Dante, Similitudini. “Eclissi di sole, Ecuba infelice e impazzita, Edera, Erba, Fabbro, Falcone, Fanciulla che danza, Fanciullini, Febbricitante, Ferro bollente, Ferro incandescente”
Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.
Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso, e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità.
Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.
Eclissi di sole. Paradiso, canto XXV, vv. 118-123.
“Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta / di vedere eclissar lo sole un poco,/ che, per veder, non vedente diventa;// tal mi fec’io a quell’ultimo foco / mentre che detto fu: “Perché t’abbagli / per veder cosa che qui non ha loco?”. Come chi aguzza lo sguardo e s’ingegna di vedere un’eclissi parziale di sole, e per lo sforzo di vedere diventa cieco; così diventai io guardando l’ultimo spirito fulgente come fuoco, finché non mi fu detto da lui: “Perché ti abbagli per guardare qualcosa che qui non c’è?”.
Nota: Ora nel cielo delle Stelle fisse appare San Giacomo, accolto festosamente da San Pietro. Giacomo esamina Dante sulla speranza: che cosa è, quanto intensa è la sua, da dove gli viene. Il pellegrino supera felicemente l’esame. Appare infine il terzo apostolo esaminatore, San Giovanni. L’unico sentimento che anima lo spirito che fa il suo ingresso in scena è la carità, terza e ultima virtù teologale. Il primo approccio al terzo apostolo è tutto imperniato sul senso della vista. Il pellegrino, per troppo voler guardare, diventa momentaneamente cieco. Ma che cosa lo ha spinto a sforzarsi tanto, lui di solito così prudente e pronto a distogliere in fretta lo sguardo (come, per esempio, in Par, XXIII, 28-33)? Era una comune credenza nel Medioevo, non smentita neanche da San Tommaso, che san Giovanni evangelista fosse salito al cielo con tutto il corpo, poiché erroneamente si interpretò un passo evangelico (Giovanni, XXI, 22-23): “Voglio che egli rimanga finché io verrò”. Ovviamente qui Dante coglie l’occasione per sfatare tale leggenda, pur dimostrando con la similitudine dell’eclissi parziale di sole la sua attenta curiosità umana.
Ecuba infelice e impazzita. Inferno, canto XXX, vv. 13-27.
“E quando la fortuna volse in basso / l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,/ sì che ‘nsieme col regno il re fu casso,// Ecuba trista, misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva // del mar si fu la dolorosa accorta,/ forsennata latrò sì come cane;/ tanto il dolor le fé la mente torta.// Ma né di Tebe furie né troiane / si vider mai in alcun tanto crude,/ non punger bestie, nonché membra umane,// quant’io vidi in due ombre smorte e nude,/ che mordendo correvan di quel modo / che ‘l porco quando del porcil si schiude”. E quando la sorte fece precipitare la potenza dei Troiani, che osavano qualsiasi impresa, così che insieme col regno anche il re (Priamo) fu annientato, la sciagurata Ecuba, infelice e schiava, dopo aver visto uccidere la figlia Polissena e dopo aver trovato, sopraffatta dal dolore, il corpo del suo ultimo figlio Polidoro sulla spiaggia, pazza furiosa si mise a latrare come un cane, tanto il dolore le aveva stravolto la mente. Ma non si videro mai pazzi furiosi tebani né troiani infierire con tanta crudeltà contro alcuno, non nel ferire animali (come Atamante) né corpi umani (come Ecuba con Polinestore), quanta ne vidi in due anime esangui e nude che correndo forsennate per la bolgia distribuivano morsi come i maiali quando con furia escono dal porcile.
Nota: siamo nella decima bolgia, quella dei falsari di persona, che vagano correndo e mordendo rabbiosamente chiunque capiti loro a tiro. L’esordio della similitudine è tragico, un pezzo di rievocazione classica: la disperazione folle di una madre per la perdita di tutti i figli (ben tre aggettivi per l’infelicità di Ecuba, trista, misera e cattiva, v. 16; e poi l’aggettivo sostantivato la dolorosa, v. 19), e solo dopo si citano le mostruose azioni dettate dalla pazzia, forsennata latrò sì come cane; mente torta, vv. 20-21. Ma poi si finisce col paragone del porco, il che ci riporta al tono centrale del canto precedente. Ecuba era la regina di Troia: dopo la presa della città era stata fatta schiava dagli Achei e aveva visto uccidere la figlia Polissena, trucidata sulla tomba di Achille, e aveva anche dovuto subire la vista del cadavere di Polidoro, l’ultimo figlio che le era rimasto. La terzina 13-15 introduce l’episodio vero e proprio, la 16-18 illumina la patetica figura di Ecuba colpita dalla tragedia, la 19-21 ne evidenzia la follia. La fonte classica è Ovidio (Metamorfosi, XIII, 439-575) ma Dante non riporta dettagli raccapriccianti (per es. la trasformazione di Ecuba in una cagna): Polidoro non era stato ucciso dai greci, ma dal cognato Polinestore per avidità di denaro, e il corpo era stato restituito dalle acque del mare sul litorale della Tracia. Ecuba impazzita strappò gli occhi all’assassino Polinestore. Dai luoghi senza tempo del mito Dante sposta la scena al buio e al fetore della bolgia e ai suoi particolari rabbrividenti.
L’edera. Inferno, canto XXV, vv. 58-60.
“Ellera abbarbicata mai non fue / ad alber sì, come l’orribil fiera / per l’altrui membra avviticchiò le sue”. Non avevo mai visto un’edera abbarbicarsi così a un albero come quella mostruosa creatura si avvolse con le sue membra intorno a quelle dello spirito in forma umana.
Nota: siamo nella settima bolgia, quella dei ladri. I peccatori hanno le mani legate dietro la schiena da serpenti. E avvengono fatti stranissimi: serpenti che mordono e inceneriscono i dannati, serpenti che non si limitano a legare le braccia ma che si aggrovigliano col proprio corpo attorno al corpo del peccatore. Fonte di una tale struttura descrittiva è Ovidio, quando racconta della fusione tra una ninfa e un giovane, che dà vita alla figura dell’ermafrodito: “La Nàiade, gettatesi via tutte le vesti si slancia in mezzo all’acqua e afferra l’adolescente che si ribella, gli strappa a forza dei baci, gli infila sotto le mani e gli palpa il petto, benché lui non voglia, e gli si avvolge intorno ora di qua ora di là. Alla fine, per quanto lui si sforzi di resistere e cerchi di sgusciar via, lo avviluppa come il serpente che, ghermito e rapito in cielo dall’aquila reale, mentre sta appeso le lega il collo e le zampe e le si annoda con la coda attorno alle ali spiegate, o come l’edera che fascia i lunghi tronchi” (“Metamorfosi, IV, 360-379).
L’erba. Purgatorio, canto XI, vv. 115-117.
“La vostra nominanza è color d’erba,/ che viene e va, e quei la discolora / per cui ella esce de la terra acerba”. La vostra fama, o uomini, è come il verde dell’erba, che si fa intenso e subito svanisce, ed è fatto sbiadire proprio dal sole, da chi l’aveva fatto uscire tenero e splendente dalla terra.
Nota: siamo nella prima cornice, dove i superbi espiano i loro peccati. Dante ha incontrato il celebre miniatore Oderisi da Gubbio che in una lunga dissertazione sulla stoltezza dell’umana superbia ammonisce gli uomini anche sulla vanità della fama mondana. E’ l’onnipotenza di Dio che dà e toglie agli uomini –come il sole fa nascere, rinverdire e poi appassire l’erba dei prati- e li inchioda ai loro limiti di tempo, spazio e grandezza. Qui l’umiltà di Oderisi ha una sfumatura di amarezza, quasi di pessimismo. Si sente deluso dalla gloria del mondo, ma ancora lontano dalla pace infinita che gli darà la fusione con Dio in Paradiso. L’immagine dinamica dell’erba che incessantemente viene e va richiama l’idea del ciclo inarrestabile delle stagioni e del tempo, a cui anche l’uomo è ricondotto insieme agli animali e alle cose, e di cui fa parte la sua fama illusoria, ben lontana dall’essere eterna. Nessun tipo di attività, nessuna impresa può concederla: né l’appartenenza a un’antica famiglia feudale, né il talento dell’arte, né il valore militare. Solo il volere di Dio può rendere immortale l’uomo. Cfr. Salmi, LXCCIX, 6: “In un giorno passa come erba; al mattino fiorisce e passa; alla sera cade; s’indurisce e secca”. “L’immagine dell’Eterno che fa tutto dileguare è pur sempre l’immagine di un Eterno divino, e reintroduce il dovere e la gioia di ben fare, e, abbattendo la vanagloria, restaura la gloria” (Croce).
Il fabbro. Paradiso, canto II, vv. 127-129.
“Lo moto e la virtù d’i santi giri,/ come dal fabbro l’arte del martello,/ da’ beati motor convien che spiri”. Il movimento e la virtù informativa delle sfere celesti deriva di necessità dalle intelligenze angeliche motrici dei cieli, come dall’intelligenza del fabbro deriva l’arte del martello.
Nota: Dante è salito nel cielo della Luna. Chiede a Beatrice quale sia la vera causa di quelle che appaiono dalla Terra come macchie della superficie lunare. Beatrice risponde. Noi dobbiamo capire che ognuno degli aridi argomenti scientifici è il segno di un moto di carità nella santa, è un venire incontro, paziente e materno, alle limitate forze intellettuali dell’amato. Nel primo canto l’autore aveva descritto il moto ascensionale delle cose create verso il creatore; in questo secondo canto, con perfetta circolarità, viene descritto il moto contrario, dal creatore a tutte le parti del creato. I commentatori sono convinti che Dante ormai ha abbandonato l’aristotelismo per dirigersi verso fonti neoplatoniche e islamiche.
Il falcone. Inferno, canto XVII, vv. 127-136.
“Come ‘l falcon ch’è stato assai su l’ali,/ che sanza veder logoro o uccello / fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”, // discende lasso onde si move isnello,/ per cento rote, e da lunge si pone / dal suo maestro, disdegnoso e fello;// così ne puose al fondo Gerione / al piè al piè de la stagliata rocca,/ e, discaricate le nostre persone,// si dileguò come da corda cocca”. Come il falcone che è rimasto in volo a lungo e che, senza vedere un uccello da ghermire o il richiamo del suo padrone, fa dire al falconiere “Purtroppo vedo che ritorni!”, e scende stanco al luogo da cui spicca il volo con agilità, con molti giri nell’aria, e si posa lontano dal falconiere, sdegnoso e avvilito; così Gerione si posò in fondo al precipizio, proprio ai piedi della roccia tagliata a picco, e, fattici scendere, sparì nell’aria con la rapidità di una freccia scoccata dall’arco.
Nota: Dante e Virgilio attendono, sull’orlo del baratro, il mostro Gerione che deve trasbordarli ai cerchi inferiori dell’Inferno. I due salgono sulla groppa. Spiegate le ali, il mostro scende a larghi giri fino alla meta, posando lentamente il suo carico per poi ripartire nell’aria con lo scatto di una freccia. La chiusa fulminea del canto (enfatizzata fonicamente dalle riprese sonore dell’ultimo verso, “come da corda cocca”) contrasta con la lenta descrizione del volo del falco. Poi Gerione, affascinante nella sua doppiezza di galantuomo mansueto nel viso e di poderosa macchina volante, dopo aver funzionato da mezzo di trasporto, riprende la sua natura inquietante e inafferrabile, facendosi riassorbire dalla tenebra della valle infernale. Il mostro si era mosso veloce alla volta dei due poeti, poi è stato addomesticato da Virgilio e ha trasportato i due pellegrini, ma ora –deluso di non aver fatto preda- li pianta in asso, scomparendo come una freccia.
Purgatorio, canto XIX, vv. 64-69.
“Quale ‘l falcon, che prima a’ piè si mira,/ indi si volge al grido e si protende / per lo disio del pasto che là il tira,// tal mi fec’io; e tal, quanto si fende / la roccia per dar via a chi va suso,/ n’andai infin dove ‘l cerchiar si prende”. Come il falcone, che prima tiene lo sguardo rivolto verso il basso, ma poi al grido del falconiere si scuote e si protende verso l’alto, per il desiderio del pasto che lo attira, così feci io; e con questo slancio salii la scala scavata nella fenditura della roccia, fino a dove si ricomincia a camminare in cerchio.
Nota: i due poeti sono ancora nella quarta cornice, quella degli accidiosi. Prima del sorgere del sole, Dante sogna una donna balbuziente, guercia, storpia, monca e pallidissima, che però sotto lo sguardo del poeta si trasforma in una bella giovane dalla voce melodiosa, che cantando dichiara di essere una sirena, colei che incanta i marinai e li fa naufragare. Arriva però una donna santa (Beatrice?), che chiama Virgilio e gli ordina di far sentire a Dante il fetore che emana dal ventre della sirena. Allora Dante si sveglia e Virgilio gli spiega il significato di quella figura femminile. E poi gli dice di affrettare il passo e di rivolgere lo sguardo in alto. A questo punto la similitudine del falcone si adatta bene a rappresentare lo slancio d’amore dell’anima verso Dio. E’ il corretto stimolo verso l’unico giusto oggetto di desiderio, in contrapposizione con l’amore verso i falsi beni che la vita terrena promette.
Paradiso, canto XIX, vv. 34-39.
“Quasi falcone ch’esce del cappello,/ move la testa e con l’ali si plaude,/ voglia mostrando e faccendosi bello,// vid’io farsi quel segno, che di laude / de la divina grazia era contesto,/ con canti quai si sa chi là sù gaude”. Come un falcone addomesticato che viene liberato dal cappuccio scuote la testa e batte le ali, manifestando il suo desiderio di volare e compiacendosi, così vidi muoversi quella figura, che era costituita di spiriti che lodavano la grazia di Dio con canti che può immaginare solo chi ne gode in Cielo.
Nota: nel cielo di Giove gli spiriti giusti compiono per Dante una serie di grandiose evoluzioni: dapprima disponendosi in forma di una scritta, poi di una M, infine di un’aquila gigantesca. L’aquila formata dagli spiriti parla in prima persona con un’unica voce. Dante l’interpella chiedendo che gli si chiarisca un dubbio. La similitudine colpisce per l’esattezza dei dettagli: la letizia delle anime che compongono l’aquila si manifesta nei movimenti della testa, delle ali, proprio come fa il falcone liberato e pronto alla caccia. Ben due versi descrivono i movimenti frenetici del rapace quando il cappuccio gli viene tolto, segno inequivocabile che sta per avere inizio la caccia, fonte della sua gioia. La descrizione è così accurata che abbiamo davvero l’impressione che l’aquila dei Beati abbia a sua volta le piume.
Fanciullini. Purgatorio, canto XXIV, vv. 106-111.
“Vidi gente sott’esso alzar le mani / e gridar non so che verso le fronde,/ quasi bramosi fantolini e vani // che pregano, e ‘l pregato non risponde,/ ma, per fare esser ben la voglia acuta,/ tien alto lor disio e nol nasconde”. E sotto quell’albero vidi anime che sollevavano le mani e gridavano in direzione dei rami, come bambini pieni di desiderio che pregano inutilmente, perché colui che pregano non risponde, ma, per far sì che il loro desiderio si acuisca, tiene in alto ma ben visibile l’oggetto che desiderano.
Nota: siamo nella sesta cornice, quella dove i golosi espiano i loro peccati. Qui Dante ha incontrato Forese Donati, poeta fiorentino e suo grande amico. I due amici parlano a lungo, soprattutto di cose letterarie. Poi Forese velocemente si allontana. Dante, Virgilio e Stazio giungono a un altro albero, il secondo incontrato in questa cornice, e qui assistono a una parte importantissima dell’espiazione di questi peccatori. E’ il momento nel quale, passando accanto all’albero rovesciato, essi sentono il desiderio di mangiarne i frutti e di berne l’acqua profumata che ne bagna i rami, ma non ci riescono. Tra poco una voce dirà che quest’albero è una filiazione di quello biblico della “scienza del bene e del male”. La similitudine in questo caso è un mezzo tecnico che serve a ristabilire la naturale progressione della narrazione in chiave realistica.
Purgatorio, canto XXVII, vv. 43-45.
“Ond’ei crollò la fronte e disse: “Come!/ volenci star di qua?”; indi sorrise / come al fanciul si fa ch’è vinto al pome”. Perciò Virgilio scosse il capo e disse: “Allora! Vogliamo starcene fermi da questa parte?”; poi sorrise, come a un bambino che sia stato convinto dalla promessa di un frutto.
Nota: settima cornice; l’Angelo della castità cancella l’ultima P dalla fronte di Dante. Ora il pellegrino ha ultimato la purificazione, ma prima di poter salire al giardino dell’Eden, deve attraversare un muro di fuoco, dietro il quale c’è la scala scavata nella roccia. Dante è restio ad affrontare la prova, non riesce a superare l’attaccamento alla propria fisicità. Per convincere l’allievo restio a entrare nel fuoco Virgilio lo avverte che dall’altra parte c’è Beatrice ad attenderlo. E Dante si fa fanciullo, attratto dalla bellissima promessa. Ci si abbandona alla gioia fiduciosa. Lo stupore di Virgilio si umanizza in una grazia di garbata ironia. Questo è uno dei passi del poema in cui il rapporto fra il maestro e l’allievo raggiunge il più alto grado di confidenza e di spontaneità: qui Virgilio e Dante sono due personaggi autonomi, legati da un autentico affetto. E il pellegrino ha riacquistato l’innocenza di un fanciullo, come si conviene a chi sta per entrare nel giardino dell’Eden.
Purgatorio, canto XXXI, vv. 64-69.
“Quali fanciulli, vergognando, muti / con li occhi a terra stannosi, ascoltando / e sé riconoscendo e ripentuti,// tal mi stav’io; ed ella disse: “Quando / per udir se’ dolente, alza la barba,/ e prenderai più doglia riguardando”. Come i fanciulli che si vergognano dei loro errori stanno silenziosi a occhi bassi, ascoltando i rimproveri, riconoscendo le colpe e pentendosi, così stavo io; e Beatrice disse: “Se ti addolora il solo udire i miei rimproveri, allora alza il tuo mento di uomo adulto e, guardandomi, sarai ancora più addolorato.
Nota: nell’Eden Dante ha perso Virgilio e ha incontrato Beatrice. La sua donna gli parla rimproverandolo duramente: è colpevole di non aver elevato il suo spirito, dopo la morte di lei, ma di essersi lasciato affascinare dalle false promesse di una perfetta felicità terrena. L’unica attenuante che gli concede è quella di aver agito con la leggerezza e la superficialità di un giovane. Ha creduto che una filosofia tutta laica, che disprezzava le leggi teologiche, potesse indirizzarlo verso la verità, invece di cercarla in Dio. Dante vuole alludere ancora una volta al folle volo, gravissimo peccato di superbia intellettuale, che ha portato al naufragio, cioè alla condanna da parte della Chiesa e alla dannazione proprio gli aristotelici radicali, simboleggiati dalla tragica figura di Ulisse. La conclusione di Beatrice è tagliente: Dante non è più un novellino, e come gli adulti dovrebbe avere esperienza delle trappole ingannevoli. Il poeta si riconosce colpevole, ma Beatrice vuole che raggiunga la piena consapevolezza della propria autonomia di uomo adulto, che deve agire in modo retto, dopo aver ritrovato la giusta direzione.
Fanciulla che danza. Paradiso, canto XXV, vv. 103-108.
“E come surge e va ed entra in ballo / vergine lieta, sol per far onore / a la novizia, non per alcun fallo,// così vid’ io lo schiarato splendore / venire a’ due che si volgieno a nota / qual conveniesi al loro ardente amore”. E come una ragazza si alza ed entra tra le compagne che danzano solo per manifestare la sua gioia e il suo rispetto alla sposa novella, ed entra non spinta da vanità riprovevole, così vidi allora la nuova anima splendente avvicinarsi alle altre due che giravano danzando a ritmo del coro, in accordo con la loro ardente carità.
Nota: dopo aver superato l’esame sulla fede con San Pietro, Dante poeta spera di poter tornare a Firenze grazie alla fama del suo poema sacro. Ora nel cielo delle Stelle fisse appare San Giacomo, accolto festosamente da Pietro. Giacomo esamina Dante sulla speranza: che cosa è, quanto intensa è la sua, da dove gli viene. Il pellegrino supera felicemente l’esame. Appare infine il terzo apostolo esaminatore, San Giovanni. L’unico sentimento che anima lo spirito che fa il suo ingresso in scena è la carità, terza e ultima virtù teologale. Né vanità, né invidia sono in lui, come non sarebbe possibile in una giovane donna innocente, che partecipi alla festa di nozze di una sua coetanea.
Il febbricitante pauroso. Inferno, canto XVII, vv. 85-90.
“Qual è colui che sì presso ha ‘l riprezzo / de la quartana, ch’ha già l’unghie smorte,/ e triema tutto pur guardando ‘l rezzo,// tal divenn’io a le parole porte;/ ma vergogna mi fé le sue minacce,/ che innanzi a buon segnor fa servo forte”. Come colui che sente avvicinarsi sempre di più il brivido della febbre quartana, tanto che ha già le unghie livide e trema tutto soltanto a guardare un luogo fresco, simile a quello io divenni alle parole dettemi da Virgilio; ma la vergogna, che rende coraggioso un servitore dinanzi al suo padrone valoroso, minacciò di perseguitarmi se mi fossi dimostrato vile e mi diede forza.
Nota: I due viandanti attendono sull’orlo del baratro il mostro Gerione, creatura alata e dotata di coda serpentina, che deve trasbordarli fino ai cerchi inferiori dell’Inferno. Dante è spaventato e inorridito dal dover salire –con grande ribrezzo- sulla schiena di Gerione, eppure è fiducioso che un semplice abbraccio del suo maestro basti a confortarlo. Di solito Gerione non trasporta mai alcun carico quando viaggia nel tenebroso spazio infernale in qualità di guardiano dei fraudolenti. Il servizio che compie con Dante è assolutamente eccezionale e la similitudine drammatizza la situazione, secondo un procedimento di dilatazione dell’attesa che Dante ormai padroneggia.
Il ferro bollente. Paradiso, canto I, vv. 58-63.
“Io nol soffersi molto, né sì poco,/ ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,/ com’ ferro che bogliente esce del foco;// e di sùbito parve giorno a giorno / essere aggiunto, come quei che puote / avesse il ciel d’un altro sole addorno”. Io non sopportai a lungo la vista del sole, ma nemmeno tanto poco da non riuscire a vederlo proiettare scintille intorno, come il ferro che esce incandescente dal fuoco; e sembrò all’improvviso che una nuova luce diurna si aggiungesse a quella del giorno, come se Dio avesse ornato il cielo con un altro sole.
Nota: nella luce del mezzogiorno, ancora nel Paradiso terrestre, Dante personaggio vede Beatrice fissare il sole: desidera fare altrettanto e subito gli sembra che la luce del cielo raddoppi d’intensità. Così, senza rendersene conto, Dante è salito nella sfera del fuoco, che divide la terra dal sistema dei cieli. Il pellegrino poeta non ha coscienza di ciò che gli sta accadendo: egli sta attraversando la sfera del fuoco per la via aperta dallo sguardo di Beatrice, quindi solo in forma di viva luminosità. Ben diversamente si era svolto l’attraversamento del muro di fuoco che divide le cornici del Purgatorio dal Paradiso terrestre, perché allora Dante non era ancora del tutto purificato.
La similitudine riprende, concisamente, un passo di Ovidio: “così fa di solito il ferro arrossato dal fuoco, quando il fabbro con curva tenaglia lo preleva e lo tuffa in una vasca: sommerso, stride e sibila, nell’acqua che diventa tiepida”(Metamorfosi, libro XII, 276-279) .
Il ferro incandescente. Paradiso, canto XXVIII, vv. 88-90.
“E poi che le parole sue restaro,/ non altrimenti ferro disfavilla / che bolle, come i cerchi sfavillaro”. E appena Beatrice ebbe smesso di parlare, i nove cerchi scintillarono proprio come il ferro quando è incandescente.
Nota: nel Primo Mobile, guardando negli occhi di Beatrice, Dante vede riflesso un punto luminosissimo, di intensità insostenibile, circondato da nove cerchi concentrici come di fuoco. Giratosi, ha la conferma che quello che ha visto è reale: Beatrice gli spiega che i nove cerchi non sono cieli come potrebbero sembrare, ma le Intelligenze angeliche, che ricevono amore e sapienza direttamente da Dio, ruotandogli intorno. La similitudine incarna in immagine uno stato d’animo, dando luce e aria all’idea. Il trionfo degli Angeli diventa più sfolgorante dopo che nella mente del pellegrino la verità sulla loro natura splende finalmente libera da ogni offuscamento. Ciascuno dei nove cerchi rotanti emette punti luminosi simili a nuvole di scintille che si sprigionano da masse di ferro incandescente: vale a dire, ciascun Angelo mantiene la propria individualità, ma non si stacca mai dalla sua schiera, alla quale è legato indissolubilmente dall’intensità della propria virtù, derivata direttamente da Dio.
Gennaro Cucciniello