Dino Risi, “Il sorpasso”, 1962. Un’analisi.
Il solleone del mezzogiorno ferragostano arrostisce l’asfalto delle strade di Roma, vuote per via della febbre della villeggiatura che è figlia del benessere o della sua illusione, e picchia sull’auto scoperta di Bruno Cortona, quarantenne. Il personaggio ha la stessa età anagrafica di Vittorio Gassman, l’attore che in questo film per la prima volta recita in un ruolo comico-realistico. E’ vero che era stato Mario Monicelli, scegliendolo nel 1958 per “I soliti ignoti” ad emanciparlo da una carriera cinematografica fino a quel momento infelice e ad offrirgli il suo primo ruolo simpatico e da commedia, ma il suo volto era lì deformato dal trucco grottesco. No, questa volta Gassman ha la propria faccia e, forse, anche più d’una delle proprie caratteristiche di carattere. Protagonista, irruento, prevaricatore, dotato di un’indomabile esuberanza: Bruno non è “coltivato” come lui, è un prodotto tipico dell’Italia della ricostruzione e del miracolo, un esperto nell’arte di arrangiarsi e della cialtroneria improvvisatrice, un disgraziato, ma anche un uomo che si mangia la vita e non gli basta mai, che ha fretta, che corre non sa neanche lui per arrivare dove, ma l’importante è andare, non fermarsi troppo a pensare e vivere consumando un’esperienza dietro l’altra senza lasciarsi scappare niente.
Dunque, Bruno è a corto di sigarette ed ha bisogno di un telefono, gira all’impazzata sgommando e ignorando stop e semafori, ma non trova neanche un bar aperto. Ferma accanto a una fontanella di una strada di un quartiere di quelli sorti in quegli anni di frettolosa costruzione e irresponsabile speculazione, per dissetarsi, e nota un’ombra che si ritrae da una finestra aperta. Non è da lui rinunciare a provarci. E chiama. Chiama (“lo sventurato rispose”) Roberto Mariani, uno studente universitario in giurisprudenza che ha la famiglia fuori e combatte con i libri per preparare un esame, ma è distratto, forse dal caldo, forse dal pensiero della ragazza del palazzo di fronte che gli piace ma alla quale gli è sempre mancato il coraggio di rivolgere la parola. Bruno irrompe nella sua vita timida, indecisa, introversa. E in poche ore la cambia per sempre.
Roberto lascia salire in casa lo sconosciuto (la sua voce interiore ci rende partecipi, d’ora in poi, del contraddittorio conflitto tra un’immediata tentazione di rigetto verso quell’essere così diverso, così volgare e deplorevole, e l’opposta tentazione, che si rivelerà vincente e fatale, di lasciarsi contagiare e coinvolgere da quel travolgente vitalismo, da quella religione della facilità e della velocità) e nel breve volgere di pochi minuti, esterrefatto e in fondo affascinato, lo vede gironzolare per casa sua, toccare tutto, familiarizzare in un batter d’occhi con la sua vita e i suoi problemi, lavarsi, telefonare, parlare parlare parlare, e infine proporgli di accompagnarlo a prendere con lui un aperitivo. Senza neanche il tempo di rendersi conto, senza avere risposto né sì né no, Roberto si trova in macchina con questo estraneo, trascinato in un’avventura di strada che durerà meno di ventiquattro ore, ma dense come una vita, il tempo di una corsa lungo la via Aurelia da Roma a Castiglioncello.
Un traguardo chiama l’altro: l’aperitivo diventa un pranzo alla trattoria fuori porta che a sua volta diventa una mangiata di pesce a Civitavecchia, una visita agli zii di Roberto nella vecchia casa di campagna dove egli non mette più piede da quando era ragazzino, l’imbattersi nel commendatore con il quale Bruno deve trattare non meglio precisati affari e che lo congeda con disprezzo (ma non senza che lui abbia allungato le mani sulla moglie procace e disponibile del commenda), un salto in Versilia a trovare la moglie separata e la figlia adolescente ma super sviluppata di Bruno. E gli incontri fortuiti, le piccole avventure si succedono vorticose in un alternarsi incessante, anzi in un misto inestricabile di euforia e di presagi angosciosi. Il vecchio contadino preso in autostop (“ma nun core sta machina?”) e dal sigaro puzzolente, la camerierina di Civitavecchia con la quale Bruno tenta senza tanti complimenti un approccio non riuscito, le dueturiste tedesche prima inseguite e poi abbandonate al cimitero di guerra (superstizione o rispetto?), la stazione di servizio e Roberto che rimane chiuso nella toilette, il padre e il figlio in Seicento insolentiti ed esasperati dal Bruno pirata della strada, l’incidente stradale che Bruno dice di voler “comprare” in blocco incurante del dramma (ma ci ripensa subito), il commento sulla canzone “Vecchio frac” di Modugno: i pensieri profondi perché io so’ un tipo chiuso. E la parentesi degli zii di Roberto, una digressione forse un po’ meno necessaria delle altre, che segna uno scadimento di tono nel melanconico non troppo pertinente, ma che serve ancora una volta per dimostrare a Roberto quanto lo stile sbrigativo e tracotante del nuovo amico –eh sì, ormai, anche se involontariamente sono diventati amici- risulti comunicativo, simpatico, popolare, in fondo più autentico del suo rispettoso ma sterile distacco dalla vita.
Non sempre, perché l’incontro con moglie e figlia (che sorpresa, per Roberto, scoprire che Bruno ha una famiglia) è anche il nodo al pettine di uno stile di vita disordinato e dispersivo, fallimentare. Più compatito che amato, Bruno deve fare i conti con l’umiliazione del quarantenne che non ha combinato nulla. E davanti allo spettacolo un po’ turpe della figlia sedicenne che ha un amante con i capelli bianchi ma dal ricco portafoglio (un classico personaggio per Claudio Gora) può solo fingere di indignarsi –da che pulpito potrebbe dare lezioni di vita e di morale- e borbottare impotente.
Si sa come va a finire. Ormai completamente preso dall’incoscienza, ubriaco di quella che gli appare infine come l’invidiabile, ammirevole leggerezza di vivere di Bruno, Roberto ha riposto ogni inibizione ed è lui, ora che si sono congedati dalla famiglia di Bruno e da ogni legame e impegno morale, a incitare il compagno a superare se stesso, a prodursi in sempre più spericolate manovre e spavalde bravate. Ma un sorpasso in curva presenterà il conto della grande illusione: l’auto finisce fuori strada e la festa, così breve, sarà finita per sempre. Ma chi pagherà questo prezzo? Non Bruno, come giustizia forse vorrebbe (e come un primo progetto meno sottilmente moralistico prevedeva a sua volta, dando all’apologo un sapore più scontato) ma l’incolpevole Roberto, che paga per essersi lasciato traviare o per aver ceduto al piacere un po’ diabolico di vivere un giorno e una notte senza freni. Alla polizia stradale che gli chiede di Roberto Bruno risponde attonito –è troppo anche per lui, la festa è per sempre finita, il tempo dei giochi è scaduto anche per lui- “si chiamava Roberto, il cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina”. Incredulo, forse, davanti all’incontro con la morte: che non aveva mai messo in conto.
Paolo D’Agostini
(dal suo libro su “Dino Risi”, Il Castoro Cinema, 1995, pp. 56-59)