprimere in termini umani realtà non umane: la potenza di Dio assume l’aspetto di radiazione luminosa, adeguata a simboleggiare il Sommo Bene, che così diventa percepibile agli occhi umani.
Paradiso, canto XXXI, vv. 43-48.
“E quasi peregrin che si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando,/ e spera già ridir com’ello stea,// su per la viva luce passeggiando,/ menava io li occhi per li gradi,/ mo sù, mo giù e mo recirculando”. E come il pellegrino che si riposa dopo essere finalmente arrivato nel santuario del suo voto, contemplandolo, e già pensa al momento in cui racconterà com’era, io spingevo il mio sguardo in movimento per la pura luce dell’Empireo su tutti i gradini dei Beati, girandolo ora sù, ora giù, ora tutt’intorno.
Nota: nell’Empireo Dante assiste stupito a tutto lo splendore della comunità dei Beati, che trionfano in forma di rosa bianchissima, continuamente visitata da Angeli simili ad api. In apertura di canto, la bella immagine della rosa candida, l’ultima delle figure metamorfiche in cui si era composta l’intera comunità dei Beati, riappare in primo piano. La similitudine del pellegrino riappare alla fine del viaggio, e per la prima volta Dante si attribuisce qui direttamente la definizione di “pellegrino”, per indicare quello che è stato in tutto il viaggio nell’Aldilà, e sarà ancora per poco. Questo è il momento conclusivo, quando, portato a termine il cammino e mantenuta la promessa, il viaggiatore stanco si gode il meritato riposo e intanto pensa già a come sarà bello raccontare ai propri cari ciò che ha visto. Egli si sente dunque ancora molto legato alla terra, è certo che vi ritornerà.
Paradiso, canto XXXI, vv. 103-111.
“Qual è colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra,/ che per l’antica fame non sen sazia,// ma dice nel pensier, fin che si mostra:/ “Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,/ or fu sì fatta la sembianza vostra?”;// tal era io mirando la vivace / carità di colui che ‘n questo mondo,/ contemplando, gustò di quella pace”. Come il pellegrino che da un paese lontano viene a Roma a vedere l’immagine di Cristo impressa nel Sudario della Veronica, il quale per il desiderio lungamente coltivato non smette mai di guardarla, ma pensa, finché è esposta: “Signore Gesù Cristo, Dio vero, fu dunque questo il vostro aspetto?”; con tale stato d’animo io ammiravo l’ardente carità di San Bernardo, colui che nel mondo terreno, con la contemplazione, poté godere in anticipo la beatitudine dell’Empireo.
Nota: nell’Empireo Dante assiste stupito a tutto lo splendore della comunità dei Beati, che trionfano in forma di rosa bianchissima, continuamente visitata da Angeli simili ad api. In apertura di canto, la bella immagine della rosa candida, l’ultima delle figure metamorfiche in cui si era composta l’intera comunità dei Beati, riappare in primo piano. D’improvviso Dante non trova più Beatrice accanto a sé ma un vecchio che si dichiara mandato da lei: è il mistico San Bernardo, che gli mostra la sua beata donna assisa in trono, nel terzo grado di beatitudine, vicinissima a Dio. Poi consiglia a Dante di osservare tutti i petali della rosa, fino a quello più alto. Nella similitudine il pellegrino Dante ha fede fermissima e nelle sue parole di affettuosa venerazione dichiara di avere avuta proprio la grazia di vedere il volto di San Bernardo, che per lui è prefigurazione di quella visione di Dio, cui anela ed è certo di poter contemplare, per intercessione della Vergine Maria.
Gennaro Cucciniello