Dante. “Inferno”. Canto I°. Lettura di V. Sermonti
“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita. // Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia”, e via dicendo.
Così comincia, come tutti sanno, il più gran libro scritto da un cristiano. Nel quale si dice del pellegrinaggio compiuto, per singolarissima grazia divina, dal poeta stesso, Dante Alighieri, “fiorentino di nascita, non di costumi”, attraverso i tre regni dei morti. Pellegrinaggio che, per allegoria, significa il duro tirocinio morale e conoscitivo di ogni essere umano per liberarsi dallo stato di colpa e disperazione e morte che lo opprime, ed ottenere pace per il breve tratto di questa vita e, per la eterna, la felicità vertiginosa della percezione di Dio. Ma anche, più in generale, significa l’itinerario di tutta la cristianità verso il comune riscatto nella giustizia.
Una prima elementare curiosità: ma Dante questo viaggio nell’oltretomba crede di averlo fatto per davvero? O, almeno, è questo che vuol farci credere? – non consente risposte elementari.
Su questo libro, come tutti sanno, sono stati scritti centinaia di migliaia di libri. Contiene, questo libro, passi, versi, aggettivi, pronomi, per ciascuno dei quali sono state fornite nel corso di quasi sette secoli moltitudini di versioni e di interpretazioni inconciliabili. Il libro nel suo insieme è stato letto e rubricato come una visione beatifica, il romanzo teologico di un cristiano qualsiasi, un’epopea allegorico-didattica, un massimario di scienze occulte, un Baedeker iniziatico, il pamphlet cifrato di un templare, eccetera; ma anche come la blaterazione di un eretico cavilloso, e anche come una sacra scrittura.
E’ legittimo il sospetto che molte di queste letture abbiano sovrapposto alla Divina Commedia un sedimento di significati secondi, terzi e quarti, che Dante stesso ignorava, e che non capirebbe. Ma certo è che molti altri significati laboriosamente orditi da Dante sotto la trama del poema, noi li abbiamo perduti per sempre.
Tuttavia, la candida pretesa di leggere questo libro come si legge una antologia di emozioni liriche, di leggerlo, diciamo così, col cuore (e se non si capisce subito, pazienza), è forse una pretesa un po’ gretta: anche il cuore, infatti, ha i suoi pregiudizi e una sua saccenteria.
D’altra parte, Francesco Petrarca accreditava con sufficienza a Dante, morto da meno di quarant’anni, l’entusiasmo grossolano degli osti e dei tintori. Non misconosciamo il sangue rosso di quei poveri bisnonni, e scaldiamo la nostra grossolanità ereditaria con un po’ del loro entusiasmo, ingegnandoci di capire quel tanto che ci riuscirà dello sterminato tesoro di sapienza, d’arte e di passione che questi antichi versi svelano e nascondono. E se può confortarci il piccolo orgoglio che un italiano li abbia scritti per noi Italiani, un uomo per noi uomini (dato che, pazzo com’era, credeva in Dio e sperava in noi), lasciamoci confortare.
Dunque, Dante Alighieri sta raccontando che, giunto alla metà del cammino della vita umana (della nostra, non solo della sua), si accorse di essere capitato in un bosco buio, avendo smarrito la strada maestra. Sapremo subito che è notte; a tempo debito, che è una notte di luna piena. Nel Convivio (il trattato enciclopedico che Dante interruppe per metter mano alla Commedia) la durata naturale della vita dell’uomo è fissata sui settant’anni, in conformità ad alcuni versetti della Bibbia, a una complessa cabala numerale e alle stime mediche correnti. Nella selva oscura Dante si ritrova dunque intorno ai trentacinque.
Che l’anno di Grazia sia il 1300 è sicuro, come vedremo più avanti; probabile, che la notte sia quella fra il 25 e il 26 marzo, a meno che non sia quella sull’8 aprile, data in cui quell’anno cadde il Venerdì Santo (vedremo anche questo). Siamo, comunque, in prossimità dell’equinozio di primavera.
Il luogo, invece, è un luogo geograficamente indeterminato dell’emisfero boreale, non troppo distante dalla montagna di Sion. In termini allegorici sappiamo, però, che questa selva selvaggia e aspra e forte, che è difficile da rappresentare quanto è spaventosa da ricordare, significa, insieme, un periodo torbido e infelice della vita di Dante, e una fase di disordine istituzionale e di degradazione morale di Firenze, dell’Italia, dell’universo cristiano.
Selva così amara, che la morte non è molto più amara. Quale morte? La morte eterna dell’anima, cui approda un lungo bighellonaggio nel peccato? O anche la morte corporale, che Dante aveva avuto circostanziati motivi per temere negli anni intercorsi fra la data del viaggio oltremondano e il giorno in cui scrisse questi versi? Diciamo pure: la morte (che non è dir poco).
E solo per trattare del bene che finì per trovarvi, il poeta afferma di prestarsi a menzionare anche le spaventevoli visioni che lo visitarono in quella selva oscura. O, per dir meglio, sull’orlo di quella selva.
Infatti, se Dante-poeta non sa dirci come fece a cacciarsi nella tenebrosa boscaglia, tale era il suo torpore nel momento in cui lasciò la diritta via, non ci dirà nemmeno come fece a venirne fuori. E il racconto inizia proprio nel momento in cui Dante-pellegrino, sbucato dalla valle boschiva che lo aveva compunto, trafitto di paura, si affaccia su una piaggia spoglia e deserta; guarda in alto, e scorge il crinale di un colle vestito dalle prime luci dell’alba (il pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle è, naturalmente, il sole, che nell’antica cosmogonia di Tolomeo figura quarto dei sette pianeti che ruotano intorno alla terra, e che pare guidi gli uomini nella direzione giusta, per qualsiasi sentiero si siano incamminati, come la Grazia divina).
Adesso un po’ si acquieta la paura che s’era depositata nella conca del cuore del pellegrino (nel lago del cor) per tutta la notte che aveva trascorso nella miserevole angoscia (pièta).
E nel momentaneo sollievo, fiorisce la prima similitudine della Divina Commedia, famosa: E come quei che con lena affannata… come colui che, col fiatone, scampato appena al mare in burrasca e approdato sulla riva, si gira verso l’acqua minacciosa e la sbircia, così il suo animo, in cui perdurava l’istinto di fuga, si volse indietro a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva.
Il pellegrino sosta un attimo a riposare il corpo affaticato. Poi subito lo vediamo avviarsi per il brullo pendio che precede l’erta del colle, zoppicando controluce. Senza perderlo di vista (non andrà lontano), noi possiamo sostare un attimo di più.
Inutile nasconderci che, uscendo dalla allegorica selva, ci siamo immessi in un intrico di allegorie. Si vorrebbe almeno sapere che cosa valga, allegoricamente parlando, questo passo letale, che non è mai stato traversato, superato, forzato da essere umano in carne ed ossa (sempre che persona viva significhi proprio questo e sia soggetto della subordinata).
Accolta con la massima circospezione l’ipotesi preliminare che, in termini fisici, il passo non sia tanto l’inestricabile selva, quanto il limitare della selva, l’affaccio della selva sulla piaggia deserta, prendiamo atto che varcarlo e, affardellati dal corpo, scalare il dilettoso monte è proibito, anzi è impossibile. E anche se Dante, di fatto, l’ha varcato (esperienza senza precedenti), vedremo bene che la scalata non riuscirà nemmeno a intraprenderla, così su due piedi.
Ora se, come pare, il colle (o, meglio, la sua cima sagomata dalla luce) è figura allegorica della vita contemplativa, il famoso passo dovrebbe allegoricamente significare il transito diretto dalla vita di peccato (la selva) alla contemplazione.
E perché questo transito diretto, questo corto andar (come lo definirà Virgilio nel canto II), insomma questa ripida scorciatoia è impraticabile?
Nel Convivio Dante ci informa “che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini” : l’uno, “buono”, è il cammino della vita attiva, che mena i più, fra mille negozi e mille turbamenti, alla “cera” della felicità morale (e sarà questa la diritta via che Dante ha smarrito perdendosi nel bosco); l’altro, “ottimo”, è l’itinerario che conduce i meno al “miele” della beatitudine contemplativa. Ma per venirne a capo, sarà necessario depurarsi dalle passioni che appesantiscono la nostra povera carne infiltrata dalla lussuria, imbevuta dalla superbia, tarata dall’avarizia; affinarsi nell’esercizio ascetico della speculazione; macerare nel cuore l’esperienza di tutte le colpe, di tutte le pene, della speranza più disperata.
Parliamoci chiaro: se il peccatore Dante fosse riuscito nella maldestra e sbrigativa ascensione cui si sta disponendo, il poeta Dante non avrebbe avuto di che raccontarci il suo portentoso viaggio iniziatico traverso i primi due regni dei morti. Infatti, la vera specola della contemplazione celeste non confina con la selva della perdizione e dell’angoscia: anzi, come avremo modo di constatare, è agli antipodi, sulla cima del monte impervio del Purgatorio. Forse, probabilmente, questo colle qui non è che un miraggio antipodale, la sagoma illusoria d’una promessa.
Ma sarà bene ripetere che annaspiamo fra ipotesi, tanto più labili, quanto meno nitido è il supporto letterale (grammaticale e fisico) su cui riposa il soprasenso allegorico.
Cerchiamo di stare ai fatti. E fatto sta che, appena il nostro si avvia, gli si para davanti, materializzata dal nulla, l’immagine d’una lonza snella, svelta e di pelo maculato. E gli taglia la strada, tanto che lui è più volte tentato di tornare sui suoi passi.
Ma l’ora mattutina e la dolcezza della stagione, per un momento, lo rinfrancano e gli lasciano sperar bene di quella fiera dalla pelle elegantemente screziata. Infatti, è l’inizio di primavera, e il sole sale sull’orizzonte nel segno dell’Ariete, come quando (secondo tradizione) Dio impresse, creandolo, il primo moto alle cose belle del firmamento (alle stelle, cioè).
Dunque, l’ora e la stagione rinfrancano il pellegrino. Ma non tanto che non l’atterrisca la vista di un leone, che gli si fa incontro a testa alta, furente di fame, così che l’aria stessa pare tremarne; e quella di una lupa, che nella sua magrezza sembrava oppressa da bramosie d’ogni sorta. Con l’orrore che sprigiona il suo aspetto, questa lupa, che rende grama la vita a molti, affiorata anche lei dal nulla come dal fondo nero di un incubo, trasmette a Dante una tale carica d’angoscia, che egli…ch’io perdei la speranza de l’altezza. Verso semplice e supremo.
E’ pacifico che le tre fiere, che costituiscono un ostacolo proibitivo per l’ascesa del colle, cioè per il pentimento e la conversione del peccatore, siano emblemi di un bestiario allegorico. Molto meno pacifica è l’assegnazione ad ogni singolo animale di uno specifico vizio, o peccato, o mala disposizione. Teniamoci alle interpretazioni più antiche, che sembrano anche le meno tortuose.
La lonza, che dovrebbe essere una pantera o, magari, un ghepardo (risulta che un felino di questa risma fosse esposto a Firenze nel palazzo del Comune, quando Dante aveva vent’anni), dunque la lonza, elegante e screziata, simbolizzerebbe la lussuria; il leone rabbioso, la Superbia; la lupa, l’Avarizia, la gretta e insaziabile venalità.
Chi insiste sul significato politico delle tre fiere punta specialmente sulla lupa, la quale, d’altronde, col suo apparire cancella le altre due e forse, in qualche modo, le compendia. Potrebbe essere, questa bestia senza pace, un’altra figurazione di Firenze, sbranata dalla propria cupidigia; potrebbe, forse meglio, essere la Curia di Roma, tanto più che, a suo tempo, Dante aveva sicuramente visto di persona la lupa capitolina, che troneggiava allora, senza i due lattanti, in tutta la sua geometrica ferocia, nella sala di Giustizia del palazzo lateranense. E in effetti, dà da pensare il fatto che, avendo estratto le sue tre bestie da un oracolo del Libro di Geremia, dove appare il famelico trio della pantera del leone e del lupo, Dante abbia cambiato sesso al lupo. Tuttavia, chi ha pensato di poter ricavare da questa constatazione l’idea che Dante (conforme l’uso latino, che associava il vocabolo lupa più alla puttana che alla femmina del lupo) nella lupa avrebbe significato la Lussuria, ha pensato una tremenda sciocchezza.
Davanti alla lupa, Dante dunque batte in ritirata. E, nello stato d’animo di chi, avaro o giocatore d’azzardo, non pensa che ad accumulare, e quando arriva il momento che perde tutto, piomba in una malinconia ossessiva, egli si vede risospinto da quella bestia ingorda e irrequieta nell’oscurità della selva.
Non un rumore, fin qui: il buio è silenzio del sole. Tacciono anche le immagini. E quando, nella rovinosa ritirata, si offre d’improvviso alla vista di Dante-personaggio una figura soccorrevole, Dante-poeta la ricorda, con una metafora acustica, come qualcuno che per lungo silenzio parea fioco: cioè, forse, come una figura umana che pareva fievole, indefinita, scontornata, quasi affiorasse da una lunga assenza.
Appena la scorge nel deserto della piaggia, grida: “Abbi pietà di me, chiunque tu sia, ombra od omo certo (concreto)!”.
Piana e minuziosa, l’ombra risponde: “Non sono uomo, fui uomo. I miei genitori erano dell’alta Italia, mantovani entrambi. Nacqui sotto Giulio Cesare, quando però la sua parabola era già disegnata; e vissi a Roma sotto il buon Augusto, in tempo di paganesimo. Fui poeta, e cantai di Enea, il giusto figlio di Anchise, il quale venne da Troia dopo l’incendio della rocca superba della città. Ma tu perché torni indietro? Perché vuoi ricacciarti in tanta noia (nell’italiano dei primi secoli, con una connotazione molto più tormentosa che non oggi). Perché non tenti la salita del dilettoso monte?
L’ombra è l’anima scorporata di Virgilio, sommo poeta latino nato 70 anni prima di Cristo, il famoso saggio che la leggenda dell’età di mezzo aveva accreditato di un sapere così sconfinato e arcano da rasentare la magia nera, con un brivido premonitore della Buona Novella.
Dante l’ha riconosciuto e avvampa di venerazione: “Sei tu quel Virgilio, quella prodigiosa sorgente di eloquenza?”. E si raccomanda: “O de li altri poeti onore e lume, l’assiduità e la passione con cui ho letto e riletto e rovistato il tuo libro mi valgano la tua benevolenza”. Virgilio non è solo il suo maestro, ma anche il suo “autore”, cioè, secondo la definizione registrata nel Convivio, “persona degna d’essere creduta e obedita”; è il poeta con cui Dante si sente in debito del bello stilo che gli ha fatto onore.
“Bello stilo”, si noti, è termine tecnico, e vale “stile tragico”. Nel “De Vulgari Eloquentia” (il trattato di retorica, linguistica e poetica, scritto in latino e, forse, interrotto anch’esso dall’insorgere della Divina Commedia), Dante scheda tre livelli stilistici: il “tragico” o illustre, il “comico” o medio, l’”elegiaco” o dimesso. Al “tragico”, che esige gravità di pensiero e splendore di versificazione, si addicono solo argomenti elevati e difficili. Somma tragedia è l’Eneide. Tragico è lo stile delle canzoni sapienziali e morali che Dante aveva dettato nella prima maturità. Ma non foss’altro perché il poema si fregia legittimamente del titolo di “Commedia”, un discorso sui tre stili non può bruciarsi in due parole. Ci torneremo. Basterà togliersi subito dalla testa l’impressione che “tragedìa” e “comedìa” (così accentava Dante) siano generi teatrali.
Procediamo. Dante addita a Virgilio la lupa, e lo supplica di salvarlo da quella, che lo fa tremare tutto, vene e arterie (le vene e i polsi). E, tremando, si mette a piangere. Virgilio lo conforta con circostanziata eloquenza: “Se vuoi scampare a questa selva senza incappare nella lupa, devi tenere altro viaggio (eccolo qui, l’ottimo cammino). Infatti, questa bestia che ti fa gridare aiuto non lascia passare persona viva, anzi, tanto la ostacola, che l’uccide. Ha indole così perfida e dannata, che non si sazia mai, e dopo il pasto ha più fame di prima. Molti sono gli animali con cui s’ammoglia, e saranno sempre di più, finché non verrà il veltro, che la farà morire straziandola”.
Virgilio fin qui si è espresso con gran chiarezza, in modo molto piano. E quantunque la lupa di cui sta parlando sia quel gruppo di allegorie che sei secoli e mezzo non son bastati a sbrogliare (chi siano, ad esempio, i molti animali con cui si accoppia, se vizi o persone, non si sa), almeno è anche la bestia patita e affamata che la paura di Dante ci lascia intravedere… Il veltro, no: è un puro emblema, nascosto nell’oscurità deliberata della profezia: “Questi non ciberà terra né peltro,/ ma sapienza, amore e virtute,/ e sua nazion sarà tra feltro e feltro…” Il veltro, d’accordo, in natura, è un cane da caccia agile e spietato, provetto cacciatore di lupe. Ma se i requisiti imperscrutabili che il poeta gli accredita non producono immagine, come potremo mai sapere con sufficiente certezza a cosa alluda, a chi? Chi caccerà dall’Italia e dal mondo cristiano l’avarizia e la cupidigia che li deturpano? Un papa o, forse meglio, un imperatore? O quel tal principe ghibellino, o un qualche ordine di frati mendicanti? O, magari, Dante stesso? Sull’identità di questo redentore dell’ordine terreno, d’altronde oscuramente e ostinatamente pronosticato da tutto il profetismo del ‘200, ormai i più preferiscono non pronunciarsi. Preferiscono, anzi, pensare che lo stesso Dante non intendesse alludere a una persona storica determinata. Dopotutto, fra tante profezie che costellano la Commedia, questa è l’unica che riguarda un evento non ancora accaduto nel momento in cui Dante scrive: insomma, l’unica profezia vera e propria. La profezia di Dante.
Nell’indeterminatezza, basterà ricordare che il “peltro” è una lega metallica utilizzata nella fusione delle monete, e che la “nazione”, cioè la nascita del veltro, avverrà probabilmente tra poveri panni: “tra feltro e feltro” (a meno che col primo “feltro” non s’intenda la città di Feltre, una sfera celeste, il berretto frigio di Castore, ecc.; e col secondo, ecc. ecc.). Di sicuro c’è, che questo veltro è destinato a salvare quell’umile Italia (“umile”, che nel virgiliano “humilis Italia” indica la piattezza della costa laziale, varrà qui “misera, oppressa”), per la quale morirono in battaglia gli eroi della mitica guerra fra Italici e Troiani, cantata da Virgilio nell’Eneide con imparziale pietà; e che incalzerà la lupa di borgo in borgo, finché non l’avrà ricacciata nell’inferno, da cui l’ha scatenata in origine (prima) l’invidia di Lucifero.
Qui Virgilio comunica a Dante di aver preso per il suo bene (“il tuo meglio: lo tuo me’”) la ponderata decisione di condurlo attraverso spazi senza tempo, nei quali udrà strida disperate, e riconoscerà gli antichi spiriti dolenti, che invocano la seconda morte, cioè, forse, l’annientamento definitivo nello stagno di fuoco che il Libro dell’Apocalisse promette ai dannati come estremo e disperato sollievo.
Dante vedrà anche coloro che, nelle fiamme del purgatorio, espiano in letizia le proprie colpe, perché contano di essere assunti, presto o tardi, fra le beate genti. “Per salire alle quali”, conclude il famoso saggio, “sempre che tu abbia l’animo di desiderarlo, avrai bisogno di una guida più degna di me. Con lei ti lascerò, congedandomi. Infatti, l’imperatore che lassù regna (se l’impero di Dio spazia dappertutto, in cielo è la sua reggia, è il suo trono) non vuole che io acceda alla città celeste, poiché fui ribellante, refrattario alla sua legge. Felice chi Dio sceglie per il suo regno”.
E Dante incalza: “Poeta, torno a supplicarti, per quel Dio che tu non hai conosciuto: scampami da questo male e, peggio, dalla dannazione. Conducimi dove hai detto, così ch’io possa vedere la porta di san Pietro, e coloro che mi hai rappresentato immersi in tanta disperazione”. L’antico poeta si muove, il poeta moderno lo segue.
Se per “porta di san Pietro” qui s’intenda, come par proprio, la porta del purgatorio (dove però non c’è Pietro) o quella del paradiso (dove però non si vedranno porte), è l’ultimo dei centomila dilemmi di questo primo canto: enigmatico, discontinuo, tangibilmente irreale, sottratto talora al principio d’identità e non contraddizione, come la sintassi di un sogno.
Perdonate la miseria della parafrasi e la farraginosa carenza delle chiose. Ma per tentare di orientarsi nel labirinto di questi versi –insieme proverbiali ed arcani- forse non c’è che leggere sino alla fine il gran libro, il libro-mondo al quale preludono.
Vittorio Sermonti