Due o tre cose da dire sulla cosiddetta “minoranza” del PD
Sono passati quattro anni da quando ho scritto alcune considerazioni sulla travagliata storia del Partito Democratico (vedi l’articolo pubblicato, nel mio Sito, portale “Politica”, l’8 gennaio 2011 e intitolato “Il Pd sarà un partito riformista? Il Pd sarà un partito o solo un conglomerato di fazioni e di sottopotere?”). Avevo deciso di non scrivere più su questo argomento ma i fatti strani di questa folle politica italiana mi stimolano ad annotare qualche ulteriore riflessione. Davvero il Pd è una comunità che continua a non volersi bene. Ho letto qualche giorno fa sulla “Repubblica” un’intervista rilasciata dall’on. Bersani nella quale l’ex segretario del partito riconferma le sue opinioni negative sull’Italicum (la legge elettorale proposta da Renzi ed ora giunta –dopo un cammino di scrittura e riscrittura- alle ultime battute parlamentari) e sulla riforma costituzionale del Senato e ribadisce la sua intenzione di non votare le due leggi. Ne consegue che Bersani unirà il suo voto e quello dei deputati Pd che lo affiancheranno ai voti di Forza Italia (inopinatamente diventata contraria, dopo l’elezione di Mattarella, all’approvazione delle stesse riforme che ha contribuito a scrivere), della Lega, di Fratelli d’Italia, del M5S, di Sel, anche a rischio di far cadere il governo, di andare alle elezioni anticipate con il Consultellum (il proporzionale puro deciso dalla Corte Costituzionale) e quindi di costringere poi il Pd (o quel che resterà) anche domani a governi di necessitata coalizione con la Destra, il ripetersi di un’alleanza contro natura, governi pasticciati e di collaudata impotenza a riformare la scassata macchina italiana. Invece che faticare a vincere, non è meglio -in fondo- dare una mano agli avversari? Tutto questo quando fare politica ha alimentato inconcepibili e immotivati privilegi, divenuti intollerabili in un’ormai lunga stagione nella quale la stragrande maggioranza della popolazione è costretta a pesanti sacrifici e rinunce: legati in non piccola misura proprio alla voracità, alla mediocrità, all’inconcludenza di questa classe politica infeltrita e voltagabbana. E allora facciamo il punto su alcune questioni.
C’è una battuta interessante, non mi ricordo di quale polemista: “Se si chiama minoranza c’è un motivo ed è perché ha perso”. Nel dicembre 2013 si sono svolte le primarie congressuali del Pd, dopo le dimissioni di Bersani, in seguito alla vittoria-non vittoria nelle elezioni politiche del febbraio 2013 e alla nascita conseguente del governo Letta, fondato sulla coalizione obbligata con Forza Italia. Renzi vinse nettamente quel congresso col 68% dei consensi di quasi 3 milioni di cittadini, e le vinse con un suo programma che poi –da segretario- sta cercando di realizzare. Una nuova legge elettorale, che mettesse in soffitto il “Porcellum” di Calderoli, e una legge costituzionale che superasse il bicameralismo perfetto erano tra i punti fondamentali di quel programma. Dovrebbe esserci una logica stringente in un partito che si dice democratico e che –per di più- si proclama erede di gloriose tradizioni di sinistra: gruppi o coalizioni di forze e di personalità, che sono portatori di idee e interessi e che –in una battaglia congressuale- sono stati sconfitti, dovrebbero accettare la sconfitta e prepararsi –con lo studio teorico e con l’impegno nella prassi- a vincere nella prossima sfida del 2017, collaborando nel frattempo lealmente col vincitore, discutendo legittimamente ma non sabotando i tentativi di realizzare i punti programmatici approvati da quasi due milioni di cittadini e che faticosamente si stanno traducendo in pratica in un quadro di difficile coabitazione con un partito di centro-destra, alleanza obbligata dagli esiti di una elezione che proprio la segreteria Bersani aveva nella sostanza perso. Quindi c’è un primo dato incontrovertibile: Civati e Cuperlo (32% dei voti congressuali) e tutti i parlamentari che li affiancano non hanno accettato, nella sostanza e al di là delle dichiarazioni, i risultati del congresso del 2013 e vogliono utilizzare qualsiasi pretesto per rovesciarli. Quel congresso non è mai finito. Non si vuole accettare la legittimazione data al vincitore da primarie finalmente competitive e si vuole ritornare a forme di cooptazione correntizia, imposte persino col ricatto apertamente proclamato. Diciamola tutta: gli oppositori non si aspettavano che Renzi vincesse la competizione con quel risultato schiacciante; prefiguravano invece sì una vittoria di Renzi ma con uno scarto minimo, poco più del 50%. Questo avrebbe consentito un governo contrastato del partito e una possibilità seria di continuare a impaludare la scommessa del rinnovamento.
Di più. Sono in discussione il criterio e la pratica della leadership e della democrazia come capacità di decidere. E quindi, senza dirlo esplicitamente, anche della logica delle Primarie. Se in una competizione democratica uno vince e gli altri perdono, il vincitore non è tenuto a discutere all’infinito –con i suoi competitori sconfitti- i contenuti della sua azione di governo, resa esplicita dal programma che è stato approvato. Deve solo poterli realizzare, nella situazione di fatto dei rapporti di forza parlamentari e della disponibilità degli altri partiti, chiedendo l’approvazione degli organi dirigenti del Pd (e mi risulta che la Segreteria abbia convocato la Direzione Nazionale tantissime volte e che abbia sottoposto metodi e risultati della sua azione anche a numerose riunioni delle assemblee dei gruppi parlamentari). I temi sono i grandi nodi irrisolti degli ultimi 25 anni: in sintesi, riforma del mercato del lavoro, diminuzione della pressione fiscale sui produttori, correzione dell’ipertrofia burocratica e normativa, fine dello spreco di risorse pubbliche, modifica del parassitismo di intere porzioni di territorio, una politica europea finalmente concentrata sulla crescita. Le grandi democrazie parlamentari non sono fondate sul compromesso ma sull’attuazione netta del principio di maggioranza. I governi poggiano su un programma che attuano attraverso le leggi. I governi sono guidati dal segretario del partito più forte. Il governo è il comitato direttivo della maggioranza. La programmazione dei lavori parlamentari è effettuata in modo chiaro da maggioranza e governo. Un sistema che si vuole mantenere sempre e solo consensuale è inevitabilmente irresponsabile e incapace di decidere. Angela Merkel è una donna sola al comando? C’è qualcuno in Germania o in Europa che lo pensi o lo scriva? Cameron è il tiranno del partito conservatore inglese? Le grandi democrazie non funzionano senza leader. C’è nostalgia nel Pd, soprattutto nella componente di derivazione comunista, dell’accordo logorante tra capi-corrente, della cosiddetta “concertazione da caminetto”, pratica che –grazie all’accorta direzione di D’Alema- logorò inesorabilmente la segreteria di Veltroni e lo costrinse alla resa tra il 2008 e il 2010. Una pratica che io lego strettamente anche ad un’organizzazione del Pd sul territorio che, con la caduta dell’ideologia salvifica e provvidenzialistica del socialismo “sol dell’avvenire”, si è ramificata su cordate di cacicchi locali, di reti di interessi che –come stanno svelando le indagini della magistratura in tante parti d’Italia- si intrecciano con episodi di malcostume e di malaffare. A questo proposito l’indagine che Fabrizio Barca sta completando sul Pd di Roma, su mandato esplicito del Pd nazionale, che sarà finita entro il prossimo giugno e che sarà possibile leggere in Rete, spiegherà in tutta la sua compiutezza proprio questo processo di deriva politico-affaristica e indicherà, io spero, le strade di una possibile correzione. E l’esperienza di questi ultimi anni sta confermando quanto il potere burocratico-feudale sia impermeabile ad ogni forma di controllo, quanto i gangli dello Stato siano nelle mani di un’alta burocrazia infiltrata dagli interessi privati, dalle sirene delle carriere e dei denari, mescolata ad una degenerazione anche etica della classe dirigente politica.
Parliamo ora delle legge elettorale. Siamo arrivati all’Italicum attuale dopo un anno di trattative e di mediazioni, dentro e fuori del Patto del Nazareno, facendo accettare ad Alfano e a Berlusconi molte proposte della minoranza democratica e delle opposizioni (il voto alla lista, voluto dal M5S, e l’abbassamento della soglia al 3%, voluto da Sel, solo per citare due esempi). Ad un politico di lunga durata e di solida preparazione, quale è Bersani, viene naturale chiedere quale proposta di legge elettorale in alternativa intenda sostenere (sembra che ora riproponga il “Mattarellum”) e con quali e quanti voti possa farla approvare in Parlamento. A tutt’oggi, se la grande maggioranza del Pd renziano sostiene l’Italicum, Bersani potrebbe disporre al massimo di 60-70 voti, ai quali possono aggiungersi i pochi di Sel; tutte le forze di destra e di centro sono contrarie e i grillini sono, al solito, sulla luna. Quindi quale concretezza, e Bersani passa per essere uomo molto pragmatico, avrebbe una tale sua decisione? Pur di non guardare la realtà è possibile che Bersani si lasci sedurre da profezie miracolistiche? O c’è dell’altro? Una crisi di governo su una legge elettorale discussa, ridiscussa, modificata e votata già tre volte non la capirebbe proprio nessuno. E poi: si può rinunciare tanto facilmente al ballottaggio tra le due liste vincitrici, se nessuna riesce a raggiungere il 40%, un ballottaggio che è stato obiettivo di governabilità e di chiarezza, perseguito dalla Sinistra da almeno 30 anni (già Ingrao negli anni ’80 ci si era misurato con una sua proposta)? E si può anche snobbare il voto alla lista e non alla coalizione, compimento pieno del partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, non più ricattabile da alleati massimalisti e parolai? Abbiamo già dimenticato la sprezzante definizione coniata per Prodi da Bertinotti nel 2007 di “ultimo grande poeta italiano morente”? Quanto infine al problema delle preferenze, come è possibile dimenticare che per almeno un trentennio tutta la Sinistra ne ha sempre condannato l’uso e l’abuso, ritenendole giustamente fonte di corruzione e di clientelismo? Ora, inopinatamente (?), è proprio la Sinistra sinistra -anche quella massimalista- a sbracciarsi per rivendicarne le stimmate della vera democrazia. Qui qualcosa davvero non convince. Questa è una legge che -nelle difficili condizioni imposte dai risultati elettorali del 2013- consente di avere governabilità (elemento cruciale di una democrazia decidente) e rappresentanza e che impone la chiarezza davanti ai cittadini elettori. Marcello Sorgi ha scritto sulla “Stampa” che una cosa soltanto è evidente: il vero dibattito non è tra Renzi e chi propone cambiamenti, ma tra chi vuole davvero una nuova legge elettorale e chi usa qualsiasi pretesto per rinviarla all’infinito. E così torniamo al punto.
Machiavelli ci ha insegnato che il conflitto e la crisi non sono spettri da scongiurare ma occasioni di esercizio della virtù creatrice della politica. La repubblica è corrotta quando è inetta, quando si dimostra impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti che sono la ragione della sua stessa vita. Inetta a capire quali dei suoi ordinamenti siano da superare (il bicameralismo perfetto, per esempio) e quali nuovi da introdurre. Corruzione è anzitutto impotenza, e impotenza è incapacità di deliberare. Scriveva Massimo Cacciari in un numero dell’Espresso del febbraio 2014, riprendendo il Machiavelli del “Principe”, che “per vedere tutta la virtù di Mosé era necessaria tutta la miseria di Israele”.
Io sono stato per tanti anni, dai sessanta agli ottanta del ‘900, un militante del PCI, poi fin dalla nascita, nel 2007, ho guardato con simpatia e apprensione alla stentata evoluzione del Pd. Ora noto, dopo l’avvento di Renzi alla segreteria del partito, il montare di una polemica che volutamente chiama autoritarismo la volontà e la capacità di decisione e decisionismo la decisione stessa. In fin dei conti si sostiene che la vera democrazia esiste solo se il governo è debole. Ho studiato ai miei tempi che il parlamentarismo estenuato, confuso e contraddittorio portò alla fine dell’Italia liberale. E’ indubbio che Renzi stia provando a smantellare l’approccio alla cultura della sinistra tradizionale (la riforma della Rai e il disinteresse per i giornali fiancheggiatori), stia accantonando il giustizialismo tout court (non ascoltare in toto i magistrati nella riforma della giustizia), abbia annullato le concertazioni e si sia attirato le ire dei sindacati, soprattutto stia provando a ridisegnare la missione di un partito di centro-sinistra in Europa: non la proposta di una città futura pensata in astratto da un’élite ma costruire soluzioni pratiche ai problemi delle persone (avendo sicuri valori-guida). Se la variegata minoranza del Pd fosse davvero convinta che un tale orientamento politico e culturale sia insostenibile e che sia necessaria un’ennesima ricerca di identità ideologica monolitica, sulla scia di tanta gloriosa tradizione scissionistica, prenda allora seriamente in esame l’ipotesi di uscire dal partito e di creare un’aggregazione politica e sociale capace di dare rappresentanza –come loro dicono- “a un mondo che soffre e che si sente emarginato”. Darebbero un soccorso importante anche a chi, come Landini, incapace di realizzare l’unità dello schieramento sindacale persino all’interno delle fabbriche, cerca l’unità ossessivamente fuori, cercando di organizzare un “Movimento Coalizione Sociale” eterogeneo, trascurando la lezione della storia che dimostra che l’autonomia del sociale, fine solo a se stessa, inevitabilmente conduce all’isolamento velleitario o al corporativismo, o –nella peggiore delle ipotesi- a una sorta di forconismo indistinto. Tra l’altro io mi sono sempre chiesto, per esempio, come mai un Civati o un Fassina o persino un D’Attorre corrano il rischio di scivolare nel macchiettismo politico quando, tra una manifestazione e l’altra di protesta, ricercano con assiduità stampa e tv per le loro infiammate dichiarazioni di dissenso alle quali non fanno seguire i fatti. Non sarà perché questi personaggi cadrebbero nell’irrilevanza –anche mediatica e non solo politica- se facessero parte, per esempio, di Sel o di Rifondazione, e non di un partito che è diventato l’architrave del sistema di governo del paese? E si può trascurare il dato -incontestabile- che un Fassina, solo per fare un esempio, era nel 2011-2012 responsabile dell’Economia del PD e nel 2013 sottosegretario all’Economia del governo Letta (in alleanza quindi con Forza Italia) e che, in tale veste, accettò senza replicare sia tutti i provvedimenti severi di Monti (riforma delle pensioni, Fiscal Compact) che il balletto inverecondo sull’ICI-IMU? E che ora, nella veste dell’oppositore ad oltranza di un governo a nettissima maggioranza PD, teorizzi con irresponsabile superficialità sia l’uscita dell’Italia dall’euro che l’assunzione -senza alcun filtro concorsuale- di 300mila precari della scuola?
Sarà strano ma le due sinistre armate l’una contro l’altra diventano attuali ogni volta che la Sinistra si fa concreta, è chiamata a responsabilità di governo e deve realizzare le cose. Finiamola, una buona volta, con le consorterie, con le collusioni, con i privilegi: bisogna vivere per la politica e non vivere di politica. Quindi, se proprio non si riesce a stare insieme dentro il Pd, se si è convinti che le due tradizioni (quella del popolarismo cristiano e quella del post-comunismo) non possano utilmente coabitare, se si crede veramente che un partitino del 10% possa difendere meglio le condizioni di vita e di lavoro dei ceti deboli, allora è meglio dividersi tra una sinistra cosiddetta laburista e una sinistra liberale. Ma riflettano bene i massimalisti scissionisti: considerino che lo spazio della protesta dura è già saldamente presidiato dai Cinque Stelle e che quindi il loro cartello sempre più estremista aprirà l’ennesima guerra civile a sinistra.
Gennaro Cucciniello